Libri > Hunger Games
Ricorda la storia  |      
Autore: Kary91    20/02/2016    5 recensioni
[Everlark | One-Shot | child!Katniss&Mr. Everdeen / Katniss/Peeta ]
E non era facile neanche per lui, Katniss lo sapeva. Però per Peeta era diverso. La desiderava tanto, ne aveva sempre voluti. Sarebbe stato un bravo padre, ce l’avrebbe messa tutta. Avrebbe posto sua figlia sopra ogni cosa, a costo di tenersi a distanza da lei pur di proteggerla. E lei, lei sarebbe riuscita a fare lo stesso?
Peeta le strinse più forte la mano e sorrise, lo sguardo a seguire i contorni delle loro ombre sull’erba.
“Anch'io. Anch’io ho paura, Katniss.”

***
“Tu ci sarai per sempre, papà?” si sorprese a domandare all’improvviso Katniss.
Il padre non rispose subito. Continuò ad accarezzare i capelli della bambina, mugolando la melodia della ninnananna.
“Sempre” confermò infine. “Fino a quando il Prato crescerà e ti ricorderai di me, io sarò al tuo fianco. Ti ricordi, come dice la ninnananna?” chiese poi, tirandosi a sedere. “Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio. Qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio…
“Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare…” proseguì Katniss, abbozzando un sorriso. "Quello è il luogo in cui ti voglio amare.”
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Mr. Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Di biscotti, favole e pennelli.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questa storia si ispira ai prompt “child!Katniss/Mr. Everdeen – ‘tu ci sarai sempre, papà?’” propostomi da Giraffetta e “Katniss/Peeta - Eppure, per quanto cercasse di convincersi del contrario, niente sarebbe più tornato come prima.” proposto da Amortentia2610. La prima parte è ambientata durante l’infanzia di Katniss, mentre la seconda è ambientata dopo la Rivolta, con Peeta e Katniss che vivono già insieme.

 

Hay Meadow

 

Il sole era ormai sul punto di tramontare, quando Katniss e suo padre raggiunsero il Prato, mano nella mano. Qualche raggio di luce ritardatario dorava ancora le chiome degli alberi in lontananza e il vento giocherellava con i capelli della bambina, costringendola ad aggrottare le sopracciglia di continuo.

Il signor Everdeen sorrise, quando se ne accorse.

“Al vento, ogni tanto, piace fare i dispetti” scherzò, scostando con dolcezza un ciuffo nero dal volto della figlia.

Katniss abbozzò un sorriso.

“Ci sediamo qui?” chiese, quando raggiunsero un punto al centro del Prato. L’aria era tiepida nonostante il tempo e la ragazzina non aveva ancora voglia di tornare a casa. Le passeggiate con suo padre la divertivano così tanto ed erano così poco frequenti, che se solo avesse potuto le avrebbe fatte durare per sempre.

“Perché no?” acconsentì Caleb Everdeen, accovacciandosi nell’erba. Katniss si strinse le ginocchia al petto e appoggiò la testa sulla spalla dell’uomo.

Rimasero in silenzio per qualche istante, troppo occupati a godersi la serenità di quel momento per parlare.

“Il Prato c’è sempre stato?” chiese infine Katniss, inseguendo con lo sguardo un uccellino che zampettava poco distante.

Caleb si fece scorrere fra le dita un filo d’erba, mentre rifletteva sulla domanda.

“Sì e no” rispose, prima di portarselo alle labbra e soffiare: un suono tremulo e acuto si unì al rumore del vento, facendo sorridere Katniss; suo padre riusciva a far cantare qualsiasi cosa, inclusi gli oggetti.

“Un tempo era più grande e ci facevano il fieno: sai, prima che diventassimo tutti minatori. Ma ti sto parlando di migliaia di anni fa; a quei tempi, il Prato era spesso pieno di covoni di fieno e i bambini li usavano per i loro giochi. Di volta in volta potevano diventare misteriosi nemici da combattere o montagne da scalare.”

“Davvero?” chiese conferma Katniss, tornando ad aggrottare le sopracciglia: le veniva difficile immaginare un tempo lontano in cui gli abitanti del Giacimento non erano tutti dei minatori.

Il padre annuì.

“Sai, c’era un’usanza tra quelle genti, ogni volta che veniva costruito un nuovo covone di fieno. Quando una banda di bambini lo avvistava doveva corrergli incontro e il primo che riusciva a toccarlo avrebbe avuto un’annata fortunata: per un intero anno, si diceva, la sua famiglia avrebbe avuto il raccolto migliore del villaggio.”

Katniss concentrò lo sguardo sulla striscia di Prato che aveva di fronte; cercò di immaginarla ancora più estesa e rigogliosa e vi disegnò dentro con la mente una fila di mucchi di fieno. Le venne facile, poi, immaginare un gruppo mal assortito di ragazzetti con i calzoni corti e lo sguardo entusiasta che scorrazzava fra i covoni. Bambini come quelli che ciondolavano nel Prato tutti i giorni dopo la scuola e magari altrettanto sporchi e scombinati, ma con i volti più pieni, più rosei. Più felici.

“Sarebbe bello avere ancora i mucchi di fieno, qui” osservò, tornando ad appoggiarsi alla spalla del padre. La luce si stava assottigliando, e le loro ombre incominciavano a stagliarsi di fronte a loro: così vicine, a Katniss sembravano quasi parte di una persona sola. “A Prim piacerebbero.”

“Anche tu ti ci divertiresti” rispose Caleb, accarezzandole i capelli. “Le potresti usare per allenarti al tiro con l’arco” scherzò poi, indirizzandole un’occhiata d’intesa.

L’espressione di Katniss si fece tutto a un tratto più tesa.

“Non ce lo lascerebbero fare, papà” sussurrò, dandosi una rapida occhiata intorno.

Lo sguardo generalmente sereno di Caleb si rabbuiò appena.

“Però immaginare non costa niente, Katniss. Giusto?”

Fece un’altra carezza sul capo della ragazzina, che annuì. Incominciò a canticchiare fra sé un motivetto privo di parole, riprendendo a giocare con il filo d’erba che aveva in mano. Tutto a un tratto smise di mugolare e tornò a sorridere.

“Voglio insegnarti una canzone” mormorò, appoggiando i gomiti alle ginocchia e indicando un salice solitario a diversi metri da loro. “È una ninnananna, mia madre me la cantava spesso quando ero piccolo. Si sedeva proprio là, in quel punto: sotto il salice. E anch’io, qualche volta, l’ho cantata a te. ”

L’ombra d’irrequietezza che aveva velato per qualche istante lo sguardo di Katniss sfumò. Dopo le passeggiate con il padre, la seconda cosa che preferiva al mondo era sentirlo cantare: nessuno riusciva a farlo bene come lui.

Annuì e si sdraiò nell’erba, per potersi godere al meglio la canzone. Caleb sistemò al suo fianco e, rimanendo appoggiato sui gomiti, incominciò a cantare: il suo sguardo si era fatto distante, quasi stesse recuperando le parole della ninnananna da qualche posto lontano.

 

“Là in fondo al Prato, all’ombra del pino

C’è un letto d’erba, un soffice cuscino

Il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi

Quando li riaprirai, il sole avrai davanti.”

 

Katniss socchiuse gli occhi, cullata dalla voce dolce e profonda del padre. Era certa di aver già sentito quella melodia – probabilmente Caleb doveva averla cantata anche a Prim – ma quella era la prima volta in cui sentiva di caprine davvero il significato.

 

Accoccolata nel Prato, di fianco al suo papà, accarezzata dalla sua voce e dal soffiare giocoso del vento, si sentì tutto a un tratto davvero felice e senza paura. Si sentiva al riparo, nascosta dai momenti difficili e dalle cose brutte che succedevano tutti il giorno al Distretto 12. Si sentiva libera di dormicchiare senza temere gli incubi, di giocare senza dover pensare ai pochi soldi che avevano o al papà che lavorava in un posto pericoloso come la miniera.

 

 

“Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio

Qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio,

qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare

Questo è il luogo in cui ti voglio amare.”

 

Quando Caleb smise di cantare, il vento prese a soffiare più forte, quasi si fosse trattenuto fino a quel momento per non coprire la sua voce.

Katniss riaprì gli occhi e cercò lo sguardo del padre, sorridendo quando le dita dell’uomo le sfiorarono con dolcezza la fronte.

 “Tu ci sarai per sempre, papà?” si sorprese a domandare all’improvviso, una punta di insicurezza negli occhi.

Caleb non rispose subito. Continuò ad accarezzare i capelli della bambina, mugolando la melodia della ninnananna.

“Sempre” confermò infine, infilando le mani nelle tasche del suo giaccone da caccia. “Fino a quando il Prato crescerà e ti ricorderai di me, io sarò al tuo fianco. Ti ricordi, come dice la ninnananna?” chiese poi, tirandosi a sedere. “Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio

Qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio…”

 

“Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare…” proseguì Katniss, abbozzando un sorriso: riusciva sempre a memorizzare in fretta le canzoni che le cantava il padre. “… Quello è il luogo in cui ti voglio amare.”

Caleb annuì.

“Esatto” confermò. “E quel luogo è il Prato.”

Il sorriso di Katniss si allargò.

“E adesso chiudi gli occhi, bambina mia…” le sussurrò a quel punto Caleb in un orecchio, solleticandole il collo con il fiato. La ragazzina ridacchiò. “… Che cosa vedi?”

Katniss non era brava a immaginare cose che non c’erano: riusciva a farlo solo quando gliele avevano raccontate, specialmente se era stato suo padre a parlargliene, ma non quando era lei a dover inventare.

Eppure, quella sera, non dovette fare alcuno sforzo per fantasticare.

 “Ho appena visto un nuovo covone di fieno nel Prato…” rispose, strizzando più forte gli occhi. “Sto correndo e gli altri bambini del Giacimento mi stanno dietro. Io però sono più veloce: ci arrivo per prima e…”

Sorrise, prima di infilare una mano dentro quella del padre: Caleb gliela strinse.
“… E dietro al fieno, ci sei tu.”

 

***

 

Il sole era ormai sul punto di tramontare, quando raggiunsero il Prato, mano nella mano. Qualche raggio di luce ritardatario dorava ancora le chiome degli alberi in lontananza e il vento giocherellava con i capelli della donna, costringendola ad aggrottare le sopracciglia di continuo.

Non erano cambiati poi molto rispetto a quando era bambina: né il Prato, né lei.

C’era stato un tempo in cui il tappeto d’erba che la circondava in quel momento era andato perduto: i bombardamenti l’avevano distrutto, e al suo interno era stata scavata una fossa.

Tutti i morti giacevano lì sotto, adesso, eppure quel posto sembrava tutto fuorché un cimitero: i fiori e l’erba continuavano a crescere, più rigogliosi che mai.

Katniss sfiorò un bocciolo di primula ancora chiuso con il dorso della mano: le piacevano i fiori non ancora aperti. Avevano l’aria fragile, delicata… Andavano protetti, custoditi.

Specie le primule… Sì, soprattutto le primule.

Una vecchia ninnananna le accarezzò la mente e, nonostante la melodia fosse dolce, quel ricordo le fece male. Non cantava più da tempo, ormai: anni, forse. Il suo era stato una sorta di voto suggellato inconsciamente. Cantare le ricordava tutte le persone che aveva perso; come suo padre, come sua sorella. Come se stessa.

Cercava di pensare che le cose stessero gradualmente tornando alla normalità, per questo andava spesso al Prato. Perché da quando gli abitanti del Distretto si erano messi d’impegno per prendersene cura aveva incominciato a diventare ogni giorno più simile al luogo descritto dalla ninnananna di suo padre.

Era tutto come nella canzone, tutto come sempre, eppure… Eppure, per quanto cercasse di convincersi del contrario, niente sarebbe più tornato come prima.

Perché, anche se il Distretto 12 era stato ricostruito, la maggior parte delle persone che ci vivevano per Katniss erano delle sconosciute. Perché, nonostante vivesse ancora nel Villaggio dei Vincitori con Peeta e Ranuncolo, ogni stanza della sua casa era stata svuotata delle voci di sua madre e di Prim. Ogni camera era stata ripulita della loro presenza e il peso di quell’assenza feriva più dei segni fisici che ancora portava addosso e che non sarebbero mai scomparsi.

E tuttavia, a cambiare le cose più di tutto, era un cambiamento minimo, appena percettibile. Era un’incurvatura morbida sulla pancia di Katniss.

Era la presenza di qualcuno all’interno del suo ventre, che impediva la fluidità dei suoi movimenti.

Era qualcosa che le provocava terrore – un terrore antico quanto la vita stessa[1].

Lei si era fatta strada fra i suoi dubbi da poco più di quattro mesi. Katniss era sempre stata decisa a non avere figli, eppure, adesso che lei c’era e che non era più una semplice idea o una vaga possibilità, ma una presenza concreta, sapeva che non avrebbe mai permesso a nulla di ferirla. Che era compito suo custodirla con cura, non solo dal mondo, ma anche da se stessa.

Lei c’era, e Katniss stava imparando ad accettarla come qualcosa di inevitabile, a cui non ci si può opporre, perché è giusto così, va bene così.

Un po’ come era accaduto con Peeta, che in quel momento era seduto assieme a lei sotto il salice e le teneva la mano; ogni tanto rinsaldava la presa sulle sue dita, come a volerle ricordare la sua presenza. Come per sottolineare che erano in due a condividere quel fardello così grande, – ma così importante, così bello – quel pancione che tanto spaventava Katniss. Voleva ricordarle che erano assieme ancora una volta , a fare squadra per proteggersi – per proteggerla– proprio come quella prima volta nell’Arena, con addosso nient’altro che la paura e un esasperato istinto di sopravvivenza.

E non era facile neanche per lui, Katniss lo sapeva. Però per Peeta era diverso. La desiderava tanto, ne aveva sempre voluti. Sarebbe stato un bravo padre, ce l’avrebbe messa tutta. Avrebbe posto sua figlia sopra ogni cosa, a costo di tenersi a distanza da lei pur di proteggerla.

E lei, lei sarebbe riuscita a fare lo stesso?

“Anche io.”

Peeta le strinse più forte la mano e sorrise, lo sguardo a seguire i contorni delle loro ombre sull’erba.

“Anch’io ho paura, Katniss.”

Era la prima volta che lo diceva apertamente.

Katniss annuì, continuando a fissare i margini del Prato, là dove il tappeto d’erba lasciava il posto ai boschi.

“Diventare padre è una cosa che ho sempre desiderato e lo sai bene… Ma non sono più quella persona.”

Peeta appoggiò la mano libera sul proprio ginocchio e poi scese appena, a fasciare il punto in cui un tempo c’era stata la sua gamba. Un’ombra di tristezza velò il suo sguardo per un istante.

“Per quanto cerchi di convincermi del contrario, per quanto ogni tanto mi sembra di essere tornato il vecchio me stesso, non avrò mai la certezza di essere riuscito a fare quel passo indietro. La certezza di sapervi al sicuro al mio fianco. Eppure vale la pena provarci.” aggiunse, cercando di incontrare lo sguardo di Katniss: i suoi occhi, ora, rilucevano di determinazione. “Dobbiamo provarci.”

Katniss guardò altrove; una ghiandaia attraversò il Prato volando basso e la sua mente, ancora una volta, si riempì della voce del padre.

“Non ho mai voluto dei figli” replicò infine in un sussurro, appoggiandosi una mano sulla pancia: toccare la vita che aveva dentro le provocava una sensazione insolita, spaventosa, eppure bellissima. Era come passeggiare nel Prato assieme a suo padre, come ascoltarlo cantare: avvertiva lo stesso legame saldo e naturale che in passato l’aveva unita a lui, e in seguito a Prim.

Che fosse quello a spaventarla così tanto?

“Nemmeno tu sei la persona che eri una volta” rispose in tono pacato Peeta, addolcendo la sua espressione. Katniss appoggiò il volto alla sua spalla, proprio come da bambina faceva spesso con il padre. Peeta le sfiorò i capelli con le labbra e poi la strinse a sé, cingendole la vita con un braccio.

“E se non riuscissi a volerle bene?”

Il sussurro di Katniss si era fatto più flebile e il vento cercò di coprirla, soffiando con insistenza sui loro volti. “E se perdessi la testa come mia madre? Se la lasciassi sola?”

Peeta scosse la testa.

“Non hai mai abbandonato le persone che avevano bisogno di te” replicò poi con fermezza, appoggiando la fronte ai suoi capelli. “Non l’hai fatto con tua madre o con Prim e nemmeno con Rue. E poi le vuoi già bene” aggiunse, sfiorando con tenerezza il ventre della donna.

Katniss aggrottò appena le sopracciglia.

“Che cosa te lo fa pensare?” replicò, affatto convinta.

“Sei tu a dirmelo” rivelò lui con un sorriso, prima di chinarsi in avanti per baciarla. “Ogni volta che ti guardi la pancia.”

Le sue parole non riuscirono a tranquillizzarla del tutto; tuttavia, Katniss non oppose resistenza quando Peeta le prese la mano per posargliela sul pancione, sotto la camicia.

Un po’ in impaccio, la donna fece scorrere la dita lungo la pelle tesa: quella era forse la prima vera carezza che rivolgeva alla bambina, nonostante avesse già provato più volte a recepire i suoi movimenti cercandola con il palmo.

Chiuse gli occhi per un istante: si concentrò su quella sensazione, sul vento leggero che le stuzzicava il volto e i capelli, sugli ultimi raggi di sole a malapena percepibili attraverso le palpebre serrate.

Fu in quel momento che le venne in mente il Prato – il primo Prato, quello di cui le aveva parlato una sera il padre. Evocò la serenità della volta in cui si erano accoccolati l’uno all’altra per guardare il tramonto e ascoltare il vento, mentre Caleb raccontava di un passato più sereno e luminoso. Un passato che – Katniss aveva incominciato ad intuirlo solo una volta cresciuta – forse non era nemmeno mai esistito.

Ad esistere, però, erano la sensazione di pace e felicità che le avevano trasmesso i racconti del padre e la sua presenza. Così come la melodia dolce e rassicurante che le aveva insegnato quella sera e che Katniss aveva cantato per anni a sua sorella, per rassicurarla quando era spaventata.

“Là in fondo al Prato, all’ombra del pino…”

Le parole della canzone le scivolarono dai ricordi alla gola e poi oltre le labbra, a cavallo dei soffi di vento. La sua voce si disperse nell’aria, nitida e pulita.

“C’è un letto d’erba, un soffice cuscino

Il capo tuo posa e chiudi gli occhi stanchi

Quando li riaprirai, il sole avrai davanti.”

 

Avvertì al tempo stesso la presa docile di Peeta, che si era appena fatta più salda, e quella rassicurante di suo padre, che ancora la custodiva attraverso il ricordo della sua voce. Solo in quel momento, permettendo a una melodia di toccare le sue labbra per la prima volta da anni, si rese conto di quanto il canto glielo facesse sentire vicino.

 

Il Prato glielo stava riportando per qualche minuto, eppure non era lì che l’avrebbe sempre trovato, ma nella musica.

 

 

“Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio

Qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio,

qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare

Questo è il luogo in cui ti voglio amare”

 

Riaprì gli occhi e ricambiò lo sguardo dell’ultimo raggio di sole, che si stava mettendo d’impegno per fornire ancora un po’ di luce a lei e Peeta.

Per un attimo, a palpebre serrate, era riuscita a immaginare un Prato decorato da diversi covoni di fieno. Un gruppo di ragazzini ci correva intorno, facendo lo slalom fra i mucchi dorati, e una bambina, in testa a tutti, si affannava per raggiungerne uno: l’ultimo, quello più lontano.

 

Rideva, quella bambina. E per un istante, solo per un istante, Katniss fu certa di essere riuscita a guardarla negli occhi: erano grandi, gentili e azzurri, come quelli di Prim.

Come quelli di Peeta.

 

“Haley” mormorò d’istinto, voltandosi verso il fidanzato.

Peeta le rivolse un’occhiata interrogativa.

“È un nome” specificò Katniss, fissandosi la pancia. “Mi è sempre piaciuto molto. Deriva da Hay Meadow: significa Prato di Fieno. Quando ero piccola mio padre mi raccontava che qui nel Prato ci facevano i covoni di fieno: diceva che c’erano delle fattorie. So che non è possibile: il Distretto 12 non ha mai avuto un terreno adatto a questo genere di attività, però…”

“Haley…” ripeté Peeta, interrompendola. Sembrò assaporarlo per qualche istante, prima di annuire. “… Mi piace” ammise infine, sorridendo convinto.

Katniss si sorprese a ricambiare; sfiorò ancora una volta il suo ventre e improvvisamente la lei che aveva dentro assunse un significato, un’identità, un legame con il suo passato.

La sua pancia arrotondata divenne ai suoi occhi un covone di fieno, come quelli che nel suo immaginario avrebbero sempre riempito il Prato. Un buon auspicio per lei e Peeta che erano stati i primi a sfiorarla, a rincorrerla. Ad amarla.

“Andrà tutto bene” dichiarò infine Katniss, cercando conferma nello sguardo del fidanzato. Le loro mani si cercarono ancora una volta. “Vero o falso?”

 Peeta annuì, prima di tornare ad attirarla a sé per la vita.

“Vero.”

Mentre si abbracciavano, traendo conforto l’uno dal coraggio dell’altro, non si accorsero dell’ennesimo bocciolo pronto a fiorire, che si stava dando da fare per crescere proprio a pochi metri di distanza dal salice.

Era un dente di leone.

 

 

“Quello di cui ho bisogno è il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione. La promessa di una vita che continua, per quanto gravi siano le perdite che abbiamo subito. Di una vita che può essere ancora bella.”

Il Canto della Rivolta. Suzanne Collins

 

Note Finali.

Mi vergogno come una ladra a pubblicare questa cosa, soprattutto per la seconda parte che è terribile. Però mi dà fastidio quando lascio le cose in sospeso e mi scocciava il fatto di aver dato dei nomi ai bimbi Mellark che non si legassero in alcun modo alle storie dei loro genitori (anche se il nome Haley in realtà era già stato parzialmente spiegato in The Miner Saw a Comet. Comunque… Il nome Haley ai tempi lo scelsi perché ci tenevo che Joel Jr (il figlio di Gale) storpiasse giocosamente il nome della sua migliore amica (da Haley a Halley come la cometa) così come ai tempi Gale faceva con Catnip. Però siccome Haley ha anche un significato che si lega tantissimo con the Meadow (il Prato) ho cercato di ricamarci sopra anche un significato che si adattasse alla saga Dubito che in passato nel Distretto 12 potessero esserci davvero delle fattorie (mi pare che fosse una zona montagnosa) e infatti la stessa Katniss crescendo si rende conto che la storia di babbo Everdeen fosse in realtà una sorta di favola. Però mi piaceva molto l’idea del Prato di fieno, soprattutto per via del significato che il Prato gioca nell’epilogo di Mockingjay (e nella presentazione di bimba Mellark, dunque).

L’ho già detto tante volte, ma lo ribadisco: non amo molto il pairing Everlark, quindi ho tanta paura di aver combinato un mezzo pasticcio nello scrivere la seconda parte della storia, ma era necessaria ai fini del racconto. È un po’ melensa, quindi spero di non aver reso Katniss OOC. Possiamo attribuire la colpa di tutto agli ormoni? *sorrisino innocente*

Babbo Everdeen si chiama Caleb perché è il nome che gli ho già dato nelle altre storie in cui è comparso e anche la caratterizzazione è la stessa. Più che altro qui mi sono allacciata un po’ a “Il Ribelle” dove Caleb canticchia The Hanging Tree al piccolissimo Gale (<3).

Grazie mille a chiunque abbia avuto il coraggio di leggere!
Un abbraccio!

Laura

 

 



[1] Frase tratta dall’epilogo del “Canto della Rivolta”.

   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Kary91