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Autore: Friliver    01/03/2016    4 recensioni
Stavo correndo e catapultai sopra un ragazzo che trasportava un grosso albero di Natale: finimmo in terra tutti e tre. "Che cosa sei una valanga?", mi disse.
Genere: Commedia, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’extraterrestre



 

Gli scalini erano due e la porta a vetri decisamente chiusa, però bastava spingere il campanello e veniva aperta. Mi inoltrai a naso per aria tanto è vero che sgomitai una tizia grassa e bassa la quale borbottò qualcosa. Mi chiamo Daniele ed ero indiscutibilmente bello. Ora stavo premendo il dito sul campanello e c’ero soltanto io dietro la porta, la tizia grassa e bassa era scomparsa. Mi rimproverai: “Perché sono qui? Che sto a fare?”, le ultime parole furono intese dalla magra lunga comparsa, la quale abbozzò un sorriso.

Sta lì, il dottore, e sembrava un giovanotto qualunque, e sembrava anche che si stesse divertendo, con quel sorrisetto benigno: il sorriso mi invitò ad entrare.
“Certo che vengo, e che  c’è poi da ridere, lo vorrei sapere proprio”

Gli fui davanti, entrai e mi sedetti in poltrona. Il dottore prese posto dietro lo scrittoio di fronte a me. Anche qui tutto un insieme confortabile, casalingo. I garofani rossi non mancavano. Puntai l’indice. “Che strazio sempre gli stessi garofani! Non le vengono a noia?”

“A me no”. Si era accesa la sigaretta e la stava gustando con evidente piacere, disse: “E allora che c’è, Daniele?

Mi accarezzai o capelli biondi, i biondi capelli erano tanti e facevano tenerezza. “Ho litigato con mammà”.

“Lo fai sempre”.

Mi rispose con un sorriso cattivo che gli scoprì i denti bianchi fissi. “Perché ho una mamma impossibile”, proseguii più calmo: “Adesso che si è presa il suo uomo, che vuole? Del resto ha avuto sempre tutto. Mi lasci stare”.

“Queste sono chiacchiere, che è successo?”  Il dottore schiacciò il mozzicone sul posacenere. “Allora che è successo?”.

Mi agitai dentro il maglioncino e scattai “Siamo a Natale, no? E loro sono andati a passarlo in montagna sulla neve. Mamma aveva deciso che io andassi a passarlo dalla nonna. Tutto qui!”.

“E non l’hai fatto”, disse il dottore. Stava gustando un chewing-gum, me ne offrì uno, che rifiutai.

“Certo, io sto bene da solo, poi c’è Maria, la cuoca. L’autista e la cameriera sono in ferie”.

Lui sorrise. “La conosco, Maria, ti vuole bene e te le dà  tutte vinte!”

Mi irrigidii: “E’ da noi da molto anni, a papà era affezionata”.

Un papà tanto caro! La bella testa bionda, il sorriso splendente, un papà inghiottito nella nebbia dei ricordi. Apparteneva ormai alla melanconica galleria degli scomparsi. Era morto, morto di leucemia.

Il medico, che si chiamava Piero Costanzo, che aveva una bella moglie bruna e un figlio biondo pestifero,  e tuttavia adorato, indagò. “Perchè non sei andato dalla nonna?”
“Perché no”, dichiarai, caparbio. La nonna, una vecchia rotondetta che curava molto la pelle rosea, i capelli bianchissimi, che teneva il figlio incorniciato lussuosamente e ogni giorno gli cambiava i fiori: “il mio ragazzo è come fosse qui, nella casa dove è nato”.


La nonna faceva sempre lo stesso discorso, e la faccia allegra di papà incorniciata di pesante argento mi stringeva il cuore, mi dava l’angoscia.

Non mi piaceva andare dalla nonna, non mi piaceva.

“Allora Daniele?”

Improvvisamente ebbi come un singhiozzo, poi inghiottii.

Piero Costanzo pensò al suo ragazzino pestifero, adorato, mentre io, povero figlio, ero solo e vulnerabile. Allungò una mano le cui dita mostravano il giallo della nicotina. Dopo tutto non erano le pallide mani di un medico pensatore. Mi accarezzò i capelli biondi: “Hai soltanto sedici anni e domani è Natale: Devi fare qualcosa, non puoi startene lì con Maria a rimuginare”. Disse ancora “Dormi di notte?”

“Si”.

“Mangi con appetito?”

“Mangio”.

“Studi, vai bene a scuola?”.

“No”.

“Perché?”

“Perché non ho voglia, tanto all’ultimo riesco a rimediare e passo lo stesso”.

“D’accordo e come passi il tempo?”.

Feci una voce adulta: “Il tempo… e che è il tempo? Può essere tanto, niente”.

Avevo gli occhi della nonna, gli occhi di papà, un celeste inverosimile. Adesso erano grandi grandi e come lontani.

Piero Costanzo tossì “Daniele, allora che fai tutto il giorno?”

“Sto in camera, una bella camera, la conosci?”

“La conosco”.

Sorrisi improvvisamente: “Ho cambiato la mouquette, è di rosso corallo, e poi ho comprato un quadro, trabocca di tulipani”.
“Stai bene nella tua stanza?”

“Si”, e ricordai lo scaffale con tanti libri, il televisore, la PlayStation4. Dissi: Quando mi va esco e passeggio”.

“Al solito ti stufi presto degli amici”.

“Si, e soprattutto delle amiche”, ebbi una smorfia, “sono tutte pettegole e galline”.

Piero Costanzo sorrise. “E che ti importa? Comunque non bisogna scansare il prossimo, si finisce col rimanere soli, e la solitudine è brutta”.

Gli risposi: “E tu sei solo, dottore?”.

“Qualche volta”.

L’atmosfera cambio: eravamo in due che si frugavano dentro, lui disse: “Io parto, mia moglie e mio figlio hanno stabilito di passare una settimana al Terminillo…”.

Forse la moglie bruna, esuberante, avrebbe litigato, tuttavia proseguì: “Vuoi venire con noi, Daniele?”

Ebbi un sorriso dolce che mi fece ancora più bello. Cosa ci devo fare sono bello e me lo dicono tutti spesso mi chiamano ”faccia d’angelo”. Lo trattai da coetaneo: “Ti ringrazio, ma no, non vengo”.

Piero Costanzo si accese una sigaretta, depose l’accendino, tirò la prima boccata e poi disse: Daniele, ce l’hai la ragazza?”

“No”.

“Daniele, proseguì il dottore liberandosi dalla sigaretta. “Allora non sai che significa voler bene, bene a una ragazza”.

Dissi con voce piccola “Perché me lo chiedi dottore?”, gli puntai in faccia quei miei occhi meravigliosamente celesti, e poi le ragazze a me non mi piacevano, mi stavano… antipatiche. “No dottore”.

“Perché Daniele?”

“Perché…”, ma come avrei fatto a dire! Sarebbe stato un discorso confuso, e vi primeggiava mia madre, l’intimità della stanza insieme a Guido, il marito. Perché si, questo mi aveva agghiacciato, fatto di legno. Ma fu il medico ad aiutarmi.

“Qualcosa ti ha impedito di apprezzare la dolcezza di una compagna cara”.

Glielo dissi: “La mamma, mamma e Guido”.

“E’ questo. Allora? Però hai torto, Daniele: Tuo padre è morto da dieci anni, e tua madre aveva il diritto di pretendere un altro uomo. Del resto questo Guido mi risulta un uomo buono e onesto”.

Ci fu un silenzio, il silenzio fu interrotto  dallo squillo del telefono. Il dottore parlò: “Per una settimana sono fuori, si faccia vedere al mio ritorno il giorno sei. Le faccio molti auguri”.

“Io devo andare”, e mi allungai tutto nel mio maglioncino nero.

Costanzo si alzò. “Al mio ritorno voglio vederti”, mi prese tutte e due le mani. “Fai il bravo ragazzo, e Buon Natale”.

Gli sorrisi, tutto buono, “Buon Natale anche a te, dottore”.

Alla lunga magra accennai un saluto. Mi chiusi la porta dietro le spalle e saltai i due scalini, sembravo un capriolo e nel mio folle raptus catapultai sopra un ragazzo impegnato a trasportare un albero di Natale. Io, l’albero e il ragazzo, ci trovammo per terra.

“Maledetto il mondo, e che, sei una valanga?”.

Tra i rami dell’abete, sorrisi e l’altro: “Maledetto il mondo e che, sei una creatura extraterrestre? Gesù, sei un fratellino piombato dal cielo sul marciapiede di Via Vecellio. Perché, maledetto il mondo, la tua faccia è la mia! Guardare te  è come se mi guardassi allo specchio. Senti senti, hai gli stessi occhi miei e maledetto il mondo, anche i capelli sono uguali. Gesù, questo è un miracolo, sei una creatura extraterrestre, venuto a me la viglia di Natale”.

“Ma insomma ci vogliamo alzare?” Ridevo, ridevo.

“Certo di sì”.

E ci alzammo in piedi, compreso l’albero.

“Adesso che facciamo?”, dissi mentre mi spolverò il maglioncino.

“Semplice, io porto l’albero a casa. Però tu, come ti chiami?”

“Daniele”.

“Un nome bellissimo, e come poteva essere brutto, tu sei favoloso”. Mi fece arrossire.

“Tu come ti chiami?”

“Davide, Dav per gli amici”.

“Io ti chiamo Davy”.

“Mi sta bene”, e poi disse “vieni con me?”

“Si, certo, ma dove andiamo?”

“A casa, te l’ho detto, c’è nostromo che mi aspetta”.

“Nostromo, e chi è?”

“Il nonno. Sai, è stato comandante di marina, ora è vecchio ma prende una buona pensione e mammona che ha la manina corta lo sopporta”.

Mi misi a ridere. “Vuoi dire che tua madre è tirchia?”.

“E già, però Gino che è suo figlio dice sempre la parola giusta”. Posò un secondo l’albero. “Papà e mamma sono andati da mia sorella a passare il Natale. Nonno ha la gotta, non può muoversi, allora io che mi stufo in famiglia ho scelto di stare col nonno”
.
“E l’albero?” Mi divertivo.

“Una sorpresa per nostromo. E a mezzanotte verranno tre vecchioni amici suoi. Sai”, disse “ho comprato quattro pipe e quattro pacchi di tabacco, poi le candeline e tutto il resto. Ho nascosto la roba in camera mia”.

“Davy, quanti anni hai?”

“Io? Sedici”.

“Gesù!”, dissi, “anch’io”.

“Te l’ho detto, ci siamo incontrati per volontà degli extraterrestri”, e poi riprese a fischiettare e si tirava dietro me. “Attraversiamo, quella là è casa mia”.

Una villetta insolita rimasta tra le case moderne, con molteplici piani. Una villetta quasi dimenticata. C’era anche il portiere, niente moderno citofono. Il portiere salutò e mi sbirciò.

“Vieni, entriamo nell’ascensore”.

L’ascensore vecchiotto ma comodo, ci entravamo tutti e tre. Al primo piano uscimmo fuori Davide aprì col chiavino e condusse me dentro. Una saletta che odorava di pulito. Accese le luci, un lampadario sfaccettato. Alle pareti due quadri, un divano, poltrone, tavolo basso, rettangolare. Davy piazzò l’albero all’angolo della finestra, stretta, lunga. Fece l’occhietto. “Aspettami qua buono buono”.

Mi sedetti, tornò subito, depose la scatola piena di candeline e nastri d’argento. C’erano anche le pipe e il tabacco. “Vieni, aiutami a vestire l’albero”. Mentre lavoravamo Davide disse: “Nostromo dormicchia, più tardi lo sveglio. Circa la mezzanotte verranno gli amici”.

“E chi ti prepara la cena?”, domandai.

“Già fatto, tutto pronto, tutto apparecchiato. Non c’è che uscire dal forno il pasticcio di maccheroni”.

Guardavo l’albero che avevamo vestito. Era veramente un caro albero  di Natale, i nastri d’argento e d’oro lo allacciavano per ogni verso, le grosse pipe sul terriccio cosparso di erbetta. “E’ bellissimo Davy”, l’abbracciai tutto felice.

“Aspetta, mettiamo le candeline”. Ne appendemmo un gran mucchio ed erano tutte colorate.

“Eh sì, è proprio bello”.  Davide cinse le spalle. Mi baciò sui capelli. “Sai, extraterrestre, tu odori proprio di buono”.

Sorrisi: “Che ore sono?”.

Davide guardò l’orologio al polso: “Le nove”. Propose: “Vieni, mettiamoci in poltrona a sentire un po’ di musica. Ma tu, scusa, non hai una casa?”.

“Certo in Via Bologna. Però c’è soltanto la cuoca, mamma  e suo marito sono andati in montagna”.

“Questa poi! Comunque, tu stai qui”.

“Senti”, dissi “posso telefonare alla cuoca?”.

“Certo che sì”, mi indicò il telefono sulla mensola.

Feci il numero: “Maria? Si, sono io: non preoccuparti, sono in casa di un amico”.

“E’ stata anche la tua balia?” disse Davide.

“Ma che balia, cuoca, è la nostra cuoca da tanti anni”.

E poi, tranquilli, prendemmo a sentire musica e tra un motivo e l’altro seppi che Davide frequentava la scuola d’arte, che non amava studiare e che gli piaceva la neve, lo sci, il mare, il nuoto, il tennis, la musica. “E le ragazze?”, domandai.

“Oh, le ragazze, un mucchio, ma tutte pollastre”.

“Che significa”.

“Pollastre, cioè tutte con un cervello di gallina”.

Nella saletta che odorava di pulito, di cose semplici, eravamo lì a ridere, e a sentire musica. E poi fu ora di alzarsi. Davide balzò ad aprire quando l’orologio a pendolo scandì le undici e mezza. Introdusse i tre vecchioni nello studio del Nostromo che intanto si era svegliato e nella sua brava poltrona a rotelle mostrava il viso liscio allungato da una barbetta, Ci furono abbracci, e poi tutti a mangiare. Io in cucina all’antica con in mezzo il grande tavolo di marmo. Davide aveva tirato fuori dal forno il pasticcio di maccheroni. La tavola bellamente imbandita. Arrosto con patate, insalata con dentro ogni ben di Dio, una grossa torta. C’era il vino e c’era lo spumante… Mangiarono di tutto. I vecchi si raccontavano delle donne e del mare e delle bevute. Io e Davy stavamo zitti ad ascoltare, ogni tanto mi osservava ridendo, ed io puntualmente diventavo rosso. Quando fu vicina la mezzanotte scivolammo di là in sala, accendemmo tutte le candeline. Poi Davy spinse allegramente la poltrona di Nostromo. Gli amici dietro, lo seguirono. L’albero guarnito di nastri d’oro e d’argento. Un mucchio di candeline accese, le quattro grosse pipe. E fu bello. Molto bello, guardare.

Chissà perché io sentii che la vita è un grande, grandissimo bene… “Sai, Daniele”, disse Davide, “sai, creatura extraterrestre, stanotte rimani qui, ti voglio bene, ti voglio dare un bacio”.

Le nostre giovani bocche si scambiarono un bacio, aveva sapore di purezza, aveva sapore di felicità.

   
 
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