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Autore: Aleena    01/03/2016    0 recensioni
Dal testo: "Sapevo che non sarei potuta rimanere li. La nave-madre doveva aver ricevuto comunicazione dell’incidente quasi immediatamente dopo che si era verificato: non avrebbero mandato navi di soccorso, perché con un disastro di tali proporzioni non ci sarebbe stato niente da recuperare.
Perfino io lo sapevo.
Ma i figli di Gaia... loro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E se mi avessero trovata...
Correvano voci sulla mania dei terrestri di sezionare tutto quello che arrivava dallo spazio. Io ero disarmata e sola, adesso, ma dopo essere sopravvissuta per puro miracolo non volevo finire su un tavolo operatorio, aperta ed esposta come una rana per il loro divertimento.
"
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2a Classificata contest "Romeo e Giulietta: un amore impossibile" indetto da Aurora_Boreale_ sul forum di EFP
4a Classificata al contest "Una domanda a te e una a me." indetto da grazianaarena sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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La stirpe di Agena
 
 
 
Everything I needed
Every Day I know

Tutto quello di cui ho avuto bisogno
Ogni giorno lo so


(Every Day, Planet Funk)
 
 
 
 
 
 
 


 

Orbita di Gaia, 11° di Solaria,
24/10/2289

 
Eccoci alla fine.
Della storia, ma anche del mio viaggio attraverso lo spazio.
Andai alla clinica e mi visitarono. Mi trovarono in buona salute e programmarono un intervento di ricostruzione del braccio sinistro per quel pomeriggio, assicurandomi che l’esercito avrebbe coperto tutte le spese. Non dissero nulla sulla mia dipendenza e io non chiesi, dando per scontato che non mi avrebbero regalato un braccio nuovo se avessero dovuto abbattermi.
Uscii e trovai ad attenermi quelli che, poi, sarebbero stati i primi membri del mio staff tecnico. Mi consegnarono una nuova divisa e io mi trasferii a casa mia per indossarla, per poter allungare la mano sinistra alla spada decorativa e ritrovarmi. Ritrovare il Capitano Taissa Shaaren che aveva lasciato quella casa la prima volta, con le illusioni di una bambina solide come realtà.
La sentii muoversi, dentro di me, e cominciai a sperare di aver lasciato tutto indietro.
Fui stupida. Ero giovane e innamorata, senza una vera casa e in cerca di qualcosa che potesse essere reale.
Lavorai. Sviluppai progetti. Ebbi tre figli, un maschio e le femmine, e due di loro avevano gli occhi di Agena. Né io né Alexei dicemmo mai a Jesahel che aveva lo sguardo di sua madre: le insegnammo la cultura del Drez e lasciammo correre, sentendoci più che sollevati quando lei non chiese.
Alexei aveva saputo tutto. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Eravamo uno, e io non volevo nascondergli nient’altro. Come me aveva capito e accettato, ritenendo che le parole del Nobile avessero più di un fondamento di ragionevolezza. E comunque ora eravamo su quella giostra, volenti o nolenti: quale beneficio avrebbe portato a noi o a Gaia fatto che ne scendessimo?
In effetti io ero più utile per la terra da Hadar che da umana: grazie al mio lavoro, avevo creato aree protette e verdi per gli umani che vi abitavano e vegliavo su di loro, cercando di non interferire con la vita che avevano scelto di condurre.
Avevamo vinto tutti, alla fine: e l’Universo aveva il suo equilibrio.
La mia pace durò ventotto meravigliosi anni prima di incrinarsi: il doppio del tempo che avevo trascorso su Gaia, per fato o per beffa.
Vedete, avevo sviluppato una singolare allergia al Drez che mi aveva costretta a interrompere quasi del tutto l’assunzione. Questo non sembrava aver avuto un effetto troppo negativo sul mio sistema: il cuore batteva ancora e io ero in grado di dominare me stessa con la stessa abilità con cui l’avevo sempre fatto.
Poi, una mattina, sentii la mia anima fremere e mi alzai, cercando di capire cosa stesse accadendo. Ricordo solo che Alexei mi era accanto e si teneva il petto, ansimando; poi ero a terra, circondata dai resti distrutti di quella che era la nostra stanza da letto. Scintille di energia multicolore si levavano in onde intermittenti dai quadri appesi alle pareti – due riproduzioni della pittura di Taraz che avevo fatto stampare dai miei ricordi – e l’odore di sangue riempiva l’aria. A terra, con mezzo fianco squarciato, c’era Arkady, il mio figlio minore. Alexei era accanto a lui, con il braccio sinistro percorso dalle strisce irregolari e rosse delle mie unghie e un morso profondo sul collo. Entrambi mi guardavano con un misto di paura e delusione, indecisi se chiedermi aiuto o fuggire da me. Io li afferrai e ci portai nella clinica più vicina prima ancora di pensare davvero a cosa stessi facendo.
Scoprii allora quali erano gli effetti dell’astinenza dal Drez. Il mio corpo e la mia anima, in bilico fra due realtà, aveva ceduto, disfacendosi: sarei invecchiata prematuramente – a ritmo sicuramente meno veloce di quello umano, ma decisamente prima di un Hadar – e sarei andata incontro a quei blackout violenti, durante i quali era impossibile prevedere il mio comportamento. Mi definirono “una creatura allo stato primordiale, senza ragione o sentimenti” e mi liquidarono con le loro scuse, dicendomi di non temere, che crisi come quella non si sarebbero per forza dovute ripete e che, se anche fosse stato così, la mia famiglia avrebbe di sicuro avuto il tempo di prepararsi adeguatamente alla prossima.
Nessuna sciagura colpisce due volte di seguito lo stesso luogo, mi assicurarono.
La mattina successiva aggredì Raisa e Jesahel, mandando la mia primogenita in ospedale senza due dita del piede e lasciando la mia seconda figlia – quella con gli occhi verdi carichi di paura – traumatizzata e urlante.
Fu allora che decisi, ma ci vollero altre cinque crisi in due anni per darmi il coraggio di fare quello che sapevo giusto.
Non fu facile, credetemi: ho raccontato tutto questo solo per farvi capire il dolore che mi costò questa scelta.
Chiamai i miei superiori e gli dissi che dovevo andare via. Che ero instabile e pericolosa e che avrei fatto del male alle persone che amavo, se fossi rimasta. Organizzai con loro tutto: mi avrebbero aiutato a sparire e portata in un posto sicuro, un luogo in cui avrebbero potuto studiare quegli effetti che, fino ad allora, erano stati solo un teorico miraggio.
Mi avrebbero curata, dissero.
Io annuì, ben conscia che quelle parole le avevo ripetute per anni a umani che non ero stata in grado di salvare.
Mi convinsi che non c’era altra soluzione, continuando per giorni a cercare una via di fuga dal mio stesso piano, mentre tenevo Alexei fuori da quella parte di me e facevo progetti per un futuro che, lo sapevo, non avrei avuto.
Così fu. Una mattina uscì di casa e non rientrai più. La polizia militare e quella civile si mossero per cercarmi, senza successo: seguirono le mie tracce, cercarono sui video la mia faccia e mandarono in onda messaggi della mia famiglia che prometteva cifre da capogiro a chi avesse avuto informazioni utili a trovarmi – tutto senza successo.
Ho visto le vostre facce ogni anno sugli schermi, sapete? Il tredici di dicembre di ogni anno. Accendevo la televisione e vi ascoltavo pregare Agena tutta che vi aiutasse, che non si scordasse di me, che continuasse a sperare con voi. Mi sono vista in centinaia di proiezioni, sui muri esterni dei palazzi e sui contenitori del cibo. Ho visto le vostre lacrime e il dolore che vi avevo causato e mi sono sentita come fosse di nuovo intrappolata in una sfera di Cjera in caduta libera, su un pianeta ancora sconosciuto.
Sarei morta o tornata indietro, se non fosse stato per il mio legame con Alexei. Perché, se io mi arrendessi e accettassi il mio destino, lui colerebbe a picco con me. Già lo sto condannando a una vita più corta: come posso metterlo ancora di più in pericolo?
Devo dare una possibilità a questo progetto. Lo devo fare per colui che amo e per voi, figli miei.
Mi mancate da morire, lo sapere? Ma sono orgogliosa di quello che siete riusciti a diventare nonostante me: Raisa, con i suoi sogni di parole che danno ali alla fantasia di tutta Agena; Jasahel, che ha fatto della sua paura una virtù e ora la trasmette agli altri dall’altro di un pulpito accademico; Arkady, che somiglia così tanto a suo padre in temperamento e volontà, con le sue missioni di esplorazione. Vedervi riuniti lì, ogni anno, con i vostri figli al fianco, mi rende fiera e mi fa male.
Vorrei essere con voi ogni giorno.
Vorrei svegliarmi e baciare Alexei, stringerlo a me e sentire che lui è completo tanto quanto lo sono io.
Vorrei esserci per consigliarvi e vedervi scegliere, per guidarvi al giusto e stringervi a me quando, com’è naturale, tornerete abbattuti e sconfitti; per esaltarvi quando otterrete le vostre vittorie e ridere assieme per le piccole gioie della vita.
Vorrei potervi stringere ancora una volta, una sola, e farvi sapere quanto vi amo, quanto vi ho sempre amati.
Vorrei trovare le parole per farvi capire l’immensità del vuoto che provo ogni giorno, il dolore della vostra perdita, il rancore e la delusione che mi dà essere la creatura pericolosa e spezzata che sono.
Vorrei non avervi dato nessun dolore e, più di tutto, vorrei avervi potuto portare qui con me. Ma che vita sarebbe stata? Trascinata da un laboratorio all’altro, isolata e sommersa dal lavoro per Agena e su di me.
Instabile e raminga.
Che futuro avreste potuto avere? Quali traguardi avreste raggiunto con una madre a metà e senza una casa?
Non lo so, ma non sono mai stata disposta a mettere a rischio il vostro futuro per il mio.
Se non altro siete insieme, e questo mi consola più di ogni altra cosa al mondo. E farò tutto quanto è in mio potere perché almeno Alexei rimanga con voi il più a lungo possibile.
La nave atterra. Fra poco scenderò e incontrerò il mio destino, la mia ultima possibilità.
Il mio corpo invecchia e non mi resta più molto tempo, ormai.
Questo diario ha due copie: una tornerà ad Agena, l’altra rimarrà con me. Se l’Hadar che è in me riuscirà a vincere questa battaglia contro il vuoto che mi divora allora sarò io stessa a consegnarvi la memoria. La proietteremo insieme e potrò vedervi arrossire mentre racconto della mia giovinezza. Poi ci sederemo tutti intorno a qualcosa di caldo e parleremo, a lungo e di tutto, come una famiglia.
Se non dovessi riuscire, invece... se il tempo a mia disposizione finisse prima che io abbia completato le mie ricerche o se questo si rivelassero l’ennesimo busto nell’acqua, allora saprete che non c’è più bisogno di cercarmi.
E mi odierete un po’ per avervi portato via vostro padre, immagino – come mi odio io al solo pensiero di farlo. Ma saprete perché è successo, e che nonostante tutti gli errori della mia vita io sono felice e orgogliosa di aver vissuto abbastanza per dare il tempo a voi di iniziare la vostra.
E, anche nel dolore, saprete chi siete e da dove venite.


 
 
 

 
Piccolo spazio-me: oddio, ho della sincera paura a postare questa storia per una serie di motivi che, assurdamente, sono anche quelli per cui ci tengo e che mi hanno fatto lavorare tanto duramente per finirla.
Quali sono? Beh, il pacchetto che ho ricevuto, in primis. Amo la fantascienza, profondamente, ma non gli alieni: datemi mondi distopici, utopici, tecnologici o regrediti e io sarò felice; obbligatemi a scrivere o leggere di alieni e mi vedrete storcere il naso (sarà un caso se gli unici libri di Stephen King che mi mancano da leggere sono quelli con gli alieni? :D)
Altro problema: il personaggio buono che non deve morire. Ecco, anche qui ho avuto dei grandi dubbi, perché una parte di me (quella brutta e cinica, credo, o quella che mi vuole molto poco bene) pensa che i buoni finiscano sempre male, e che sia quello il vero dramma. Per non dover ammazzare brutalmente i personaggi positivi, solitamente le mie storie tristi hanno come protagonista un... beh, un caotico-neutrale (un cinico menefreghista che sa come comportarsi bene, a volte), a cui capitano le peggio cose, anche e sopratutto per colpa delle sue scelte.
Ho dato già un’idea della difficoltà? Bene, aggiungo che le caratteristiche aliene mi ricordavano troppo quelle di un Drow, e non cadere nel fantasy è stato arduo. Io ci ho provato con tutte le mie forze, davvero!
Infine, io ho una sorta di avversione per le storie scritte in prima persona. Non le leggo e praticamente mai le scrivo: allora come ha fatto a venire fuori così, questa? Ancora me lo chiedo. Credo che Taissa abbia voluto scavalcarmi, in qualche modo: deve aver capito che io da sola non ce la potevo fare e ci ha messo del proprio, usando la sua voce e non quella di un narratore esterno per raccontare la sua storia.
E questo mi ha sorpresa tanto.
Dunque mi scuso se questa long non sarà perfetta: sono una neofita praticamente in tutto! Ma sono soddisfatta, e lo devo dire: finirla stava diventando un’ossessione, ma mi è piaciuto vedere di aver creato un personaggio così distante da me, così diverso dal mio solito.
Spero che sia piaciuta anche a te, che hai appena finito di conoscerla!
Mi prendo solo un secondo per giustificare i pezzi di canzone all’inizio: non c’entrano granché, lo so, ma è sentendo quella traccia che mi è venuta in mente la storia, quindi mi è sembrato giusto inserirla.
Concludo con un piccolo appunto: lo so che ci sono una marea di congiunzioni, pause e ripetizioni (tante di loro fanno male anche a me, credimi!) ma ho pensato che questo... diario? Registrazione? Video? Insomma, questo racconto, non fosse scritto ma registrato, e che quindi Taissa avesse parlato per tutto il tempo. Ora, lei è un alieno superiore e cerca di essere anche forbita, ogni tanto, ma nel parlato a tante cose non si fa caso, per cui le ho lasciate come sono venute. Stessa cosa per i dialoghi diretti, anzi peggiore: lì, per me, non ci sono mai state molte regole che tenessero xD
Ok, la smetto.
By the way (per dirla alla Red Hot Chilly Pepper) grazie per aver letto.
 
Ecco l’identikit su cui si basa la storia:
 
-Maschio o femmina? Femmina
-Buono o cattivo? Buona.
-Umano o non umano? Ehm... alieno umanoide (sei dita e cuore a destra).
-Occhi? Verdi, come quelli di sua madre.
-Vestiti? Praticamente sempre: Uniforme blu di capitano delle guardie o uniforme da lavoro sempre blu (non ama gli abiti da civile).
-Poteri? Sì. Se è sì, quali? Vede al buio (come i gatti basta un piccolo chiarore perché per lei sia come pieno giorno) ed ha una naturale predisposizione a combattere i veleni.
-Dove vive? Ovunque la porti il suo dovere (detesta i balzi nell'iperspazio, le danno nausea e mal di testa).
-Cosa il protagonista fa spesso? Che tic lo caratterizza? Sfiora la spada, che porta al fianco sinistro per rassicurarsi.
-Bevanda preferita? Un infuso di drez, erba aromatica presente sul pianeta notturno in cui è nata e che gli preparava sempre suo nonno.
-Storia comica, drammatica o commedia? Drammatica ma, vi prego, non uccidetela! (Ovviamente scherzo, fate di lei quello che volete.)
-Cosa la tormenta? Nel suo passato è successo qualcosa che le ha spezzato l'animo, ora tiene i suoi sentimenti lontani e non sopporta che qualcuno la sfiori (emotivamente e fisicamente).


Ultimi ma fondamentali, i credits > Las-t (passate a rifarvi gli occhi)

Fatemi sapere che ne pensate della storia: ci tengo!
  
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