«Dov’è?
Lui
dov’è?»
Correvo
senza sapere dove andare. La vista offuscata dalle copiose lacrime che
non
riuscivo ad arrestare e continuavano a rigare il mio viso arrossato.
Non appena
avevo ricevuto quella terribile telefonata ero rimasta immobile per
qualche
secondo prima di sentire qualcosa dentro di me spezzarsi e da allora
non mi ero
più fermata. Avevo ordinato ad Alessandro di correre il
più velocemente
possibile in ospedale e avevo chiamato la madre di Alfredo e avevo
tentato di
tranquillizzarla nonostante io stessa fossi terrorizzata
all’idea di quello che
mi attendeva una volta arrivata al pronto soccorso.
Non appena
arrivammo nel parcheggio mi ero fiondata fuori dall’auto
ancora prima che ci
fossimo fermati completamente e avevo corso. Mi ero dovuta fermare a
causa del
dolore lancinante che le scarpe dal tacco vertiginoso mi stavano
procurando e
così, per perdere meno tempo possibile, me le ero levate e
avevo ripreso la mia
corsa incurante dell’asfalto umido sotto ai piedi coperti
solo da un sottile
velo di nylon.
Un’infermiera
tentò di afferrarmi per un braccio ma mi divincolai e
continuai imperterrita la
mia marcia disperata. Non mi sarei fermata finché non mi
fossi assicurata che
Alfie fosse ancora vivo e vegeto e non lo avrei lasciato fino a quando
non
avrebbe potuto abbandonare anche lui l’ospedale.
«Signorina!
Signorina si fermi un attimo!»,
una voce trafelata mi bloccò mentre aspettavo impaziente
l’arrivo dell’ascensore.
Mi voltai
infastidita dall’ennesimo tentativo di farmi tardare. Non
avevo tempo da
perdere. Dovevo vederlo. Perché sembrava che tutti, dal
personale ospedaliero a
quell’accidenti di ascensore della prima guerra mondiale,
volessero ritardarla
e farle perdere tempo prezioso?
L’anziana
signora, vestita di azzurro pallido, mi raggiunse e con il fiatone a
causa
della corsa fatta per inseguirmi mi domandò chi stessi
cercando.
«Credo
che
se si lascerà aiutare da me impiegherà meno tempo
a trovare chi sta cercando
rispetto a fare un tour allo sbaraglio per l’intero
edificio…», me fece notare
acutamente.
Perché
non
ci ero arrivata da sola? Nella testa avevo una confusione e una paura
così
radicata da non riuscire più a ragionare lucidamente.
«Alfredo
Arnaboldi. Ha avuto un incidente una mezz’oretta fa
più o meno e mi hanno detto
che è stato portato qui
d’urgenza…», le spiegai angosciata
supplicandola con lo
sguardo di aiutarmi.
Lei
annuì,
mi accarezzò lievemente il braccio e mi fece cenno di
seguirla.
La seguii
per scale, ascensori, corridoi senza far domande. Aveva perfettamente
ragione:
mi sarei persa senza dubbio senza la sua guida.
Attraversammo
un’ultima porta prima di fermarci davanti ad una vetrata
chiusa dove capeggiava
il cartello: Terapia intesiva –
accesso
consentito solo al personale autorizzato.
«Oltre
non
ci è consentito andare per ora. Le consiglio di sedersi e
attendere che esca un
medico così potrà chiedere ulteriori informazioni
e aggiornamenti a lui…»
Mi accasciai
stanca su una di quelle tristi seggioline in plastica rigida da tipica
sala
d’attesa e mi fissai i piedi e le calze chiazzate di acqua e
fango.
«Vedrà
che
andrà tutto bene…», tentò di
rassicurarmi l’infermiere prima di congedarsi con
un sorriso gentile.
Tra le mani
stringevo ancora le mie scarpe e così le posai a terra di
fianco a me e mi
portai le ginocchia al petto. Avevo freddo e non riuscivo a non pensare
ad
altro che al mio amico in fin di vita.
Non so
quanto tempo passai rannicchiata in quella posizione prima che la sedia
accanto
alla mia cigolasse e un braccio mi avvolgesse delicato le spalle. Posai
esausta
il capo sulla spalla di Alessandro e chiusi gli occhi. Lo sentivo
respirare ad
un ritmo lento e regolare e cercai di concentrarmi su quello per non
farmi
prendere dal panico e scoppiare nuovamente in lacrime.
Il mio
telefono vibrò e fui costretta a staccarmi da lui per
rispondere.
«Ginevra
cara, ci sono novità?», mi domandò la
voce angosciata di Amelia, la madre di
Alfredo, non appena accettai la chiamata e mi portai il cellulare
all’orecchio.
Potevo solo
immaginare il dolore di quella donna. Distante chilometri dal suo unico
figlio,
ferma in quel limbo fatto di attesa e sofferenza. Amelia si era
trasferita
qualche anno prima a vivere a Firenze, decisione dettata
dall’essere rimasta
vedova abbastanza giovane e dalla sua volontà di voler
portare avanti un
progetto filantropico nella sua terra d’origine.
La misi al
corrente della situazione attuale e le chiesi quando sarebbe arrivata.
«Domattina,
ovvero tra qualche ora, la mia vicina mi porterà in
stazione. Se prendo il
primo treno dovrei arrivare a Milano per le otto e mezza o nove circa.
Da lì
prendo un taxi e ti raggiungo subito. Hanno fatto storie per il fatto
che non
sei una parente?»
Non avevo
pensato alla possibilità che il medico si rifiutasse di
darmi notizie riguardo
allo stato di Alfie per quella stupida regola della parentela. Negai ma
le
dissi che probabilmente non mi avrebbero detto nulla non essendo in
nessun modo
legata da vincoli di consanguineità alla persona ricoverata.
Lei, da donna
forte e pratica quale era sempre stata, mi disse che subito dopo la
nostra
telefonata avrebbe chiamato l’ospedale per rilasciare la sua
delega e
autorizzarmi a fare le sue veci per il momento.
«Signora
Amelia, non appena sta per arrivare in città mi chiami
così la mando a prendere
e non perde tempo inutile a cercare un taxi», la rassicurai e
ignorando
volutamente le sue proteste le spiegai dove farsi trovare.
La sentii
soffiarsi il naso dall’altro lato della cornetta e il cuore
mi si strinse nel
petto. «Starà bene, vero Ginevra?», mi
interrogò debolmente, la voce spezzata
dai singhiozzi trattenuti.
Sospirai e
mi passai una mano tra i capelli ancora semi raccolti.
«Starà bene, Alfredo non
può lasciarci ora e non lo farà»
Scambiammo
ancora
due parole prima di salutarci con la promessa di aggiornarci non appena
ci
fossero stati dei cambiamenti.
Tornai al
mio posto e mi voltai verso Alessandro, il quale mi stava scrutando
preoccupato. Ritornai a posare il capo contro il suo petto e ripresi
quell’attesa sfiancante che mi stava logorando.
La porta del
reparto di terapia intensiva si aprì e si richiuse infinite
volte ma nessuno ci
prestò mai la minima intenzione. Medici, infermieri, parenti
in lacrime,
inservienti e tecnici di laboratorio facevano avanti e indietro di
continuo, i
loro passi rimbombavano sul linoleum verde acqua che rivestiva il
pavimento e
scandivano i minuti che passavano. Le lancette ticchettavano, le luci
alogene
alle pareti sfarfallavano e i nostri respiri riempivano
l’aria pesante di quel
corridoio.
Poco dopo le
quattro di mattina le porte dell’ascensore
all’angolo si aprirono e ne emerse
un uomo dal viso stanco e segnato, la camicia stropicciata e i capelli
in
disordine. Non appena lo vidi balzai in piedi e corsi tra le sue
braccia. Lui
prontamente mi strinse al proprio petto e posò la guancia
sul mio capo. Mi
aggrappai alla sua schiena e ripresi a piangere in silenzio mentre lui
continuava pazientemente a cullarmi senza dire nulla. Sotto il mio
orecchio
sentivo il battito accelerato del suo cuore e quel suono mi fece stare
meglio,
saperlo lì mi faceva stare meglio.
Sentii dei
passi arrestarsi alle mie spalle. «Francesco...»,
la voce di Alessandro era
velata di fastidio ma era così ben celato che pensai di
essere paranoica e di
essermelo solo immaginata. Dopotutto ero stremata e non era quello il
momento
di pensare a quelle cose futili.
«L’ho
avvertito io», spiegai sapendo che era quella la domanda
implicita a cui dovevo
rispondere. «Vieni…», presi la mano del
mio amico e lo trascinai a sedere
vicino a me sulla fila di tristi seggioline.
Lui mi
accarezzò piano i capelli e mi chiese se avevo sentito
Amelia, dicendomi che
lui non era riuscito a contattarla perché aveva dimenticato
il telefono
nell’albergo della spa data l’agitazione generata
dal mio messaggio e dalla
fretta di mettersi in viaggio il prima possibile.
«Arriva
domattina poco prima delle nove, qualcuno dovrà andare a
prenderla in stazione.
Poi bisognerà avvertire anche tutti in ufficio,
chiamerò più tardi Fabrizio o
Valeria, non voglio seminare il panico ora che ancora non sappiamo
nulla
e…oddio non so più cosa
fare…», esalai stringendogli una mano.
«Amelia
non
sarà qui prima delle prossime quattro ore,
dopodiché Alessandro potrebbe andare
a recuperarla in stazione, portarla qui e poi andare in ufficio a
mettere al
corrente tutti mentre noi due restiamo qui in attesa di notizie che si
spera
siano buone…», snocciolò infilando una
mano nella tasca interna della giacca
per cercare qualcosa.
Alessandro,
che non pareva per nulla contento della situazione attuale, si
parò di fronte a
noi ma, dimostrandosi abbastanza maturo da rimandare eventuali
sceneggiate a
dopo, ci chiese solo come riconoscere la madre di Alfie e come avrebbe
fatto ad
aprire l’ufficio. Il mio amico gli porse il mazzo di chiavi
che aveva pescato
dalla giacca e gli spiegò a grandi linee le caratteristiche
principali di
Amelia, anche se probabilmente i suoi capelli rosso fuoco bastavano da
soli per
renderla riconoscibile a miglia di distanza.
Dopo un
tempo che parve infinito la porta di vetro si aprì per
l'ennesima volta ma
invece di superarci di fretta l'uomo in camice bianco ci
fissò per un instante
prima di dirigersi verso di noi.
Alzai la
testa speranzosa e strinsi più forte la mano di Francesco.
«Siete
qui
per Alfredo Arnaboldi?», ci interrogò e al mio
cenno affermativo annuì tra sé
prima di chiederci di pazientare ancora un attimo.
Lo seguimmo
in modo apprensivo con lo sguardo mentre questo si avvicinava allo
sportello
dove poco più avanti si trovavano la caporeparto e un altro
paio di infermiere
che avevano il turno notturno. Li sentimmo parlottare e poco dopo il
medico
riemerse con un biglietto di carta in mano.
«Allora
la
Signora Arnaboldi ha già spiegato per telefono la situazione
perciò in sua assenza
sono autorizzati a seguirmi Ginevra Visconti e Francesco
Ferrari...siete voi,
giusto?», ci illustrò dopo aver letto il post-it
ed esserselo infilato
distrattamente nella tasca del camice immacolato. «Bene,
venite pure con me»,
concluse strisciando il badge che teneva al collo davanti ad un lettore
a
scansione ottica che aprì automaticamente la porta.
Lanciai un
ultimo sguardo ad Alessandro, in disparte sulla sua solita seggiolina,
e gli
rivolsi un sorriso che voleva essere d'incoraggiamento prima che il
vetro ci
separasse definitivamente.
Mi
dispiaceva lasciarlo indietro ma in quel momento ero impaziente di
sapere cosa
avesse da dirci il dottore.
«Allora,
il
vostro amico è stato piuttosto sfortunato...»,
esordì e il mio cuore si fermò
per un attimo. «Il tassista ne è uscito illeso
come anche l’uomo alla guida
dell’auto che ha causato il tamponamento, avvenuto proprio
dal lato dove sedeva
il Signor. Arnaboldi. Non vi abbiamo fatto sapere nulla prima
d’ora perché era
importante che l’intervento alla milza a cui è
stato sottoposto d’urgenza
andasse per il meglio. Fortunatamente così è
stato perciò, nonostante il
copioso sanguinamento, gli resta solo una gamba con una frattura
multipla e un
bello spavento. Ora è ancora sotto effetto
dell’anestesia ma tra poco dovrebbe
svanire. Venite, questa è la sua stanza. Lo terremo in
osservazione ancora per
un paio di giorni poi, se le sue condizioni resteranno stabili,
verrà dimesso
senza problemi…», ci spiegò
accuratamente mentre percorrevamo un lungo
corridoio costeggiato da tante porte chiuse e contrassegnate da
numeretti.
Giunti di fronte alla camera 237 il dottore si arrestò,
aprì la porta e si fece
da parte per permetterci di entrare per primi.
Alfie
sonnecchiava sorretto da una pila di cuscini chiari che facevano
risaltare il
suo colorito giallastro e i capelli scuri spettinati. Aveva un cerotto
sulla
fronte, le mani fasciate da leggeri bendaggi forse a causa di
escoriazioni
minori, una camiciola verdina da ospedale e la gamba completamente
ingessata
dall’anca alla caviglia.
Mentre io mi
avvicinavo al letto sentii Francesco trattenere ancora un attimo il
dottore.
Accarezzai quel viso così fanciullesco e così
caro e quasi senza accorgermene
gli occhi mi si inumidirono a causa del sollievo sconfinato che mi
aveva avvolta
mano a mano che il medico ci assicurava che Alfie si sarebbe ripreso
senza
problemi e sarebbe tornato in forma come prima.
«Grazie
al
cielo!», esclamò Fra alle mie spalle prima di
avvicinare una sedia al letto per
farmici accomodare mentre lui si appollaiava ai piedi del materasso.
«Il
chirurgo assicura che l’operazione non lascerà
strascichi, l’unico problema
resta la gamba. Ha detto che si tratta di una brutta frattura, in
più si tratta
di punti dell’omero e della fibula abbastanza insidiosi e
c’è il rischio che il
gesso non basti, lui sostiene che un mese di completa
immobilità su una sedia a
rotelle basterà ma se così non fosse bisognerebbe
intervenire chirurgicamente.
Ma si tratta solo di
un’eventualità…», mi mise al
corrente mentre guardava con
occhi carichi di affetto il suo migliore amico.
Allungai una
mano e gli strinsi il ginocchio per ringraziarlo silenziosamente per
essere lì
con me. «Hai impiegato pochissimo ad
arrivare…», gli feci notare cercando di
calcolare mentalmente quanto distava la località del
Trentino Alto Adige in cui
si trovava da Milano.
Lo sentii
ridacchiare piano mentre si grattava piano una guancia coperta da un
velo di
barba. «Credo di avere i calzini spaiati, ho dimenticato in
albergo
praticamente tutto e probabilmente nel tragitto devo essermi beccato
circa una
decina di multe per eccesso di velocità o sorpassi
azzardati. Non so come ho
fatto ad arrivare qui senza mai essere fermato da una pattuglia della
Polizia,
ad un certo punto credo di aver fatto superare i duecento alla mia
povera auto…»
La sua
povera auto era un’Audi che probabilmente aveva fatto le
feste alla
possibilità, per una volta almeno, di sfruttare a pieno la
sua potenza invece
dei soliti trenta km/h che era costretta a tenere nel traffico milanese.
Sorrisi
scuotendo
il capo, era tipico di Francesco non ragionare nelle situazioni
d’emergenza e
agire impulsivamente. «Magari evita di rifarlo dato che
è bastato Alfie a farmi
perdere quindici anni di vita dallo spavento che mi ha
procurato», lo
rimproverai.
Mentre
aspettavamo
che il malato accennasse qualche segno di vita lasciai un attimo la
stanza per
telefonare alla Signora Amelia, la quale si stava già
preparando per prendere
il treno e che risultò immensamente sollevata nel sentire
che il suo bambino ne
era uscito solo con una gamba rotta. Le detti appuntamento per qualche
ora più
tardi e le spiegai il punto di ritrovo, le fattezze di Alessandro e il
colore e
il modello della sua automobile.
Una volta
terminata la chiamata ne approfittai per ripercorrere al contrario la
strada
fatta in precedenza e tornare nel corridoio dove avevamo atteso tanto a
lungo.
Sporsi la testa perché non volevo che la porta si
rischiudesse alle mie spalle
non permettendomi poi di rientrare dato che non ero in possesso di
alcun badge
e rimasi un attimo perplessa nel constatare che le seggioline addossate
alla
parete erano tutte vuote. Dov’era finito Alessandro?
Contravvenendo
nuovamente alla norma che vieta l’utilizzo di telefoni
cellulari, digitai il
numero sullo schermo e me lo portai all’orecchio aspettando
che squillasse e
che lui rispondesse. Attesi un attimo ma al settimo squillo riattaccai
e gli
inviai rapidamente un messaggio ricordandogli orario e luogo per
recuperare la
Signora Arnaboldi.
Tornai sui
miei passi e quando riapparsi sulla soglia della stanza 237 ebbi la
lieta
sorpresa di ritrovarmi davanti agli occhi un Alfredo sveglio e
già nel pieno
delle sue facoltà mentali. Infatti si stava lamentando senza
sosta con il
povero Francesco, il quale cercava in tutti i modi di farlo star fermo
e di
rabbonirlo per evitare che si alzasse o si agitasse troppo.
«Mirtillina
mia! Sapevo che non potevi davvero avermi abbandonato qui con questo
bruto. Mi
ha appena detto che mi trova bene. Bene?! Ci credi? Ho un cerotto in
fronte,
per l’amor del cielo! E questa tovaglia da internato in un
manicomio cos’è?»,
domandò istericamente scrutando il cotone verdognolo che lo
ricopriva.
Mi lasciai
andare ad una risata liberatoria nel vedere che il mio adorato Alfredo
era di
nuovo tra noi dopo quelle ore di ansia e paura che avevamo vissuto non
sapendo
il grado di serietà delle sue condizioni. Tornai alla mia
postazione e lo abbracciai
delicatamente stando attenta alle flebo e ai suoi lievi ematomi,
visibili sotto
la luce bianca della stanza.
«Ci
hai
fatto prendere un bello spavento! Sono così felice che tu
stia bene…», mormorai
lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
«Posso
avere
uno specchio?», domandò imbronciato. Mentre
analizzava i graffi presenti sulle
braccia e le unghie ancora leggermente incrostate di sangue rappreso.
Francesco
scosse vigorosamente il capo e gli disse di scordarselo.
Effettivamente,
vanesio com’era, sarebbe stato molto più saggio
aspettare di sistemarlo un
attimino prima che iniziasse a strillare perché voleva la
crema copri occhiaie
o un cappello Borsalino per mascherare i capelli in disordine.
«Io
sono
malato e da quanto mi avete riferito lo sarò per il prossimo
mese perciò voi
due non potete rifiutarvi di esaudire i desideri di un povero malato
moribondo!»,
iniziò subito a fare la lagna petulante quello mentre
assumeva la miglior
espressione offesa del suo repertorio.
Francesco mi
rivolse uno sguardo esasperato e io alzai gli occhi al cielo e gli
indicai la
porta socchiusa del bagno. Sbuffando e mugugnando si alzò e
sparì dietro quella
soglia alla ricerca di un benedetto specchio per il convalescente in
vena di
capricci.
Nel
frattempo io ne approfittai per fare il possibile nel migliorare
l’aspetto di
Alfie. Con le mani gli pettinai in modo sommario i capelli e acconciai
il suo
ciuffo in modo da coprire almeno parzialmente il cerotto che aveva
sulla
tempia. Rifeci i fiocchetti del camice che si erano slacciati sulla sua
schiena
e gli sistemai il colletto di questo per fare in modo che potesse
assomigliare
più ad una polo che ad una camicia di forza per pazzi. Gli
pizzicai le guance
per donargli un poco di colore ignorando le sue proteste e gli tirai le
coperte
fino al petto per fare in modo che vedesse quella camiciola il meno
possibile.
«Il
trattamento di bellezza è finito?», mi chiese
ironico mentre Francesco
riemergeva dal bagno e gli metteva di fronte agli occhi uno specchietto
da
viaggio con il manico rotto.
«OMIODDIOOO!»,
strillò portandosi disperato le mani al viso e
accarezzandosi corrucciato le
sopracciglia e il mento.
«L’avevo
detto che era una pessima idea…»,
sbuffò Francesco mentre il suo amico non si
dava pace e ora aveva sciolto i fiocchetti che avevo appena fatto per
farsi
scivolare un poco la camicia sul collo e fissava inorridito le leggere
chiazze
violacee dovute probabilmente agli urti subiti.
Poi
all’improvvisò si bloccò nel bel mezzo
della sua ispezione e ci fissò
terrorizzato. «Avete detto che mi hanno operato alla milza,
vero?», sussurrò
flebile.
Confermai
non capendo dove volesse andare a parare.
Francesco,
evidentemente più intuitivo di me, scoppiò a
ridere sotto gli sguardi perplessi
della sottoscritta e del malato. «Sì, caro, hai
una super cicatrice che
attraversa il tuo addome in obliquo. Molto d’effetto devo
dire…», non appena
afferrai dove volesse andare a parare sogghignai divertita pronta a
godermi lo
spettacolo.
Alfie non ci
deluse. Lanciò un urlo e iniziò affannosamente a
lottare per liberarsi della
camiciola e dopo mille tentativi, data la presenza dei mille laccetti
di
chiusura sulla schiena difficilmente raggiungibile, riuscì a
denudarsi e a
fissarmi l’addome con occhi spalancati. Restò un
attimo interdetto e proprio in
quel momento entrò nella stanza un infermiere, probabilmente
accorso per il
trambusto.
«Che
succede
qui?», guardò prima Alfredo mezzo nudo, poi noi
due che avevamo un ghigno
malefico stampato in volto e infine ritornò a concentrarsi
sul ricoverato. «Signor
Arnaboldi perché si è denudato? Le fa forse male
qualcosa? Ha qualche fastidio?
Deve andare in bagno?», chiese premuroso mentre si avvicinava
al letto e
schiacciava qualche pulsante posto alle spalle della testiera per far
sollevare
automaticamente lo schienale del letto.
Alfredo,
inizialmente tutto rosso a causa della presenza del
bell’infermiere, decise che
non era il caso di comportarsi da persona psicopatica anche con il
personale
ospedaliero, perché no, quel comportamento era riservato
solo ai suoi più cari
amici, e tranquillizzò l’uomo che se ne
andò con la promessa di tornare più
tardi a controllare e a cambiare la flebo.
«Ti
hanno
operato in laparoscopia perciò non resterai orrendamente
sfigurato a vita anche
se è un peccato, almeno avresti potuto inventare storie
super fantasiose e di
coraggio su come ti
eri procurato quella
cicatrice…», gli spiegai mentre lo coprivo alla
bell’e e meglio con la
camiciola e le coperte.
Lui non
pareva dello stesso avviso infatti si imbronciò e
sentenziò che d’ora in avanti
avrebbe parlato solo con la sua mammina, non appena questa fosse
arrivata
ovviamente.
E se mai
fosse arrivata, aggiunsi io mentalmente domandandomi se il silenzio e
l’assenza
di Alessandro dovesse essere presa come un tacito assenso o meno.
«Come
sei permaloso! Suvvia, dicci cosa
possiamo fare per farci perdonare…», propose
spazientito Francesco, che non era
proprio capace di restare in conflitto con qualcuno.
Io gli tirai
un una sberla sul braccio, «Hei, parla per te! Io non
farò proprio niente
perché non ho null-…», mi bloccai
vedendo Alfie inscenare il teatrino degli
occhioni lucidi e del labbro tremolante. Quell’uomo era
incredibile! Adulto, si
fa per dire, proprietario di una rivista, di una casa, di
un’auto eppure ancora
più infantile di un bebè in fasce.
«D’accordo, d’accordo!», mi
arresi alzando
le braccia.
L’allettato
parve ringalluzzirsi tutto e iniziò a snocciolare ordini.
Che novità!
«Allora…vi
hanno detto per quanto mi tratterranno qui?», si
informò. Fra gli rispose che
si parlava di un paio di giorni ma tutto dipendeva dalla sua ripresa.
Ripresa che
secondo me era già abbondantemente avvenuta vista la sua
capacità di dettare
legge ancora migliore rispetto a prima dell’incidente.
Lui
annuì,
socchiuse gli occhi come per fare due calcoli mentali rapidi e poi
riprese le
vesti di tiranno. «Benissimo. Uno dei due si munisca di
taccuino e inizi a
segnare. Mia madre starà nel mio appartamento, appartamento
le cui chiavi sono
in tuo possesso Gin, e qualcuno andrà a prendere tutto
quello che ora vi
elencherò…»
La
mezz’ora
successiva la trascorremmo a cercare di non obiettare alle richieste
pazzoide
del nostro amico che, instancabile, continuava a farsi venire in mente
nuove e
strampalate cose di cui avrebbe potuto aver bisogno durante il suo
soggiorno
ospedaliero.
Avevo
sbirciato Francesco e mi ero accorta che dopo aver segnato la vestaglia
di seta
cinese in fantasia Pucci, gli incensi al sandalo per ingraziarsi gli
dei della
guarigione (poveretto, nessuno lo aveva messo al corrente dei
rilevatori di
fumo onnipresenti nell’edificio) e la coperta di pelo di
cammello albino aveva
iniziato a disegnare qualcosa, continuando però ad annuire
convinto in
direzione dell’ammalato quando in realtà stava
ignorando ogni sua richiesta.
Sapendo che
quella storia sarebbe finita con un’altra crisi isterica di
Alfredo e pensando
che i rapidi eccessi d’ira e picchi di pressione alta non lo
avrebbero aiutato
nella sua ripresa fisica per una volta mi sottomessi alle sue
stramberie e,
senza farmi vedere, registravo con il telefono celato dalle pieghe del
vestito
quella lista infinita di parole sciorinate da Alfredo.
Verso le
sette e mezza i nostri stomaci iniziarono a brontolare e a reclamare di
essere
riempiti e così mentre Francesco partiva alla volta del bar
per fare la scorta
io uscivo dalla stanza per cercare un infermiere a cui chiedere cosa
potesse
mangiare il nostro caro malato.
«Assolutamente
no! Dopo l’intervento deve assumere solo cibi liquidi per le
prime
ventiquattr’ore. Tra un attimo arrivo io con la sua
colazione, non si preoccupi»,
mi rassicurò un’infermiera rotondetta e un
po’ scorbutica.
Prima di
rientrare ne approfittai per fare una sosta al bagno delle signore e
sentire
Amelia. Una volta appreso che si trovava nelle vicinanze di Bologna e
tra
un’oretta sarebbe arrivata mi dedicai alla grande incognita
di quella sera:
Alessandro.
Riprovai a
chiamarlo e questa volta dopo un paio di squilli fui più
fortunata.
Per un
attimo restammo entrambi in silenzio dopodiché presi la
parola io. «Prima sei
sparito. Dove sei?», non riuscivo proprio a capire il senso
di fastidio che
provavo in quel momento.
Se ufficialmente
eravamo una coppia allora perché mi sentivo terribilmente
inopportuna nel
domandargli che fine avesse fatto? Mi sembrava quasi di impersonare i
panni
della donna invadente che non si faceva riguardi nel ficcare il naso
nella vita
del proprio fidanzato.
«Sono
andato
a casa a cambiarmi e a darmi una rinfrescata prima di recarmi in
stazione e poi
in redazione. Non vi siete più fatti vivi e così
mi sono preso una breve pausa.
Come sta?», mi spiegò distrattamente mentre in
sottofondo sentivo il rumore
della radio.
Capivo
perfettamente
che Alessandro conosceva Alfie da poco più di un mese e per
lui non era altro
che un superiore un po’ frivolo ed indiscreto ma rimasi
comunque interdetta di
fronte a quella manifestazione di scarso interesse. Era pur vero che mi
era
stato vicino fino all’alba e si stava rendendo molto utile
dando un passaggio
alla Signora Amelia e aprendo lui l’ufficio ma…
Pensai come
sempre che probabilmente ero io a pretendere troppo. In fondo anche
Nicola non
aveva mai compreso davvero il rapporto d’amicizia che mi
legava ad Alfie. Sbuffava
sempre quando si presentava a casa nostra senza preavviso, in sua
assenza si prendeva
gioco del suo inusuale modo di vestire e lo trovava terribilmente
chiassoso e
colorato.
Gli spiegai
sommariamente il quadro clinico di Alfredo senza dilungarmi sul fatto
che
psicologicamente fosse già tornato perfettamente in
sé.
«Bene.
Ci vediamo
più tardi allora»
«Ok»
«Ok»
E quando il
telefono mi riportò solo il muto tu-tu-tu che segnalava la
fine della
comunicazione rimasi per un attimo immobile chiedendomi cosa fosse
appena
successo.
Stavamo insieme
da tre giorni in teoria e già le nostre chiamate erano
piatte e monotone. Non avevamo
quasi nulla da dirci e quello che sarebbe dovuto essere detto veniva
invece
taciuto.
Frenai la
tentazione di richiamarlo per chiedergli cosa ci stesse succedendo,
incolpando
la notte insonne, la stanchezza accumulatasi e la fame.
Il buonumore
mi tornò non appena ritornai nella stanza di Alfie, il quale
era intento a
sfuggire in tutti i modi all’infermiera di poco prima che
cercava di portargli
alla bocca delle cucchiaiate di quella che pareva purea di mele.
Francesco invece,
spaparanzato nella mia poltroncina, stava assistendo divertito alla
scena
mentre si divorava un krapfen alla crema.
«Perché
io
non posso avere una brioche? O almeno dei biscotti? Io questo
omogenizzato non
lo voglio! Desista insomma!», strillava mentre
l’infermiera tentava di
approfittare delle sue urla per cacciargli in bocca il cucchiaio colmo
di
poltiglia giallognola.
Non vi avevo
forse detto che quella piccola donna era leggermente indisponente?
Ecco, come
volevasi dimostrare, si spazientì, afferrò in
malo modo la nuca di Alfie,
immobilizzandolo e lo forzò ad aprire la bocca, prima di
fargli trangugiare in
pochi bocconi tutto il contenuto della confezione di mousse.
«Non
a caso ho lavorato per anni in pediatria…»,
ci informò mentre con poca delicatezza puliva la bocca di
Alfie con un
tovagliolo prima di mollare la presa e farlo ricadere sui cuscini.
Dopo che se
ne fu andata io e Francesco ci guardammo un attimo senza parlare prima
di
scoppiare a ridere. Mi feci cadere sulle sue gambe e gli sfilai dalle
mani il
sacchetto di carta bianca che teneva in pugno.
«Mmh,
è
integrale con ripieno ai frutti rossi?», chiesi ispezionando
il cornetto che
riempiva l’involucro.
«Ovviamente!
Proprio come piace a lei, mademoiselle…»
Soddisfatta
addentai
quell’impasto friabile godendomi il sapore perfetto di una
calda brioche da
poco sfornata. Sapendo di irritarlo mangiai la mia colazione con
estrema
lentezza, intervallando lunghe pause in cui sorseggiavo il mio
cappuccino non zuccherato.
Alfie non mi deluse e iniziò a piagnucolare che lui voleva
andare a casa,
mangiare la parmigiana di melanzane di sua madre e andare a fare
shopping da
Prada.
«Amico,
un’oretta
e la tua adorata mammina sarà qui e noi potremo svignarcela
lasciandoti alle
sue amorevoli cure», lo rassicurò Fra, dandogli
una pacca sulla gamba sana con
fare incoraggiante. «E comunque per un mese potrai indossare
solo metà dei pantaloni
del pigiama…», gli fece notare indicando la lunga
ingessatura che ricopriva
completamente l’arto inferiore.
Sogghignai
immaginandomi
mentalmente lo shock che probabilmente stava paralizzando la mente di
Alfie in
quel momento mentre metabolizzava la notizia che per più di
trenta giorni
avrebbe dovuto dire addio ai suoi splendidi completi abbinati in favore
di
pigiami antiestetici.
Anche se io
i pigiami di Alfie li avevo visti ed erano di una seta così
morbida e di una
fattezza così pregiata che probabilmente avrei potuto
sfilare alla Mostra del
Cinema di Venezia con quelli e tutti avrebbero lodato il mio look da
red
carpet.
«Gin,
chiama
subito il mio personal shopper, spiegagli la situazione attuale e digli
che
deve assolutamente trovare una soluzione a questo problema! Come
farò? Potrei lavorare
da casa e per un mese fare l’eremita. Tanto ormai con lo
shopping online posso
far si che mi consegnino a casa tutto ciò di cui ho
necessità senza dovermi per
forza esporre agli occhi del mondo, no?». Al colmo
dell’agitazione afferrò il
suo iPhone e iniziò a digitare in modo compulsivo senza mai
staccare le dita
dallo schermo.
Consapevoli che
quell’attacco di follia acuta poteva protrarsi per un lungo
lasso di tempo
decidemmo di lasciarlo fare in modo da prenderci una pausa dal nostro
lavoro di
Alfie-sitter.
«Hai
notato
il numero della sua stanza?», gli domandai, sistemandomi
meglio sulle sue
ginocchia e indicandogli la targhetta usurata affissa al legno della
porta che
recava scritto 237.
«Non
credo
sia una coincidenza, probabilmente, in onore di Shining, riservano
questa
camera solo ai pazzi…», commentò mentre
sorseggiava il suo caffè nero.
Come tesi
non pareva molto valida dal momento che ci avevano riferito che quando
il
nostro amico era arrivato in pronto soccorso era in stato di
incoscienza però
lo interpretai comunque come uno strano segno del destino.
«Il
tuo
fidanzatino dove si è cacciato?»
Storsi il
naso di fronte notando il tono di malcelato disprezzo con cui si era
riferito
ad Alessandro e sospirai abbattuta. Alessandro non era di certo un fan
di
Francesco e, visti gli ultimi accadimenti, neanche di Alfie. Francesco
dal
canto suo non si sforzava neanche di nascondere la sua antipatia per il
mio
fidanzato. E poi c’ero io che adoravo immensamente tutti e
tre.
Sarebbe stato
bello per una volta nella vita avere la fortuna di trovare un compagno
che
piacesse anche ai tuoi amici e non fosse invece fonte di continui
dissapori.
«Se ne
è
andato a casa. Ora sarà quasi in stazione
penso…», risposi stancamente
passandomi una mano sugli occhi. Indossavo le lenti a contatto da quasi
ventiquattr’ore e ormai si erano quasi fuse con il mio
occhio.
Francesco ebbe
l’accortezza di non commentare e si limitò a
lasciarmi una lieve carezza sulla
schiena. Approfittai di quella pausa, con Alfie sempre ipnotizzato dal
turbinio
di parole con cui stava intasando la memoria del suo telefono, per
prendere in
prestito il barattolino di lacrime artificiali di Fra e fare una
capatina in
bagno per darmi una sistemata.
Oltre alle
occhiaie, naturale dono di una notte passata in piedi, avevo gli occhi
cerchiati dall’eyeliner sbavato e dagli sbaffi del mascara.
Waterproof un bell’accidenti!
Mi sciacquai
il viso, reclinai il capo all’indietro per potermi mettere il
collirio con più
facilità ed infine sciolsi del tutto i capelli prima di
rintrecciarli in una
treccia morbida sulla spalle. Quando uscii e spensi la luce mi ritrovai
stretta
tra due braccia minute e avvolta in una nuvole di profumo di lavanda.
«Ginevra
cara, non sai quanto ti sia grata. Quello di stamane è stato
il viaggio più
lungo di sempre! Mi accompagni tu da Alfredo?», la Signora
Amelia, piccola e
gracile, come sempre mi prese per mano e mi rivolse un sorriso carico
di
gratitudine.
Mentre la
conducevo alla stanza del figlio mi voltai perché sapevo
benissimo che lui
sarebbe stato lì a pochi passi da me. Incontrai di sfuggita
quegli occhi verdi
e subito mi sentii meglio e mi diedi della sciocca per tutti i brutti
pensieri
infondati che avevo fatto quella mattina presto quando mi ero accorta
che lui
se ne era andato.
Dopo aver
lasciato madre e figlio da soli, Francesco ci lasciò
accampando la scusa di
dover cercare un telefono pubblico per chiamare l’albergo e
Aprile, la
poveretta che era stata abbandonata in fretta e furia in una spa
dell’Alto
Adige. Gli prestai il mio cellulare dato che probabilmente si sarebbero
succeduti cinque diversi sovrani sul trono d’Inghilterra
prima che lui potesse
trovare una cabina telefonica. Mi ringraziò e se ne
andò in tutta fretta,
facendoci chiaramente capire che lui nei litigi tra amanti non voleva
essere
coinvolto.
«Ti
porto a casa?», mi chiese gentilmente
accarezzandomi una guancia.
Reclinai stanca
il viso contro la sua mano e chiusi gli occhi godendomi il contatto con
la sua
pelle fresca. Io invece stavo letteralmente andando a fuoco a causa
delle
temperature tropicali che sono sempre presenti nelle strutture
ospedaliere.
«Tra
un po’,
va bene?», lui annuì piano e mi
abbracciò in silenzio.
Allungai una
mano e seguii in punta di dita il profilo della sua clavicola, lasciata
semi
scoperta dal colletto allentato della camicia che sbucava dal cappotto.
Quando rialzai
il capo lo vidi fissarmi sorridente, «Ho sentito Valeria poco
fa. Nell’arco di
trenta secondi è passata dalle lacrime alle imprecazioni.
Penso di non essere
molto bravo nel comunicare con tatto le notizie
delicate…»
Potevo
facilmente
immaginare Val, ancora semiaddormentata e con i capelli biondi sparsi a
nuvola
attorno alla testa, ricevere quella doccia fredda subito seguita
però dal
racconto che ora Alfie, con la sua gamba rotta, stava abbastanza bene
da
riprendere il suo ruolo di galletto del pollaio.
«Consolati:
ambasciator non porta pena anche se io al posto tuo sarei in pensiero e
controllerei che la carrozzeria della Porsche non venga
rigata…», lo presi in
giro anche se nel profondo sapevo che Val una cosa del genere avrebbe
potuto
benissimo farla.
Non avevo
mai pensato di presentarla a Veronica ma probabilmente era stato un
bene perché
quelle due insieme sarebbero finite in carcere per il resto dei loro
giorni. Anche
se per come stavano le cose ultimamente ora a temere di vedersi
sfasciata l’auto
doveva essere mio fratello Federico.
«Ora
si che
mi sento molto meglio!», mi rispose ironicamente prima di
trascinarmi per un
braccio per togliermi dal centro del corridoio dove stavo bloccando la
circolazione di un paio di infermieri con lettino e malato al seguito.
Ridacchiai nel
vedere le occhiatacce che mi erano state rivolte dalla più
giovane e carina
delle due donne e ne approfittai per stringermi più vicina
ad Alessandro.
Una figura
familiare fece capolino dal fondo del corridoio, le mani occupate da
una scatola
e un’espressione lugubre stampata in volto.
«Cos’è successo? Per una volta sei
stato tu a ricevere un due di picche?», domandai maligna non
appena arrivò a
portata d’orecchio.
Francesco per
tutta risposta mi sbatté in testa la scatola con mio grande
dolore e
disappunto. Mi massaggiai pensosa la zona lesa mentre gli rivolgevo
sguardi
assassini.
«Ti
sei
comprato un telefono?», gli chiese alle mie spalle Alessandro
accennando alla
scatola incriminata.
«Ho
dovuto,
quella pazza donna con cui ero alle terme ha dato i numeri e il
concierge dell’albergo
mi ha detto che ha distrutto mezza camera, accanendosi in particolar
modo sui
miei oggetti personali, per un totale di quasi 3000€ di danni.
A mie spese
ovviamente…», borbottò tra i denti il
mio amico visibilmente livido.
Non potei
trattenere un sorrisetto malefico. Un po’ se l’era
cercata; forse a forza di
frequentare donne superficiali e pazze avrebbe capito che era ora di
impegnarsi
un po’ di più con qualcuno con cui valesse davvero
la pena. Glielo avevo
ripetuto mille volte che le storie di letto potevano essere anche
divertenti
all’inizio ma poi alla lunga tediavano e si arrivava sempre a
desiderare
qualcosa di più profondo. Quando io gli facevo questi
discorsi, dispensando i miei
saggi consigli, lui solitamente si metteva a cantare a squarciagola per
sovrastare la mia voce e non prestarmi la minima attenzione. Quando si
dice
gettare perle ai porci…
«Sono
cose
che possono capitare…», commentò poco
convinto Alessandro, trattenendo a stento
una smorfia.
Se da un
lato fui contenta che anche a lui tutto ciò sembrasse una
grande sciocchezza,
segno che non aveva sperimentato un passato a base di dissolutezze come
il caro
Franceschino, dall’altro mi infastidì il suo
giudicare in silenzio una persona
che a malapena conosceva.
Anche io
giudicavo una stronzata colossale quella delle storielle a scadenza
mensile ma
conoscevo il mio amico da anni e avevamo raggiunto un livello di
confidenza
tale da poterglielo riferire senza il timore di sembrare inopportuna.
Di nuovo mi
rimproverai mentalmente convinta di farmi come mio solito troppe
paranoie
mentali.
«Sì
certo,
cose che capitano solo a lui però. Sei un idiota caro e non
smetterò mai di
ripetertelo. Vabbè dai, andiamo a vedere se Amelia
è già ripartita alla volta
di Firenze in preda alla disperazione dopo dieci minuti da sola con il
figlio…»,
proposi chiudendo la questione. Almeno per il momento perché
di sicuro mi sarei
vendicata di quella botta alla testa.
Alfredo, da
brutto essere infimo qual era, stava facendo le fusa a sua madre in un
fiume di
‘sì mammina cara’ e ‘per
fortuna ci sei qui tu’. Si poteva dire tutto su
quell’uomo
frou frou ma non che non sapesse come entrare nelle grazie delle
persone con
cui si rapportava.
Amelia
però
era decisamente più furba e ne aveva approfittato per fargli
mangiare, senza
proferire protesta, una nuova confezione di mousse di mela. Ben gli
stava così
imparava a fare il pavone conquistatore con chiunque.
«Ragazzi
ora
voi andate a casa e vi riposate. Domani andate al lavoro normalmente e
non
preoccupatevi per il neonato qui presente: a lui ci penserò
io. E non fatevi carico
dei miei spostamenti, ho abitato tutta la vita in questa giungla
milanese,
vedrò di arrangiarmi», ci ordinò con
fare autoritario la Signora Arnaboldi. E nonostante
il sorriso dipinto che aveva sulle labbra nessuno di noi tre si
sognò
minimamente di contraddirla. Tale madre tale figlio.
Agli ordini!