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Autore: HannibalLecter    05/03/2016    0 recensioni
A lei piace lui e lei piace a lui.
A lui piace lei e lui piace a lei.
Perfetto no?
Peccato che entrambi si ostinino ad ignorare questa faccenda continuando tranquillamente il loro percorso che si snoda lungo due rette parallele destinate a non allontanarsi mai ma neanche ad incrociarsi mai, o forse no?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Dov’è? Lui dov’è?»

Correvo senza sapere dove andare. La vista offuscata dalle copiose lacrime che non riuscivo ad arrestare e continuavano a rigare il mio viso arrossato.

Non appena avevo ricevuto quella terribile telefonata ero rimasta immobile per qualche secondo prima di sentire qualcosa dentro di me spezzarsi e da allora non mi ero più fermata. Avevo ordinato ad Alessandro di correre il più velocemente possibile in ospedale e avevo chiamato la madre di Alfredo e avevo tentato di tranquillizzarla nonostante io stessa fossi terrorizzata all’idea di quello che mi attendeva una volta arrivata al pronto soccorso.

Non appena arrivammo nel parcheggio mi ero fiondata fuori dall’auto ancora prima che ci fossimo fermati completamente e avevo corso. Mi ero dovuta fermare a causa del dolore lancinante che le scarpe dal tacco vertiginoso mi stavano procurando e così, per perdere meno tempo possibile, me le ero levate e avevo ripreso la mia corsa incurante dell’asfalto umido sotto ai piedi coperti solo da un sottile velo di nylon.

Un’infermiera tentò di afferrarmi per un braccio ma mi divincolai e continuai imperterrita la mia marcia disperata. Non mi sarei fermata finché non mi fossi assicurata che Alfie fosse ancora vivo e vegeto e non lo avrei lasciato fino a quando non avrebbe potuto abbandonare anche lui l’ospedale.

 «Signorina! Signorina si fermi un attimo!», una voce trafelata mi bloccò mentre aspettavo impaziente l’arrivo dell’ascensore.

Mi voltai infastidita dall’ennesimo tentativo di farmi tardare. Non avevo tempo da perdere. Dovevo vederlo. Perché sembrava che tutti, dal personale ospedaliero a quell’accidenti di ascensore della prima guerra mondiale, volessero ritardarla e farle perdere tempo prezioso?

L’anziana signora, vestita di azzurro pallido, mi raggiunse e con il fiatone a causa della corsa fatta per inseguirmi mi domandò chi stessi cercando.

«Credo che se si lascerà aiutare da me impiegherà meno tempo a trovare chi sta cercando rispetto a fare un tour allo sbaraglio per l’intero edificio…», me fece notare acutamente.

Perché non ci ero arrivata da sola? Nella testa avevo una confusione e una paura così radicata da non riuscire più a ragionare lucidamente.

«Alfredo Arnaboldi. Ha avuto un incidente una mezz’oretta fa più o meno e mi hanno detto che è stato portato qui d’urgenza…», le spiegai angosciata supplicandola con lo sguardo di aiutarmi.

Lei annuì, mi accarezzò lievemente il braccio e mi fece cenno di seguirla.

La seguii per scale, ascensori, corridoi senza far domande. Aveva perfettamente ragione: mi sarei persa senza dubbio senza la sua guida.

Attraversammo un’ultima porta prima di fermarci davanti ad una vetrata chiusa dove capeggiava il cartello: Terapia intesiva – accesso consentito solo al personale autorizzato.

«Oltre non ci è consentito andare per ora. Le consiglio di sedersi e attendere che esca un medico così potrà chiedere ulteriori informazioni e aggiornamenti a lui…»

Mi accasciai stanca su una di quelle tristi seggioline in plastica rigida da tipica sala d’attesa e mi fissai i piedi e le calze chiazzate di acqua e fango.

«Vedrà che andrà tutto bene…», tentò di rassicurarmi l’infermiere prima di congedarsi con un sorriso gentile.

Tra le mani stringevo ancora le mie scarpe e così le posai a terra di fianco a me e mi portai le ginocchia al petto. Avevo freddo e non riuscivo a non pensare ad altro che al mio amico in fin di vita.

Non so quanto tempo passai rannicchiata in quella posizione prima che la sedia accanto alla mia cigolasse e un braccio mi avvolgesse delicato le spalle. Posai esausta il capo sulla spalla di Alessandro e chiusi gli occhi. Lo sentivo respirare ad un ritmo lento e regolare e cercai di concentrarmi su quello per non farmi prendere dal panico e scoppiare nuovamente in lacrime.

Il mio telefono vibrò e fui costretta a staccarmi da lui per rispondere.

«Ginevra cara, ci sono novità?», mi domandò la voce angosciata di Amelia, la madre di Alfredo, non appena accettai la chiamata e mi portai il cellulare all’orecchio.

Potevo solo immaginare il dolore di quella donna. Distante chilometri dal suo unico figlio, ferma in quel limbo fatto di attesa e sofferenza. Amelia si era trasferita qualche anno prima a vivere a Firenze, decisione dettata dall’essere rimasta vedova abbastanza giovane e dalla sua volontà di voler portare avanti un progetto filantropico nella sua terra d’origine.

La misi al corrente della situazione attuale e le chiesi quando sarebbe arrivata.

«Domattina, ovvero tra qualche ora, la mia vicina mi porterà in stazione. Se prendo il primo treno dovrei arrivare a Milano per le otto e mezza o nove circa. Da lì prendo un taxi e ti raggiungo subito. Hanno fatto storie per il fatto che non sei una parente?»

Non avevo pensato alla possibilità che il medico si rifiutasse di darmi notizie riguardo allo stato di Alfie per quella stupida regola della parentela. Negai ma le dissi che probabilmente non mi avrebbero detto nulla non essendo in nessun modo legata da vincoli di consanguineità alla persona ricoverata. Lei, da donna forte e pratica quale era sempre stata, mi disse che subito dopo la nostra telefonata avrebbe chiamato l’ospedale per rilasciare la sua delega e autorizzarmi a fare le sue veci per il momento.

«Signora Amelia, non appena sta per arrivare in città mi chiami così la mando a prendere e non perde tempo inutile a cercare un taxi», la rassicurai e ignorando volutamente le sue proteste le spiegai dove farsi trovare.

La sentii soffiarsi il naso dall’altro lato della cornetta e il cuore mi si strinse nel petto. «Starà bene, vero Ginevra?», mi interrogò debolmente, la voce spezzata dai singhiozzi trattenuti.

Sospirai e mi passai una mano tra i capelli ancora semi raccolti. «Starà bene, Alfredo non può lasciarci ora e non lo farà»

Scambiammo ancora due parole prima di salutarci con la promessa di aggiornarci non appena ci fossero stati dei cambiamenti.

Tornai al mio posto e mi voltai verso Alessandro, il quale mi stava scrutando preoccupato. Ritornai a posare il capo contro il suo petto e ripresi quell’attesa sfiancante che mi stava logorando.

La porta del reparto di terapia intensiva si aprì e si richiuse infinite volte ma nessuno ci prestò mai la minima intenzione. Medici, infermieri, parenti in lacrime, inservienti e tecnici di laboratorio facevano avanti e indietro di continuo, i loro passi rimbombavano sul linoleum verde acqua che rivestiva il pavimento e scandivano i minuti che passavano. Le lancette ticchettavano, le luci alogene alle pareti sfarfallavano e i nostri respiri riempivano l’aria pesante di quel corridoio.

Poco dopo le quattro di mattina le porte dell’ascensore all’angolo si aprirono e ne emerse un uomo dal viso stanco e segnato, la camicia stropicciata e i capelli in disordine. Non appena lo vidi balzai in piedi e corsi tra le sue braccia. Lui prontamente mi strinse al proprio petto e posò la guancia sul mio capo. Mi aggrappai alla sua schiena e ripresi a piangere in silenzio mentre lui continuava pazientemente a cullarmi senza dire nulla. Sotto il mio orecchio sentivo il battito accelerato del suo cuore e quel suono mi fece stare meglio, saperlo lì mi faceva stare meglio.

Sentii dei passi arrestarsi alle mie spalle. «Francesco...», la voce di Alessandro era velata di fastidio ma era così ben celato che pensai di essere paranoica e di essermelo solo immaginata. Dopotutto ero stremata e non era quello il momento di pensare a quelle cose futili.

«L’ho avvertito io», spiegai sapendo che era quella la domanda implicita a cui dovevo rispondere. «Vieni…», presi la mano del mio amico e lo trascinai a sedere vicino a me sulla fila di tristi seggioline.

Lui mi accarezzò piano i capelli e mi chiese se avevo sentito Amelia, dicendomi che lui non era riuscito a contattarla perché aveva dimenticato il telefono nell’albergo della spa data l’agitazione generata dal mio messaggio e dalla fretta di mettersi in viaggio il prima possibile.

«Arriva domattina poco prima delle nove, qualcuno dovrà andare a prenderla in stazione. Poi bisognerà avvertire anche tutti in ufficio, chiamerò più tardi Fabrizio o Valeria, non voglio seminare il panico ora che ancora non sappiamo nulla e…oddio non so più cosa fare…», esalai stringendogli una mano.

«Amelia non sarà qui prima delle prossime quattro ore, dopodiché Alessandro potrebbe andare a recuperarla in stazione, portarla qui e poi andare in ufficio a mettere al corrente tutti mentre noi due restiamo qui in attesa di notizie che si spera siano buone…», snocciolò infilando una mano nella tasca interna della giacca per cercare qualcosa.

Alessandro, che non pareva per nulla contento della situazione attuale, si parò di fronte a noi ma, dimostrandosi abbastanza maturo da rimandare eventuali sceneggiate a dopo, ci chiese solo come riconoscere la madre di Alfie e come avrebbe fatto ad aprire l’ufficio. Il mio amico gli porse il mazzo di chiavi che aveva pescato dalla giacca e gli spiegò a grandi linee le caratteristiche principali di Amelia, anche se probabilmente i suoi capelli rosso fuoco bastavano da soli per renderla riconoscibile a miglia di distanza.

Dopo un tempo che parve infinito la porta di vetro si aprì per l'ennesima volta ma invece di superarci di fretta l'uomo in camice bianco ci fissò per un instante prima di dirigersi verso di noi.

Alzai la testa speranzosa e strinsi più forte la mano di Francesco.

«Siete qui per Alfredo Arnaboldi?», ci interrogò e al mio cenno affermativo annuì tra sé prima di chiederci di pazientare ancora un attimo.

Lo seguimmo in modo apprensivo con lo sguardo mentre questo si avvicinava allo sportello dove poco più avanti si trovavano la caporeparto e un altro paio di infermiere che avevano il turno notturno. Li sentimmo parlottare e poco dopo il medico riemerse con un biglietto di carta in mano.

«Allora la Signora Arnaboldi ha già spiegato per telefono la situazione perciò in sua assenza sono autorizzati a seguirmi Ginevra Visconti e Francesco Ferrari...siete voi, giusto?», ci illustrò dopo aver letto il post-it ed esserselo infilato distrattamente nella tasca del camice immacolato. «Bene, venite pure con me», concluse strisciando il badge che teneva al collo davanti ad un lettore a scansione ottica che aprì automaticamente la porta.

Lanciai un ultimo sguardo ad Alessandro, in disparte sulla sua solita seggiolina, e gli rivolsi un sorriso che voleva essere d'incoraggiamento prima che il vetro ci separasse definitivamente.

Mi dispiaceva lasciarlo indietro ma in quel momento ero impaziente di sapere cosa avesse da dirci il dottore.

«Allora, il vostro amico è stato piuttosto sfortunato...», esordì e il mio cuore si fermò per un attimo. «Il tassista ne è uscito illeso come anche l’uomo alla guida dell’auto che ha causato il tamponamento, avvenuto proprio dal lato dove sedeva il Signor. Arnaboldi. Non vi abbiamo fatto sapere nulla prima d’ora perché era importante che l’intervento alla milza a cui è stato sottoposto d’urgenza andasse per il meglio. Fortunatamente così è stato perciò, nonostante il copioso sanguinamento, gli resta solo una gamba con una frattura multipla e un bello spavento. Ora è ancora sotto effetto dell’anestesia ma tra poco dovrebbe svanire. Venite, questa è la sua stanza. Lo terremo in osservazione ancora per un paio di giorni poi, se le sue condizioni resteranno stabili, verrà dimesso senza problemi…», ci spiegò accuratamente mentre percorrevamo un lungo corridoio costeggiato da tante porte chiuse e contrassegnate da numeretti. Giunti di fronte alla camera 237 il dottore si arrestò, aprì la porta e si fece da parte per permetterci di entrare per primi.

Alfie sonnecchiava sorretto da una pila di cuscini chiari che facevano risaltare il suo colorito giallastro e i capelli scuri spettinati. Aveva un cerotto sulla fronte, le mani fasciate da leggeri bendaggi forse a causa di escoriazioni minori, una camiciola verdina da ospedale e la gamba completamente ingessata dall’anca alla caviglia.

Mentre io mi avvicinavo al letto sentii Francesco trattenere ancora un attimo il dottore. Accarezzai quel viso così fanciullesco e così caro e quasi senza accorgermene gli occhi mi si inumidirono a causa del sollievo sconfinato che mi aveva avvolta mano a mano che il medico ci assicurava che Alfie si sarebbe ripreso senza problemi e sarebbe tornato in forma come prima.

«Grazie al cielo!», esclamò Fra alle mie spalle prima di avvicinare una sedia al letto per farmici accomodare mentre lui si appollaiava ai piedi del materasso. «Il chirurgo assicura che l’operazione non lascerà strascichi, l’unico problema resta la gamba. Ha detto che si tratta di una brutta frattura, in più si tratta di punti dell’omero e della fibula abbastanza insidiosi e c’è il rischio che il gesso non basti, lui sostiene che un mese di completa immobilità su una sedia a rotelle basterà ma se così non fosse bisognerebbe intervenire chirurgicamente. Ma si tratta solo di un’eventualità…», mi mise al corrente mentre guardava con occhi carichi di affetto il suo migliore amico.

Allungai una mano e gli strinsi il ginocchio per ringraziarlo silenziosamente per essere lì con me. «Hai impiegato pochissimo ad arrivare…», gli feci notare cercando di calcolare mentalmente quanto distava la località del Trentino Alto Adige in cui si trovava da Milano.

Lo sentii ridacchiare piano mentre si grattava piano una guancia coperta da un velo di barba. «Credo di avere i calzini spaiati, ho dimenticato in albergo praticamente tutto e probabilmente nel tragitto devo essermi beccato circa una decina di multe per eccesso di velocità o sorpassi azzardati. Non so come ho fatto ad arrivare qui senza mai essere fermato da una pattuglia della Polizia, ad un certo punto credo di aver fatto superare i duecento alla mia povera auto…»

La sua povera auto era un’Audi che probabilmente aveva fatto le feste alla possibilità, per una volta almeno, di sfruttare a pieno la sua potenza invece dei soliti trenta km/h che era costretta a tenere nel traffico milanese.

Sorrisi scuotendo il capo, era tipico di Francesco non ragionare nelle situazioni d’emergenza e agire impulsivamente. «Magari evita di rifarlo dato che è bastato Alfie a farmi perdere quindici anni di vita dallo spavento che mi ha procurato», lo rimproverai.

Mentre aspettavamo che il malato accennasse qualche segno di vita lasciai un attimo la stanza per telefonare alla Signora Amelia, la quale si stava già preparando per prendere il treno e che risultò immensamente sollevata nel sentire che il suo bambino ne era uscito solo con una gamba rotta. Le detti appuntamento per qualche ora più tardi e le spiegai il punto di ritrovo, le fattezze di Alessandro e il colore e il modello della sua automobile.

Una volta terminata la chiamata ne approfittai per ripercorrere al contrario la strada fatta in precedenza e tornare nel corridoio dove avevamo atteso tanto a lungo. Sporsi la testa perché non volevo che la porta si rischiudesse alle mie spalle non permettendomi poi di rientrare dato che non ero in possesso di alcun badge e rimasi un attimo perplessa nel constatare che le seggioline addossate alla parete erano tutte vuote. Dov’era finito Alessandro?

Contravvenendo nuovamente alla norma che vieta l’utilizzo di telefoni cellulari, digitai il numero sullo schermo e me lo portai all’orecchio aspettando che squillasse e che lui rispondesse. Attesi un attimo ma al settimo squillo riattaccai e gli inviai rapidamente un messaggio ricordandogli orario e luogo per recuperare la Signora Arnaboldi.

Tornai sui miei passi e quando riapparsi sulla soglia della stanza 237 ebbi la lieta sorpresa di ritrovarmi davanti agli occhi un Alfredo sveglio e già nel pieno delle sue facoltà mentali. Infatti si stava lamentando senza sosta con il povero Francesco, il quale cercava in tutti i modi di farlo star fermo e di rabbonirlo per evitare che si alzasse o si agitasse troppo.

«Mirtillina mia! Sapevo che non potevi davvero avermi abbandonato qui con questo bruto. Mi ha appena detto che mi trova bene. Bene?! Ci credi? Ho un cerotto in fronte, per l’amor del cielo! E questa tovaglia da internato in un manicomio cos’è?», domandò istericamente scrutando il cotone verdognolo che lo ricopriva.

Mi lasciai andare ad una risata liberatoria nel vedere che il mio adorato Alfredo era di nuovo tra noi dopo quelle ore di ansia e paura che avevamo vissuto non sapendo il grado di serietà delle sue condizioni. Tornai alla mia postazione e lo abbracciai delicatamente stando attenta alle flebo e ai suoi lievi ematomi, visibili sotto la luce bianca della stanza.

«Ci hai fatto prendere un bello spavento! Sono così felice che tu stia bene…», mormorai lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.

«Posso avere uno specchio?», domandò imbronciato. Mentre analizzava i graffi presenti sulle braccia e le unghie ancora leggermente incrostate di sangue rappreso.

Francesco scosse vigorosamente il capo e gli disse di scordarselo. Effettivamente, vanesio com’era, sarebbe stato molto più saggio aspettare di sistemarlo un attimino prima che iniziasse a strillare perché voleva la crema copri occhiaie o un cappello Borsalino per mascherare i capelli in disordine.

«Io sono malato e da quanto mi avete riferito lo sarò per il prossimo mese perciò voi due non potete rifiutarvi di esaudire i desideri di un povero malato moribondo!», iniziò subito a fare la lagna petulante quello mentre assumeva la miglior espressione offesa del suo repertorio.

Francesco mi rivolse uno sguardo esasperato e io alzai gli occhi al cielo e gli indicai la porta socchiusa del bagno. Sbuffando e mugugnando si alzò e sparì dietro quella soglia alla ricerca di un benedetto specchio per il convalescente in vena di capricci.

Nel frattempo io ne approfittai per fare il possibile nel migliorare l’aspetto di Alfie. Con le mani gli pettinai in modo sommario i capelli e acconciai il suo ciuffo in modo da coprire almeno parzialmente il cerotto che aveva sulla tempia. Rifeci i fiocchetti del camice che si erano slacciati sulla sua schiena e gli sistemai il colletto di questo per fare in modo che potesse assomigliare più ad una polo che ad una camicia di forza per pazzi. Gli pizzicai le guance per donargli un poco di colore ignorando le sue proteste e gli tirai le coperte fino al petto per fare in modo che vedesse quella camiciola il meno possibile.

«Il trattamento di bellezza è finito?», mi chiese ironico mentre Francesco riemergeva dal bagno e gli metteva di fronte agli occhi uno specchietto da viaggio con il manico rotto.

«OMIODDIOOO!», strillò portandosi disperato le mani al viso e accarezzandosi corrucciato le sopracciglia e il mento.

«L’avevo detto che era una pessima idea…», sbuffò Francesco mentre il suo amico non si dava pace e ora aveva sciolto i fiocchetti che avevo appena fatto per farsi scivolare un poco la camicia sul collo e fissava inorridito le leggere chiazze violacee dovute probabilmente agli urti subiti.

Poi all’improvvisò si bloccò nel bel mezzo della sua ispezione e ci fissò terrorizzato. «Avete detto che mi hanno operato alla milza, vero?», sussurrò flebile.

Confermai non capendo dove volesse andare a parare.

Francesco, evidentemente più intuitivo di me, scoppiò a ridere sotto gli sguardi perplessi della sottoscritta e del malato. «Sì, caro, hai una super cicatrice che attraversa il tuo addome in obliquo. Molto d’effetto devo dire…», non appena afferrai dove volesse andare a parare sogghignai divertita pronta a godermi lo spettacolo.

Alfie non ci deluse. Lanciò un urlo e iniziò affannosamente a lottare per liberarsi della camiciola e dopo mille tentativi, data la presenza dei mille laccetti di chiusura sulla schiena difficilmente raggiungibile, riuscì a denudarsi e a fissarmi l’addome con occhi spalancati. Restò un attimo interdetto e proprio in quel momento entrò nella stanza un infermiere, probabilmente accorso per il trambusto.

«Che succede qui?», guardò prima Alfredo mezzo nudo, poi noi due che avevamo un ghigno malefico stampato in volto e infine ritornò a concentrarsi sul ricoverato. «Signor Arnaboldi perché si è denudato? Le fa forse male qualcosa? Ha qualche fastidio? Deve andare in bagno?», chiese premuroso mentre si avvicinava al letto e schiacciava qualche pulsante posto alle spalle della testiera per far sollevare automaticamente lo schienale del letto.

Alfredo, inizialmente tutto rosso a causa della presenza del bell’infermiere, decise che non era il caso di comportarsi da persona psicopatica anche con il personale ospedaliero, perché no, quel comportamento era riservato solo ai suoi più cari amici, e tranquillizzò l’uomo che se ne andò con la promessa di tornare più tardi a controllare e a cambiare la flebo.

«Ti hanno operato in laparoscopia perciò non resterai orrendamente sfigurato a vita anche se è un peccato, almeno avresti potuto inventare storie super fantasiose e di coraggio  su come ti eri procurato quella cicatrice…», gli spiegai mentre lo coprivo alla bell’e e meglio con la camiciola e le coperte.

Lui non pareva dello stesso avviso infatti si imbronciò e sentenziò che d’ora in avanti avrebbe parlato solo con la sua mammina, non appena questa fosse arrivata ovviamente.

E se mai fosse arrivata, aggiunsi io mentalmente domandandomi se il silenzio e l’assenza di Alessandro dovesse essere presa come un tacito assenso o meno.

 «Come sei permaloso! Suvvia, dicci cosa possiamo fare per farci perdonare…», propose spazientito Francesco, che non era proprio capace di restare in conflitto con qualcuno.

Io gli tirai un una sberla sul braccio, «Hei, parla per te! Io non farò proprio niente perché non ho null-…», mi bloccai vedendo Alfie inscenare il teatrino degli occhioni lucidi e del labbro tremolante. Quell’uomo era incredibile! Adulto, si fa per dire, proprietario di una rivista, di una casa, di un’auto eppure ancora più infantile di un bebè in fasce. «D’accordo, d’accordo!», mi arresi alzando le braccia.

L’allettato parve ringalluzzirsi tutto e iniziò a snocciolare ordini. Che novità!

«Allora…vi hanno detto per quanto mi tratterranno qui?», si informò. Fra gli rispose che si parlava di un paio di giorni ma tutto dipendeva dalla sua ripresa.

Ripresa che secondo me era già abbondantemente avvenuta vista la sua capacità di dettare legge ancora migliore rispetto a prima dell’incidente.

Lui annuì, socchiuse gli occhi come per fare due calcoli mentali rapidi e poi riprese le vesti di tiranno. «Benissimo. Uno dei due si munisca di taccuino e inizi a segnare. Mia madre starà nel mio appartamento, appartamento le cui chiavi sono in tuo possesso Gin, e qualcuno andrà a prendere tutto quello che ora vi elencherò…»

La mezz’ora successiva la trascorremmo a cercare di non obiettare alle richieste pazzoide del nostro amico che, instancabile, continuava a farsi venire in mente nuove e strampalate cose di cui avrebbe potuto aver bisogno durante il suo soggiorno ospedaliero.

Avevo sbirciato Francesco e mi ero accorta che dopo aver segnato la vestaglia di seta cinese in fantasia Pucci, gli incensi al sandalo per ingraziarsi gli dei della guarigione (poveretto, nessuno lo aveva messo al corrente dei rilevatori di fumo onnipresenti nell’edificio) e la coperta di pelo di cammello albino aveva iniziato a disegnare qualcosa, continuando però ad annuire convinto in direzione dell’ammalato quando in realtà stava ignorando ogni sua richiesta.

Sapendo che quella storia sarebbe finita con un’altra crisi isterica di Alfredo e pensando che i rapidi eccessi d’ira e picchi di pressione alta non lo avrebbero aiutato nella sua ripresa fisica per una volta mi sottomessi alle sue stramberie e, senza farmi vedere, registravo con il telefono celato dalle pieghe del vestito quella lista infinita di parole sciorinate da Alfredo.

Verso le sette e mezza i nostri stomaci iniziarono a brontolare e a reclamare di essere riempiti e così mentre Francesco partiva alla volta del bar per fare la scorta io uscivo dalla stanza per cercare un infermiere a cui chiedere cosa potesse mangiare il nostro caro malato. 

«Assolutamente no! Dopo l’intervento deve assumere solo cibi liquidi per le prime ventiquattr’ore. Tra un attimo arrivo io con la sua colazione, non si preoccupi», mi rassicurò un’infermiera rotondetta e un po’ scorbutica.

Prima di rientrare ne approfittai per fare una sosta al bagno delle signore e sentire Amelia. Una volta appreso che si trovava nelle vicinanze di Bologna e tra un’oretta sarebbe arrivata mi dedicai alla grande incognita di quella sera: Alessandro.

Riprovai a chiamarlo e questa volta dopo un paio di squilli fui più fortunata.

Per un attimo restammo entrambi in silenzio dopodiché presi la parola io. «Prima sei sparito. Dove sei?», non riuscivo proprio a capire il senso di fastidio che provavo in quel momento.

Se ufficialmente eravamo una coppia allora perché mi sentivo terribilmente inopportuna nel domandargli che fine avesse fatto? Mi sembrava quasi di impersonare i panni della donna invadente che non si faceva riguardi nel ficcare il naso nella vita del proprio fidanzato.

«Sono andato a casa a cambiarmi e a darmi una rinfrescata prima di recarmi in stazione e poi in redazione. Non vi siete più fatti vivi e così mi sono preso una breve pausa. Come sta?», mi spiegò distrattamente mentre in sottofondo sentivo il rumore della radio.

Capivo perfettamente che Alessandro conosceva Alfie da poco più di un mese e per lui non era altro che un superiore un po’ frivolo ed indiscreto ma rimasi comunque interdetta di fronte a quella manifestazione di scarso interesse. Era pur vero che mi era stato vicino fino all’alba e si stava rendendo molto utile dando un passaggio alla Signora Amelia e aprendo lui l’ufficio ma…

Pensai come sempre che probabilmente ero io a pretendere troppo. In fondo anche Nicola non aveva mai compreso davvero il rapporto d’amicizia che mi legava ad Alfie. Sbuffava sempre quando si presentava a casa nostra senza preavviso, in sua assenza si prendeva gioco del suo inusuale modo di vestire e lo trovava terribilmente chiassoso e colorato.

Gli spiegai sommariamente il quadro clinico di Alfredo senza dilungarmi sul fatto che psicologicamente fosse già tornato perfettamente in sé.

«Bene. Ci vediamo più tardi allora»

«Ok»

«Ok»

E quando il telefono mi riportò solo il muto tu-tu-tu che segnalava la fine della comunicazione rimasi per un attimo immobile chiedendomi cosa fosse appena successo.

Stavamo insieme da tre giorni in teoria e già le nostre chiamate erano piatte e monotone. Non avevamo quasi nulla da dirci e quello che sarebbe dovuto essere detto veniva invece taciuto.

Frenai la tentazione di richiamarlo per chiedergli cosa ci stesse succedendo, incolpando la notte insonne, la stanchezza accumulatasi e la fame.

Il buonumore mi tornò non appena ritornai nella stanza di Alfie, il quale era intento a sfuggire in tutti i modi all’infermiera di poco prima che cercava di portargli alla bocca delle cucchiaiate di quella che pareva purea di mele. Francesco invece, spaparanzato nella mia poltroncina, stava assistendo divertito alla scena mentre si divorava un krapfen alla crema.

«Perché io non posso avere una brioche? O almeno dei biscotti? Io questo omogenizzato non lo voglio! Desista insomma!», strillava mentre l’infermiera tentava di approfittare delle sue urla per cacciargli in bocca il cucchiaio colmo di poltiglia giallognola.

Non vi avevo forse detto che quella piccola donna era leggermente indisponente? Ecco, come volevasi dimostrare, si spazientì, afferrò in malo modo la nuca di Alfie, immobilizzandolo e lo forzò ad aprire la bocca, prima di fargli trangugiare in pochi bocconi tutto il contenuto della confezione di mousse.

 «Non a caso ho lavorato per anni in pediatria…», ci informò mentre con poca delicatezza puliva la bocca di Alfie con un tovagliolo prima di mollare la presa e farlo ricadere sui cuscini.

Dopo che se ne fu andata io e Francesco ci guardammo un attimo senza parlare prima di scoppiare a ridere. Mi feci cadere sulle sue gambe e gli sfilai dalle mani il sacchetto di carta bianca che teneva in pugno.

«Mmh, è integrale con ripieno ai frutti rossi?», chiesi ispezionando il cornetto che riempiva l’involucro.

«Ovviamente! Proprio come piace a lei, mademoiselle…»

Soddisfatta addentai quell’impasto friabile godendomi il sapore perfetto di una calda brioche da poco sfornata. Sapendo di irritarlo mangiai la mia colazione con estrema lentezza, intervallando lunghe pause in cui sorseggiavo il mio cappuccino non zuccherato. Alfie non mi deluse e iniziò a piagnucolare che lui voleva andare a casa, mangiare la parmigiana di melanzane di sua madre e andare a fare shopping da Prada.

«Amico, un’oretta e la tua adorata mammina sarà qui e noi potremo svignarcela lasciandoti alle sue amorevoli cure», lo rassicurò Fra, dandogli una pacca sulla gamba sana con fare incoraggiante. «E comunque per un mese potrai indossare solo metà dei pantaloni del pigiama…», gli fece notare indicando la lunga ingessatura che ricopriva completamente l’arto inferiore.

Sogghignai immaginandomi mentalmente lo shock che probabilmente stava paralizzando la mente di Alfie in quel momento mentre metabolizzava la notizia che per più di trenta giorni avrebbe dovuto dire addio ai suoi splendidi completi abbinati in favore di pigiami antiestetici.

Anche se io i pigiami di Alfie li avevo visti ed erano di una seta così morbida e di una fattezza così pregiata che probabilmente avrei potuto sfilare alla Mostra del Cinema di Venezia con quelli e tutti avrebbero lodato il mio look da red carpet.

«Gin, chiama subito il mio personal shopper, spiegagli la situazione attuale e digli che deve assolutamente trovare una soluzione a questo problema! Come farò? Potrei lavorare da casa e per un mese fare l’eremita. Tanto ormai con lo shopping online posso far si che mi consegnino a casa tutto ciò di cui ho necessità senza dovermi per forza esporre agli occhi del mondo, no?». Al colmo dell’agitazione afferrò il suo iPhone e iniziò a digitare in modo compulsivo senza mai staccare le dita dallo schermo.

Consapevoli che quell’attacco di follia acuta poteva protrarsi per un lungo lasso di tempo decidemmo di lasciarlo fare in modo da prenderci una pausa dal nostro lavoro di Alfie-sitter.

«Hai notato il numero della sua stanza?», gli domandai, sistemandomi meglio sulle sue ginocchia e indicandogli la targhetta usurata affissa al legno della porta che recava scritto 237.

«Non credo sia una coincidenza, probabilmente, in onore di Shining, riservano questa camera solo ai pazzi…», commentò mentre sorseggiava il suo caffè nero.

Come tesi non pareva molto valida dal momento che ci avevano riferito che quando il nostro amico era arrivato in pronto soccorso era in stato di incoscienza però lo interpretai comunque come uno strano segno del destino.

«Il tuo fidanzatino dove si è cacciato?»

Storsi il naso di fronte notando il tono di malcelato disprezzo con cui si era riferito ad Alessandro e sospirai abbattuta. Alessandro non era di certo un fan di Francesco e, visti gli ultimi accadimenti, neanche di Alfie. Francesco dal canto suo non si sforzava neanche di nascondere la sua antipatia per il mio fidanzato. E poi c’ero io che adoravo immensamente tutti e tre.

Sarebbe stato bello per una volta nella vita avere la fortuna di trovare un compagno che piacesse anche ai tuoi amici e non fosse invece fonte di continui dissapori.

«Se ne è andato a casa. Ora sarà quasi in stazione penso…», risposi stancamente passandomi una mano sugli occhi. Indossavo le lenti a contatto da quasi ventiquattr’ore e ormai si erano quasi fuse con il mio occhio.

Francesco ebbe l’accortezza di non commentare e si limitò a lasciarmi una lieve carezza sulla schiena. Approfittai di quella pausa, con Alfie sempre ipnotizzato dal turbinio di parole con cui stava intasando la memoria del suo telefono, per prendere in prestito il barattolino di lacrime artificiali di Fra e fare una capatina in bagno per darmi una sistemata.

Oltre alle occhiaie, naturale dono di una notte passata in piedi, avevo gli occhi cerchiati dall’eyeliner sbavato e dagli sbaffi del mascara. Waterproof un bell’accidenti!

Mi sciacquai il viso, reclinai il capo all’indietro per potermi mettere il collirio con più facilità ed infine sciolsi del tutto i capelli prima di rintrecciarli in una treccia morbida sulla spalle. Quando uscii e spensi la luce mi ritrovai stretta tra due braccia minute e avvolta in una nuvole di profumo di lavanda.

«Ginevra cara, non sai quanto ti sia grata. Quello di stamane è stato il viaggio più lungo di sempre! Mi accompagni tu da Alfredo?», la Signora Amelia, piccola e gracile, come sempre mi prese per mano e mi rivolse un sorriso carico di gratitudine.

Mentre la conducevo alla stanza del figlio mi voltai perché sapevo benissimo che lui sarebbe stato lì a pochi passi da me. Incontrai di sfuggita quegli occhi verdi e subito mi sentii meglio e mi diedi della sciocca per tutti i brutti pensieri infondati che avevo fatto quella mattina presto quando mi ero accorta che lui se ne era andato.

Dopo aver lasciato madre e figlio da soli, Francesco ci lasciò accampando la scusa di dover cercare un telefono pubblico per chiamare l’albergo e Aprile, la poveretta che era stata abbandonata in fretta e furia in una spa dell’Alto Adige. Gli prestai il mio cellulare dato che probabilmente si sarebbero succeduti cinque diversi sovrani sul trono d’Inghilterra prima che lui potesse trovare una cabina telefonica. Mi ringraziò e se ne andò in tutta fretta, facendoci chiaramente capire che lui nei litigi tra amanti non voleva essere coinvolto.

 «Ti porto a casa?», mi chiese gentilmente accarezzandomi una guancia.

Reclinai stanca il viso contro la sua mano e chiusi gli occhi godendomi il contatto con la sua pelle fresca. Io invece stavo letteralmente andando a fuoco a causa delle temperature tropicali che sono sempre presenti nelle strutture ospedaliere.

«Tra un po’, va bene?», lui annuì piano e mi abbracciò in silenzio.

Allungai una mano e seguii in punta di dita il profilo della sua clavicola, lasciata semi scoperta dal colletto allentato della camicia che sbucava dal cappotto. Quando rialzai il capo lo vidi fissarmi sorridente, «Ho sentito Valeria poco fa. Nell’arco di trenta secondi è passata dalle lacrime alle imprecazioni. Penso di non essere molto bravo nel comunicare con tatto le notizie delicate…»

Potevo facilmente immaginare Val, ancora semiaddormentata e con i capelli biondi sparsi a nuvola attorno alla testa, ricevere quella doccia fredda subito seguita però dal racconto che ora Alfie, con la sua gamba rotta, stava abbastanza bene da riprendere il suo ruolo di galletto del pollaio.

«Consolati: ambasciator non porta pena anche se io al posto tuo sarei in pensiero e controllerei che la carrozzeria della Porsche non venga rigata…», lo presi in giro anche se nel profondo sapevo che Val una cosa del genere avrebbe potuto benissimo farla.

Non avevo mai pensato di presentarla a Veronica ma probabilmente era stato un bene perché quelle due insieme sarebbero finite in carcere per il resto dei loro giorni. Anche se per come stavano le cose ultimamente ora a temere di vedersi sfasciata l’auto doveva essere mio fratello Federico.

«Ora si che mi sento molto meglio!», mi rispose ironicamente prima di trascinarmi per un braccio per togliermi dal centro del corridoio dove stavo bloccando la circolazione di un paio di infermieri con lettino e malato al seguito.

Ridacchiai nel vedere le occhiatacce che mi erano state rivolte dalla più giovane e carina delle due donne e ne approfittai per stringermi più vicina ad Alessandro.

Una figura familiare fece capolino dal fondo del corridoio, le mani occupate da una scatola e un’espressione lugubre stampata in volto. «Cos’è successo? Per una volta sei stato tu a ricevere un due di picche?», domandai maligna non appena arrivò a portata d’orecchio.

Francesco per tutta risposta mi sbatté in testa la scatola con mio grande dolore e disappunto. Mi massaggiai pensosa la zona lesa mentre gli rivolgevo sguardi assassini.

«Ti sei comprato un telefono?», gli chiese alle mie spalle Alessandro accennando alla scatola incriminata.

«Ho dovuto, quella pazza donna con cui ero alle terme ha dato i numeri e il concierge dell’albergo mi ha detto che ha distrutto mezza camera, accanendosi in particolar modo sui miei oggetti personali, per un totale di quasi 3000€ di danni. A mie spese ovviamente…», borbottò tra i denti il mio amico visibilmente livido.

Non potei trattenere un sorrisetto malefico. Un po’ se l’era cercata; forse a forza di frequentare donne superficiali e pazze avrebbe capito che era ora di impegnarsi un po’ di più con qualcuno con cui valesse davvero la pena. Glielo avevo ripetuto mille volte che le storie di letto potevano essere anche divertenti all’inizio ma poi alla lunga tediavano e si arrivava sempre a desiderare qualcosa di più profondo. Quando io gli facevo questi discorsi, dispensando i miei saggi consigli, lui solitamente si metteva a cantare a squarciagola per sovrastare la mia voce e non prestarmi la minima attenzione. Quando si dice gettare perle ai porci…

«Sono cose che possono capitare…», commentò poco convinto Alessandro, trattenendo a stento una smorfia.

Se da un lato fui contenta che anche a lui tutto ciò sembrasse una grande sciocchezza, segno che non aveva sperimentato un passato a base di dissolutezze come il caro Franceschino, dall’altro mi infastidì il suo giudicare in silenzio una persona che a malapena conosceva.

Anche io giudicavo una stronzata colossale quella delle storielle a scadenza mensile ma conoscevo il mio amico da anni e avevamo raggiunto un livello di confidenza tale da poterglielo riferire senza il timore di sembrare inopportuna.

Di nuovo mi rimproverai mentalmente convinta di farmi come mio solito troppe paranoie mentali.

«Sì certo, cose che capitano solo a lui però. Sei un idiota caro e non smetterò mai di ripetertelo. Vabbè dai, andiamo a vedere se Amelia è già ripartita alla volta di Firenze in preda alla disperazione dopo dieci minuti da sola con il figlio…», proposi chiudendo la questione. Almeno per il momento perché di sicuro mi sarei vendicata di quella botta alla testa.

Alfredo, da brutto essere infimo qual era, stava facendo le fusa a sua madre in un fiume di ‘sì mammina cara’ e ‘per fortuna ci sei qui tu’. Si poteva dire tutto su quell’uomo frou frou ma non che non sapesse come entrare nelle grazie delle persone con cui si rapportava.

Amelia però era decisamente più furba e ne aveva approfittato per fargli mangiare, senza proferire protesta, una nuova confezione di mousse di mela. Ben gli stava così imparava a fare il pavone conquistatore con chiunque.

«Ragazzi ora voi andate a casa e vi riposate. Domani andate al lavoro normalmente e non preoccupatevi per il neonato qui presente: a lui ci penserò io. E non fatevi carico dei miei spostamenti, ho abitato tutta la vita in questa giungla milanese, vedrò di arrangiarmi», ci ordinò con fare autoritario la Signora Arnaboldi. E nonostante il sorriso dipinto che aveva sulle labbra nessuno di noi tre si sognò minimamente di contraddirla. Tale madre tale figlio.

Agli ordini!

 

 

  
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