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Autore: Lost In Donbass    06/03/2016    4 recensioni
Tom è un traduttore di romanzi, squattrinato, disordinato, con la memoria particolarmente corta e la mania di cacciarsi in casini molto più grandi di lui.
Bill è un giornalista, geniale, psicologicamente instabile, dotato di una memoria elefantiaca e affetto da nevrosi acuta.
Si sono visti e rivisti, questi due ragazzi, ma solo ora si decideranno a parlarsi, a riconoscersi, a entrare in un contatto che di sano non ha proprio niente. E in una Berlino misteriosa, tra amici inconcludenti, grunge degli anni 90, ricordi che vengono a galla, crisi di nervi e perle filosofiche di periferia, riuscirà Tom a salvare Bill da se stesso? O lo perderà di nuovo, forse per l'ultima volta?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
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I’M NOT IN LOVE CAUSE I’M A MESS
 
CAPITOLO PRIMO: IL FRONTISTERION DI TOM

-Allora, Tom, hai capito tutto?
Tom annuì distrattamente, tenendo ancora stretta la gonna di sua madre, sotto lo sguardo comprensivo della donna e della vecchia suora premurosa. Era troppo impegnato a fissare quel punto indistinto nel giardino, sotto quel bellissimo ciliegio in fiore che avrebbe dato non si sa cosa per potervicisi arrampicare.
-Devi ascoltare sempre quello che ti dicono Suor Hilda e Suor Stella, va bene?- continuò sua madre, scompigliandogli dolcemente i capelli arruffati.
-Signora, sono sicura che Tom si troverà benissimo da noi. Non si preoccupi e lo venga a ritirare per le quattro del pomeriggio. Se il piccolo non si dovesse trovare bene, provvederemo a chiamarla.- Suor Hilda sorrise dolcemente alla donna e al nuovo piccolo allievo dell’asilo gestito dalle suore di Magdeburgo.
-Speriamo.- la signora Kaulitz si inginocchiò per terra, stringendo tra le mani le guance paffute di Tom – Divertiti, tesoro. La mamma torna presto.
Tom si limitò ad annuire, dando un bacino appiccicoso sulla guancia della madre, lasciando però vagare lo sguardo su quel bambino seduto sotto l’albero, sì, quello con i capelli scuri e dei fogli in mano.
Non guardò sua madre che si allontanava dall’asilo lanciandogli occhiate apprensive, e non si accorse nemmeno della suora che lo prendeva per mano, e lo portava con dolcezza verso un gruppo di bambini intenti a giocare nel recinto della sabbia, mentre gli diceva cose che il bambino nemmeno registrava. Era troppo concentrato a guardare quello strano bambino sotto l’albero, da solo, lontano da tutti e da tutto. Perché non era nel recinto della sabbia?
-C’è un bambino, laggiù.- tirò la manica della tonaca di Suor Hilda, costringendola a girarsi e a posare lo sguardo stanco sul grosso ciliegio.
-Sì, Tom. Lo conosci, per caso?- la suora gli sorrise, tentando di trascinarlo verso gli altri e i loro camioncini di plastica.
-No. Però è da solo.- insisté il bambino, puntando i piedini sul terreno.
-Magari vuole stare solo.- suggerì la donna, sospirando.
-Come si chiama?
Suor Hilda guardò quello strano bambino biondo appena sbarcato nel loro asilo. Che strano piccino, con quei grandi occhi scuri che sembravano scavare in fondo all’anima nella loro inquietante serietà infantile.
-Lui è Bill. Ora andiamo a conoscerlo.
Tom sorrise impercettibilmente, aspettando che la suora lo portasse dagli altri bambini e dicesse, sorridendo
-Bambini, lui è Tom, è appena arrivato, dobbiamo accoglierlo come si deve.
Tom non ascoltò neppure i suoi coetanei che dicevano qualche nome, grattandosi le guanciotte paffute, che gli sorridevano con quelle boccucce rosee, che lo guardavano diffidenti dall’alto dei loro quattro anni di vita. Quattro anni, ed erano già belve, avevano già capito come bisogna comportarsi in questo mondo. Quattro anni e già sapevano riconoscere l’amico dal nemico, lo strano dal normale, il potente dal debole. Già pronti a schierarsi, come piccoli soldatini senza armatura. Lui voleva andare dal bambino sotto l’albero di ciliegio. Tirò la manica di suor Hilda dopo aver biascicato un “ciao” agli altri bambini, che si misero immediatamente a giocare come se lui non fosse nemmeno esistito. Una piccola, inutile, momentanea, apparizione mattutina nel loro giocare infinito, che tutti avrebbero immediatamente dimenticato dopo pochi secondi.
Suor Hilda sospirò, accompagnando quel buffo, piccolo alunno del loro piccolo asilo verso l’albero, e verso Bill. Bill, che se ne stava rincantucciato in mezzo alle radici, le manine sporche di carbone e i suoi fogli sparpagliati per terra, tutti macchiati di carbone. “Sono loro che vengono a darmi la buonanotte”, diceva spesso Bill, quando qualcuno gli chiedeva cosa fossero quei mostri neri con gli occhi verdi. “Sono i miei amici e vivono sotto il mio letto”.
-Bill, è arrivato un nuovo bambino. Forza, saluta Tom.
Tom si grattò la guanciotta paffuta e disse un misero “Ciao”, troppo impegnato a guardare i capelli arruffati del bambino pallido che stringeva tra le dita piccole e nervose un carboncino. Bill alzò lo sguardo, vuoto e languido allo stesso tempo, e lo posò dentro gli occhi scuri e curiosi dell’altro bambino. E fu un attimo, in cui Tom si sentì pervadere da una sensazione troppo grande e troppo angosciosa per un bambino di soli quattro anni. Gli sembrò di cadere nel vuoto e di non riuscire a respirare, di venire catapultato lontano mille miglia e di venire sollevato da una forza invisibile, per poi rotolare di nuovo sul suolo umidiccio e duro del giardino dell’asilo. Si sentì pervadere da qualcosa di innominato, non appena percepì quelle pupille nere che sembravano scavargli dentro come due mostri divoratori. Distolse subito lo sguardo, arrossendo vistosamente, seguendo con lo sguardo umido di lacrime quel buffo bambino che si era alzato di colpo e si era messo a correre verso il cancello, inseguito da Suor Hilda che inciampava nell’abito monacale.
 
-Che cazzo ci fa la Polizia a scuola?- Tom si grattò i dreadlocks sporgendosi fuori dalla porta della proprio classe insieme ai suoi compagni, guardando con  curiosità alcuni poliziotti che trascinavano a forza fuori da un aula un ragazzo urlante e piangente.
-Dicono che un ragazzo abbia tentato di suicidarsi.- borbottò Julia, occhieggiando curiosamente e con una smorfia i professori che tentavano di rispedirli nelle rispettive classi e di non dare spettacolo.
-Stai scherzando?- Gustav, si alzò sulle punte dei piedi, sporgendosi oltre la spalla di Tom – Ma lo sai chi è quello?
Tom scosse la testa, facendosi largo tra la calca per vedere da vicino il “suicida” che, a giudicare dai pianti atroci e dalle imprecazioni dei poliziotti doveva essere un vero osso duro.
-Bill Schadenwalt. Quello che non ci sta con la testa.- Gustav lo raggiunse ansimando.
-Il nome non mi è nuovo ma non mi dice niente.- grugnì Tom, raggiungendo in fretta il professore di filosofia che stava cacciando quell’orda di liceali morbosi che si erano riversati nei corridoi non appena avevano sentito le volanti della Polizia arrivare – Prof, ma che è successo?
Il professore lo guardò con severità, mentre strappava il telefonino di mano a una ragazza che tentava di riprendere l’accaduto e la spediva via
-Tom, non deve interessarti.
-La prego, prof. Voglio solo sapere che succede.- insisté il rasta, inseguendo il professore nella calca, senza perdere di vista la scena dei poliziotti che trascinavano via quel ragazzo matto, che urlava e si dimenava come fosse posseduto. Cercava di fare leva sul suo sereno rapporto con l’anziano professore, delle loro pacifiche e filosofiche chiacchierate extra scolastiche e sui suoi ottimi voti in filo.
-Un ragazzo ha tentato di suicidarsi con una pistola davanti ai suoi compagni di classe. Finito. Tornatene in classe.
Tom trattenne il fiato, correndo di nuovo nella calca, evitando la prof di matematica e quella di motoria, riuscendo a svicolare ancora una volta e incontrare con lo sguardo un poliziotto particolarmente robusto che sollevava tra le braccia e trasportava Bill. E fu un attimo. Una frazione di secondo in cui Tom vide il viso splendido e femmineo di quel ragazzo distorto dalla furia e dal pianto, i capelli corvini completamente arruffati e il trucco che colava pesantemente sulle guancie, che si dibatteva impotente urlando come se fosse in preda a una vera crisi isterica, scalciando e frignando. L’attimo in cui Tom incrociò gli occhi scuri di Bill fu come una coltellata in pieno petto; nonostante la lontananza, si rese bene conto di quanto quello sguardo perforante lo avesse trapassato come fosse una spada laser. Era una sensazione che non gli era nuova, che già il suo organismo riconosceva ma a cui non sapeva dare un’origine precisa. Si sentì semplicemente trafitto dallo sguardo di quel ragazzo matto, come se gli stesse leggendo dentro l’anima, come se l’incrociarsi delle loro pupille potesse connetterli in un modo così drammatico e potente. Si sentì scandagliato e distrutto da quell’occhiata disperata e malata che lo colpì come un colpo di pistola dritto al cuore. Fu un attimo, la durata di uno sguardo talmente forte  e bruciante da farlo barcollare, e quelle labbra piene e ricoperte di rossetto nero che sillabavano (o era forse solo un brutto effetto della luce) “Salvami”. Tom lo sentì urlato nella sua testa, quel “Salvami”, così potente da fargli quasi venire un conato di vomito. Si sentì gelato sul posto, anche se già un secondo dopo Bill era scomparso dietro il portone della scuola e lui veniva spinto dalla folla verso la sua classe.
Scoprì qualche giorno dopo che Bill, prima di alzarsi di colpo e di puntarsi una pistola in bocca come aveva fatto Kurt Cobain ( solo che lui aveva usato un fucile da caccia ed era … beh, era Kurt, accidenti), si era levato di scatto la maglia e che tutti avevano potuto leggere che sulla pelle si era inciso, con un coltellino, con leggerezza, “Bill  spoke in class today” ( e Tom non poté fare a meno di pensare a quella dannata canzone dei Pearl Jam, “Jeremy” e alla voce di Eddie Vedder quando diceva con quella voce straziante che Jeremy ha parlato) e, poco più sotto “Rette Mich”. E appena capì che quel ragazzo che aveva tentato di suicidarsi e che in fondo aveva solo quindici anni come lui forse stava veramente chiamando lui a salvarlo, non poté fare altro che cominciare a vomitare.
 
Tom se ne stava seduto su quella vecchia poltrona della sala d’aspetto di quel fottuto ospedale comunale, con il braccio al collo, in attesa che lo chiamassero per levargli quella dannata ingessatura. Si era stufato di stare ore ad aspettare in mezzo a vecchi bavosi e bambini frignanti che arrivasse qualcuno a levargli quel fastidiosissimo gesso che da più di tre mesi si teneva appeso al collo. Solo lui era stato così fortunato da iniziare l’Università di Lingue col braccio al collo, delle treccine vagamente esotiche e una splendida espressione da “chi cazzo me l’ha fatto fare di venire qui a studiare russo, francese e inglese con indirizzo per approfondimento in finlandese?”. Sospirò, grattandosi il collo distrattamente, cercando di non guardare la vecchia cellulitica che vicino a lui russava mettendo in mostra una dentiera che aveva visto giorni migliori. Era stufo marcio di perdere il suo tempo in quel vecchio ospedale nella speranza che qualche medico si facesse vivo e gli togliesse quello stramaledetto gesso pieno di stupide firme e faccine cretine. Voleva avere di nuovo il braccio libero per suonare la chitarra, per scrivere a computer, per farsi il caffè da solo senza chiedere aiuto alla sua coinquilina. E buon Dio, no. Lui e Julia non stavano insieme. Anche perché l’avrebbe vista un po’ dura che un tizio profondamente gay stesse insieme a una profondamente lesbica. Sarebbe stato un controsenso, no?
-Signor Kaulitz? È il suo turno.
Trattenne un profondo sospiro di sollievo quando l’infermiera gli fece un cenno, e si alzò, stiracchiandosi e saettando tra gambe ingessate e bambini iperattivi.
L’infermiera lo guidò per una lunga serie di bianchi corridoi asettici e puzzolenti di ammoniaca, facendolo trottare per quello che gli parve un’eternità in mezzo a porte con tristi cartellini, superando malati di ogni genere e barelle che andavano avanti e indietro. E fu proprio attraverso una di quelle porte bianche, rimasta aperta, che vide un ragazzo. Un ragazzo con i capelli neri e lunghissimi, che sembrava tanto una ragazza, appollaiato su una sedia bianca di fianco a un letto vuoto. Avrebbe proseguito senza indugiare oltre se lui non avesse alzato la testa e lo avesse guardato, con quegli enormi occhi scuri contornati di trucco. Di nuovo Tom si sentì sommergere da un’onda che ben conosceva, ma che nuovamente non sapeva catalogare. Rimase incollato agli occhi di quel giovane solitario, riconoscendo l’ondata di depressione e di drammaticità che già aveva visto tanto tempo addietro negli occhi di qualcuno di cui però non gli sovveniva né il nome né il viso. Di nuovo, percepì coltelli che gli affettavano le carni, spazi intergalattici che si spalancavano sotto i suoi piedi e lo lasciavano precipitare all’infinito, prendendo sempre più velocità, sprofondando in qualcosa che sentiva suo ma che allo stesso tempo non conosceva. Un richiamo. Qualcuno lo stava chiamando dentro a quello sguardo fugace ma destabilizzante, come se una persona stesse urlando il suo nome fino a perdere la voce e lui non riuscisse a localizzarla. Cercava di capire da dove venisse, ma si moltiplicava sempre di più quella tacita ma rumorosa richiesta d’aiuto
-Signor Kaulitz? Andiamo?- la voce dell’infermiera lo riscosse, facendolo quasi barcollare dalla brutalità con cui era stato strappato a quello sguardo.
-Eh? Si, scusi, certo, arrivo … - balbettò, affrettandosi dietro alle lunghe gambe snelle della ragazza.
Il ragazzo alzò una mano in segno di saluto, un attimo, ma per Tom fu abbastanza per vedere una scritta fatta a penna sul palmo “Bill has spoken another time”. Ma dove diavolo aveva letto una frase simile? E perché quel nome, Bill, continuava a rimbombargli in testa senza motivo da oramai troppi anni?
 
-Stai scherzando? Mara ti ha chiesto di uscire? Non ci credo!- Tom rise, passandosi una mano tra i capelli scuri, rifacendosi per l’ennesima volta nel giro di un’ora il muccetto. Stavano camminando lungo la Von Eschenbach Strasse, la strada che costeggiava il fiume, ascoltando il rumore delle acque silenziose che scorrevano, illuminate dalle piccole stelle berlinesi che facevano un timido capolino nel cielo nero come la pece. Una delle solite bollenti notti estive tedesche, l’aria calda e soffocante che soffiava e muoveva delicatamente le acque torbide e oscure della Sprea, le luci dei lampioni che illuminavano con il loro pallido alone porzioni di cemento, con quelle grasse e cieche falene che svolazzavano pigramente attorno alla triste luce, il sordo rumore di qualche macchina che rombava ancora nelle strade, i suoni elettronici delle miliardi di discoteche che si svegliavano non appena calava l’oscurità, le risate lontane della gioventù berlinese che si liberavano nella notte buia e bollente, covante di vita sotto le piccole stelline solitarie e biancastre.
-Ti dico di sì! Vi rendete conto? Mi sembra di stare toccando il cielo con un dito.- Georg scoppiò a ridere facendo una sorta di  goffa giravolta, indicando il cielo.
-Secondo me ha fatto una scommessa con qualcuno. Dai, Mara che si mette con te?- Gustav scosse la testa, senza voler dare a vedere che in realtà era piuttosto indispettito. Mara, proprio lei, la mora a cui tutti, ma proprio tutti andavano dietro, sceglieva quella ciofeca di Georg. Impossibile, su.
-Sei solo invidioso.- ribatté l’interessato, dandogli una spinta.
-Però, in fondo, Mara non è sta gran bellezza.- considerò Tom, accendendosi mollemente una sigaretta e soffiando una delicata voluta di fumo chiaro nel vento bollente del sud.
-Tu sei l’ultimo a poter parlare.- Gustav soffocò una risata – Che diavolo ne può sapere un finocchio come te?
-Sarò anche finocchio quanto vuoi, ma gli occhi ce li ho ancora. Ha il mento troppo sfuggente e gli zigomi troppo schiacciati.- Tom lo guardò con fare eloquente.
-E tu me la cassi solo per il mento e gli zigomi? Ma le hai guardato il posteriore, e le curve, e il davanzale?- sbottò Georg, con gli occhi comicamente dilatati.
-Ma dai, su, non potete classificare una ragazza solo in base ai numeri. Mi sembrate il protagonista di quello stupido libro che sto traducendo.- Tom scosse la testa, affondando la mano dentro il tascone della felpa troppo larga, impregnata di fumo e di fritto da fare schifo.
-Che libro è?- chiese Gustav, attaccando voracemente un pacchetto di patatine.
-Una stronzata scritta da un americano, che parla di un ragazzino del college che non ha successo con le ragazze e che quindi parte per un “viaggio ricreativo” insieme a tre suoi amici su un Volkswagen cadente verso la Florida per ritrovare loro se stessi e divertirsi.- Tom tirò fuori dalla tasca un libro spiegazzato, con la copertina chiazzata di caffè e lo mise sotto al naso dei due ragazzi.
Georg lo prese in mano, osservando la foto macchiata di un T1 verde acqua con grandi fiori dipinti sopra e due surf posati affianco in copertina, il titolo scritto a caratteri cubitali “Me, a Tie and a Daydream” in un tripudio di colori fluorescenti.
-“Io, una cravatta e un sogno ad occhi aperti”. Che diavolo c’entra la cravatta?
Tom alzò le spalle, rintascando la sua copia
-Il protagonista ha una cravatta a righe che era appartenuta a suo zio e che si porta sempre dietro, tipo cimelio di famiglia. Ma poi che ne so, non voglio nemmeno capire cosa c’è scritto, e figurarsi che sono appena a tre quarti di libro. Non oso immaginare come vada avanti sto scempio.
-Posso sapere perché tutte le cose più deficienti le danno tutte a te?- Gustav scoppiò a ridere, ricordando ancora la faccia sconvolta di Tom quando si era ritrovato davanti un libro francese che parlava dell’arte erotica dell’Impero Cinese.
-Ispirerò deficienza, cosa ti devo dire?- grugnì Tom, sbuffando un altro soffio di sigaretta nel venticello che aveva cominciato ad alzarsi. Ora, sua madre era sempre così entusiasta quando diceva alle sue amiche che “Il mio Tom è diventato un traduttore di libri, articoli di giornale e manuali veramente eccellente. Traduce dall’inglese, dal francese e dal russo”. Santa donna, si diceva sempre il ragazzo, quando la vedeva così fiera del suo mestiere da accattone con un filo di cultura. Beh, lui solitamente cercava di eludere l’argomento quando usciva fuori con dei suoi coetanei. Perché finiva sempre che le ragazze dicevano il solito, tranquillo, commessa o cameriera, o apprendista segretaria, insomma i tipici lavori da neo laureate non particolarmente brillanti. I ragazzi riuscivano sempre a tirare fuori poliziotto, apprendista avvocato, ma anche un sempre utile elettricista, o portuale. Poi arrivava lui, che diceva, tentando di nascondersi nel divanetto del pub in questione e di diventare un tutt’uno con la tappezzeria, “Ehm, traduttore di romanzi”, facendo solitamente scoppiare un moto d’ilarità nella gente. Che poi, non era colpa sua se era particolarmente portato per le lingue ma si era trovato a spendere tutti i suoi giorni, appena uscito dall’Università, a tradurre libri e saggi, solitamente quelli più stupidi e inutili. Ringraziava il Cielo di aver trovato subito lavoro, quello ovviamente, ma a volte era veramente deprimente essere lì, mentre tutti dormivano a dover completare la sua traduzione. La scena più tipica che si poteva vedere nel suo microscopico appartamento sulla Brandenburg era lui, alle tre del mattino, con un paio di occhiaie talmente gonfie da fare paura, appollaiato sul divano a scrivere a computer le ultime pagine della nuova traduzione che gli avevano spedito, ovviamente in terribile ritardo con la consegna (perché in fondo Tom era perennemente in ritardo), con cinque lattine di birra sparse ai piedi, dieci pacchetti di patatine alberganti sul pavimento, la tv che trasmetteva per la decima volta la quinta stagione di House of Cards, la canottiera unta e bucata, la barba di almeno tre giorni, i capelli sporchi e appiccicati al collo, i pantaloni della tuta talmente luridi che galleggiavano da soli, scatole di cibo cinese che invadevano il pavimento insieme a un numero imprecisato di tazze di caffè vuote e una splendida espressione da cane rabbioso stampata sulla sua faccia. Perché Tom alla fine si riduceva sempre a leggere e a tradurre i libri che gli venivano assegnati dalle case editrici negli ultimi giorni disponibili, quelli dove i traduttori normali finivano di mettere i puntini sulle i. Beh, lui era alternativo. E meno male che il suo capo, nonostante lo avesse più volte minacciato di licenziamento in tronco ed estromissione a vita da tutte le case editrici tedesche, apprezzava molto le sue traduzioni e così lo lasciava stare nel suo mondo fatto di cibo grasso, vestiti unti, e televisione. Un po’come faceva Julia, in realtà. Che poi, probabilmente gli abitanti del palazzo erano convinti che loro due fossero anche sposati, visto che convivevano in quel lurido appartamentino da quando avevano diciannove anni ed erano sbarcati a Berlino per l’Università, quando lui aveva ancora le treccine e lei aveva la fissa dei boccoli. Ed erano tranquillamente passati sette anni, e tutti e due, a quasi ventisette anni, continuavano a rimanere i soliti squattrinati di sempre, che litigavano come due cani, che si volevano bene, che non riuscivano a uscire dalla loro situazione rimasta stagna da quando erano arrivati nella capitale e che tiravano avanti, anche se lui adesso non aveva più le treccine ma i capelli lunghi e lisci e lei era tornata a lisciarseli meticolosamente con la piastra. Ah, e che ovviamente lei si era trovata da un annetto circa una ragazza fantastica, mentre lui rimaneva il solito single senza via d’uscita di sempre. E Tom non avrebbe mai dimenticato la volta in cui erano stati invitati al matrimonio della cugina di Julia (che poi, lui se ne sarebbe guardato bene dall’andarci, ma la fantomatica cugina aveva insistito che Julia avrebbe dovuto accompagnarsi di un “cavaliere”, ignorando il fatto che l’amata cuginetta mai avrebbe potuto avere un cavaliere. Forse una principessa.) e così erano andati, tutti e due, vestiti con smoking unto e bisunto affittato dagli indonesiani sotto casa lui, e con abitino bianco succinto rubato alla vicina lei, e Tom si ricordava ancora tutta la sfilza di complimenti che avevano fatto a quella “coppia fantastica” che erano. Peccato che poi era finita con Tom che si faceva lo sposo nei bagni della Chiesa, all’insaputa dell’ignara sposa, e che Julia si faceva contemporaneamente la damigella. Oh, sì, Tom e Julia erano veramente una coppia fantastica.
-Più che deficienza, ispiri accattonaggio.- commentò Georg, incassando ridendo il pugno che puntualmente Tom gli diede sulla testa.
-Perché infatti voi ispirate grandi sentimenti.- disse Tom – Dai, un traduttore, un barista e un agente immobiliare. Un bel trio per un film di Woody Allen. Se poi ci aggiungiamo Julia, che è pure ebrea, siamo veramente pronti per sbancare sulla scena hollywoodiana  con “Midnight in Berlin”.
-Eh, non sarebbe malaccio.- acconsentì Gustav, ruminando un’altra patatina – In più, con due ragazzi omosessuali che dividono l’appartamento e un brillante trasferimento da una città di periferia come Magdeburgo, siamo certi che il buon, vecchio Woody ci assolda subito come cavalli di battaglia per il nuovo Oscar.
-E se farò l’attore, Mara cadrà definitivamente ai miei piedi.- sorrise compiaciuto Georg, sfregandosi le mani.
-Ragazzi! Scusatemi, ragazzi!
Una voce piuttosto acuta e affannata rimbombò nella via, facendo immobilizzare i tre amici. Beh, evidentemente stava chiamando loro. Visto che quell’anziana coppia di vecchietti che transitava non potevano venire etichettati esattamente come “ragazzi”. Si girarono tutti e tre, incuriositi, e videro sopraggiungere di corsa un ragazzo, che barcollava su un paio di stivali col tacco a spillo esageratamente alti.
-Se è una drag queen che ci vuole accalappiare, Tom distoglila e noi ce la battiamo.- sussurrò a denti stretti Gustav, pronto a darsi alla fuga.
-Hai bisogno di qualcosa?- Tom non stette a sentire l’amico e si avvicinò al ragazzo ansimante e instabile sulle gambe lunghe e magre (e che gambe, si ritrovò a pensare Tom, dandosi poi del pervertito da solo), appoggiato al parapetto del fiume, il respiro pesante di chi aveva appena fatto una corsa sfiancante.
Il ragazzo alzò lo sguardo su Tom, un debole sorriso gli decorava le labbra piene e ricoperte di un tenue rossetto, i capelli biondo platino tenuti indietro da un quintale di gel rilucevano sotto la luce malaticcia del lampione, i grandi occhi scuri ombreggiati da quintali di trucco brillavano di una luce esaltata, i piercing sulle orecchie e sulle sopracciglia brillavano sinistramente, i succinti vestiti neri gli fasciavano un corpo magrissimo e slanciato, quasi femmineo.
-Non mi riconosci?- sussurrò, sorridendo un po’ più apertamente e sfarfallando le lunghe ciglia ricoperte di mascara argentato.
Tom si grattò nervosamente la guancia, con un’espressione un po’ da allocco.
-Ehm, veramente io … no. Ci conosciamo?
Ok, lui non era fisionomista, proprio per nulla. Però cavolo, se avesse conosciuto un tipo così appariscente se lo sarebbe ricordato! (E un fondoschiena così mica lo trovi tutti i giorni, gli suggerì la coscienza. Vero anche quello. Tom non dimenticava i ragazzi potenzialmente scopabili, proprio no).
-Certo che ci conosciamo!- disse il ragazzo, con quella voce suadente e melodica, dolce e vibrante. – Fante di Picche, ti sei dimenticato di Alice?
Tom sbatté incredulo gli occhi, assumendo una buffa espressione corrucciata
-Ehm, no. Scusa, ma temo che tu mi abbia confuso con qualcun altro.
-Io non mi confondo mai.- il ragazzo biondo incrociò la magre braccia al petto – Davvero, non sai chi sono?
-Ti ho detto di no.- disse pazientemente Tom, sentendosi fastidiosamente scandagliato da quei grandi occhi caramellati che lo analizzavano come se fosse una cavia da laboratorio, e cercando di ignorare le occhiate terrorizzate di Gustav e i gesti che lo invitavano a una fuga precipitosa di Georg. – Sul serio, non ti conosco. Magari cerchi qualcuno che mi assomiglia, ma ti assicuro che io e te non ci siamo mai visti prima.
-Ti dico che ci siamo visti tre volte, invece.- il biondo sbatté un tacco per terra, innervosito – Tre volte, come la Trinità, come le tre donne di Klimt, come le fasi di vita di un uomo. Tre volte!
Il ragazzo cominciò a contare sulle lunghe dita pallide il numero tre.
Tom prese un profondo respiro, passandosi una mano tra i capelli. Perfetto, proprio la serata ideale in cui beccarsi un malato mentale che tentava di tacchinarselo citando Klimt e Alice nel Paese delle Meraviglie. Ci mancava giusto il matto, per i loro film da proporre al vecchio Woody. Magari ci usciva pure l’Oscar come Migliore Sceneggiatura Originale.
-E io sono certo di no.- continuò, tentando di non perdere la calma, e di tenere buona la coscienza che tornava a bussare. In effetti, da quanto era che non faceva sesso con qualcuno? Tipo … un mese? Si sentiva peggio che quello sfigato cronico del protagonista di quel fottuto libro. Ok, non era quello che avrebbe dovuto pensare di un ragazzo completamente fatto (o completamente matto), ma, seriamente, come poteva non soffermarsi a guardare quel fisico scheletrico e malaticcio, che lui trovava semplicemente da urlo, e quel visino che non aveva niente a che invidiare a quelle bambole vittoriane?
-Ah.- il biondo abbassò lo sguardo sugli stivali neri borchiati, con quei tacchi a stiletto troppo alti, sbiancando ancora di più sotto quelli che potevano essere tripli strati di ciprie e fondotinta bianchi.
-Mi dispiace ma … - biascicò Tom, non osando toccargli quella spalla pallida lasciata nuda dalla maglia a rete che gli ricadeva troppo larga sul petto magrissimo. Le sue spalle sembravano i rimasugli di un paio di ali angeliche, o demoniache. Come se lo avessero strappato a forza dal Paradiso o dall’Inferno e gliele avessero bruciate, con milioni di sigarette vilmente umane, lasciando due tristi e doloranti monconi che si muovevano come ciechi occhi nel buio. A Tom sembrò quasi di intravedere i due rimasugli della sua struttura alata fatta di ossa, e immaginò un enorme paio di ali da pipistrello che si aprivano dietro la schiena del ragazzo.
-Scusami.- i grandi occhi del ragazzo, brillanti sotto quintali di lustrini e mascara argentato, si posarono di nuovo sul viso di Tom – Io … non … pensavo fossi lui. Ma se non lo sei allora … come non detto … addio.
Tom non realizzò nemmeno quando afferrò il tipo per il polso magro e coperto da enormi bracciali tribali, stringendolo nella sua morsa forte.
-Sei sicuro di sentirti bene?- sussurrò. E poi perché cazzo gli era rimasta sta specie di spirito da Giovane Marmotta, di quando era ancora uno stupido scout di otto anni? Non aveva fatto che metterlo nei casini, come quando si era offerto di portare alla vecchietta di sopra le borse e lei lo aveva preso a ombrellate chiamandolo “Vile ladro e violentatore di signore in età!”. Beh, ora era più o meno uguale. Perché preoccuparsi di un demone caduto giù dall’Inferno? “Lascia stare i demoni, Tom, ne hai già abbastanza per conto tuo per doverti sobbarcarti quelli degli altri” gli suggeriva sempre la zia Gretel, davanti a una calda tazza di cioccolata bollente e un ginocchio sbucciato dopo essere caduto dall’altalena della fattoria della zietta.
-Certo che sto bene. Io sono felice- sussurrò il biondo, guardando la mano grande e callosa di Tom circondargli il polso delicato e pallido e togliendolo delicatamente dalla sua presa, indietreggiando lentamente, con quel sorriso malinconico e vagamente clownesco stampato sulle labbra truccate – Bill é sempre felice dopo che ha trovato i suoi amici.
Tom spalancò gli occhi, aggrottando le sopracciglia
-Come, scusa? Non credo di …
-Sono nella mia testa.- il ragazzo scoppiò a ridere, con un filo di isteria nella voce. E poi alzò finalmente lo sguardo, puntandolo negli occhi di Tom. E per il ragazzo fu una sorta di brutto dejà vu, un viaggio a ritroso in momenti della sua adolescenza che si era tranquillamente dimenticato, che aveva pensato bene di seppellire sotto strati di avvenimenti e libri. Qualcosa si risvegliò dentro la sua coscienza, un sentimento che si era adagiato in mezzo a piccoli parti di vita, scavandosi un comodo rifugio sotto i ricordi confusi di Magdeburgo, sotto le risate dimenticate, i suoi vecchi sogni, i rimasugli della sua spensierata infanzia, le stupidate che continuava a ripetere come fosse sempre un eterno bambino. Cominciò a risalire in superficie, a riaffiorare nella mente confusa e trasognata di Tom, bussando all’anticamera del suo cervello e rifacendosi largo, ricordandogli la sua esistenza nascosta ma sempre pronta a uscire allo scoperto. Perché indubbiamente il corpo di Tom conosceva quello sguardo languido e drammatico, disperato ma malizioso, innocente ma diabolico. Era una forza che lo aveva già scosso in precedenza, ma a cui non sapeva dare un nome, un’origine. Non la ricollegava ma la riconosceva, come fosse un cieco che si trova sotto le mani la stessa persona dopo tanti anni. Eppure sapeva che in  qualche modo era una cosa già vissuta, e che si ripeteva, come un avvertimento in una lingua che per lui era troppo criptica per essere compresa a fondo. Si sentì semplicemente scandagliato da quegli enormi occhi truccati, vuoti ma allo stesso tempo ridondanti di infantile tristezza, che sembravano leggergli all’inverso nelle pupille, cercare nel suo subconscio qualcosa che lo potesse aiutare nella sua strampalata ricerca.
-Evidentemente mi sono sbagliato.- il biondo si passò una mano tra i capelli indubbiamente tinti, distogliendo lo sguardo e facendo quasi barcollare Tom, come se avesse tagliato un filo elettrico – Scusami. Ci assomigliavi così tanto … pensavo che potesse essere il solo ad essere così perfettamente imperfetto. Forse allora non è l’unico al mondo.
-Ahem, non c’è problema, figurati, io … - cominciò a balbettare, guardando il collo niveo del ragazzo, appesantito da grosse collane di perle.
Avrebbe voluto dire qualcosa di geniale, di intrigante, qualcosa che lo rendesse anche solo un minimo interessante agli occhi del biondo come il tizio che evidentemente gli assomigliava, ma gli venne fuori solo la sua migliore espressione da allocco patentato mentre guardava il ragazzo fargli un mezzo sorriso apologetico e poi cominciare a correre nella direzione del Banhof Zoo, le lunghe gambe che saettavano come quella di una gazzella nella cupa mezzanotte berlinese, i capelli platinati che rilucevano come le borchie sotto le incerte luci dei lampioni.
-Oh Tom, ma si può sapere chi era?- Georg gli si avvicinò guardingo, posandogli una mano sulla spalla.
-Era una drag queen? Avevo ragione?- insisté Gustav – Stava cercando di estorcerti una nottata insieme?
-Ma che drag queen, Gustav, era un ragazzo che mi ha scambiato per qualcun altro, si è solo confuso.- sbottò Tom.
-Sbaglio quando dico che doveva essere particolarmente attraente?- Georg sogghignò, vedendo l’espressione sempre vagamente trasognata del suo amico.
-Chiamalo attraente, Geo. Era una stella del firmamento.- mormorò Tom.
-A me sembrava solamente uno drag queen tossica, anoressica e affetta da AIDS.- commentò Gustav, attaccando il secondo pacchetto di patatine – Belin, Tom, se quello era bello, io nella mia vita precedente ero Gloria Swanson.
-Senti un po’, qui dentro quello frocio sono io, quindi, sono io che decido se un uomo è bello o no. Hai mica cambiato sponda?- Tom gli diede una amichevole spinta, spettinandogli la zazzera bionda.
-Ehi! Non insinuare!- Gustav cercò di ricambiare la spinta, borbottando qualche insulto tra i denti.
Tom si sciolse lo chignon, passandosi una mano tra i capelli, cercando di riordinare nella sua mente confusa quella specie di visione surreale che si rifletteva nel suo cervello come fossero una cascata di luci che si riflettevano sull’oscura Sprea che scorreva placidamente vicino a loro. C’era qualcosa che effettivamente non gli era nuovo in quel buffo ragazzo confuso e matto. Come quegli occhi, e quello sguardo che avrebbe distrutto la Muraglia Cinese con una sola occhiata, che avrebbe sciolto Stalin, che avrebbe spezzato il diamante puro. O anche quel nome che aveva detto, quel Bill, un nome tanto semplice e elementare quanto rimbombante da anni nella testa di Tom, perché erano anni che lui ogni tanto, nella veglia delle cinque del mattino sentiva delle voci che gemevano quel “Bill”, che gli facevano scorrere quelle quattro lettere davanti nonostante lui si ostinasse a non ricordare se avesse mai conosciuto qualcuno che portasse quel nome. Oppure quell’accenno ai Nirvana, quella citazione lampo di Lithium, che gli aveva fatto riverberare nel cervello una vecchia immagine che oramai il suo cervello aveva voluto cancellare. Eppure vi doveva per forza essere qualcosa legato al suo passato, immagini, fotografie dell’attimo, suoni, era come se avesse richiamato alla luce ricordi che nessuno avrebbe dovuto svegliare. Non ricordava nulla di chiaro, solo immagini flash senza un ordine preciso. E sembrava quasi che la visione del biondo tinto avesse risvegliato il suo vecchio Io, in pezzettini, lasciando stranito ma allo stesso tempo assurdamente rilassato. Eppure era sicuro di non averlo mai visto prima. Cercava di auto ribadirsi il concetto: se lo sarebbe ricordato, e ok che aveva la memoria di un criceto ritardato, ma un tizio come il biondo di prima era qualcosa di indimenticabile.
-A questo punto, abbiamo anche l’inizio del film assicurato.- commentò Georg – Un incontro notturno con una figura dalla discutibile sanità mentale.
-Figlioli, siamo i nuovi Saranno Famosi.- rise Tom.
-Quella cazzata di Saranno Famosi, solo te potevi guardarla.- Gustav sospirò – E comunque, che ne dite se ci infiliamo in un altro pub?
-Hai ancora dei soldi in tasca?- Georg fece tanto d’occhi.
-No, ma semmai mandiamo avanti Tom che si tacchini la cameriera e così ci molla la roba a scrocco.- Gustav gonfiò il petto, fiero dei suoi geniali piani d’assalto ai bar.
-Però sta cosa me la dovrai spiegare un giorno: sono l’unico, e dico l’unico, gay di tutta la compagnia e mandate sempre me a fare il filo alle donne. Perché? Cioè, non so manco da dove iniziare a fare complimenti per scroccare la roba!- sbottò Tom, memore di tutte le volte, da quando avevano quindici anni, che veniva spedito avanti con il compito di incantare la ragazza in questione e prendere il bottino di guerra. E poi gli toccava fare di tutto per tenere lontane quelle galline che tentavano di estorcergli prima baci e appuntamenti, poi a mano a mano che cresceva anche rapporti intimi. Era dura la vita del migliore amico.
-Tu hai il sex appeal che piace alle donne di cui noi siamo sprovvisti.- spiegarono in coro i G&G.
-Comunque, no. Oggi ve l’arrangiate da soli, io e Lloyd torniamo a casa- prima che Georg e Gustav chiedessero chi mai fosse Lloyd, si affrettò ad aggiungere – No, non ho un amante, è semplicemente quel coglione del protagonista del libro che, sì, oltre a essere un deficiente ha pure un nome deficiente.
-Mi stavo infatti chiedendo come mai ti fossi andato a scegliere un amante con un nome così orribile.- commentò Gustav, passandosi una mano unticcia nella zazzera bionda ancora più unticcia.
-Piuttosto, perché vuoi andare a casa? È solo l’una di notte.- Georg lo guardò con aria interrogativa, pronto a lanciarsi in uno di quei terzi gradi che solo lui poteva fare, direttamente scopiazzati da C.S.I. e dal Tenente Colombo.
-Potrei dirti che sto crollando dal sonno, ma non mi crederesti, vero?- Tom gli lanciò un’occhiata penetrante.
-Beh, per uno che riesce a stare tre giorni senza chiudere occhio a tradurre tomi di ottocento pagine dal russo, diciamo che sarebbe improbabile.- Georg assunse un’espressione vagamente simile a quella di Nero Wolf.
-E se ti dicessi che voglio andare a vedere come sta Julia?
-Ci credo ancora meno, visto che voi due siete il prototipo perfetto di gemelli coltelli.
-E allora non potresti farmi andare pacificamente a casa?
-Nemmeno questo, perché non sia mai detto che Tom Kaulitz vada a casa prima delle tre del mattino.- Georg fece un’aria saputa – Sputa il rospo. Secondo me c’entra la drag queen di prima.
-Grazie al tubo, Holmes. A quello c’ero arrivato anche io.- grugnì Gustav – Su, Tom, dettagli! Ci scommetto che ti stava ricattando con qualche sporco trucco.
-E meno male che poi ero io quello che vede troppi film e legge troppi libri.- Tom si mise le mani nei capelli – Primo, non è una dannata drag queen, come ve lo devo dire?! È solo un ragazzo che evidentemente si concia in modo un po’ … ehm … appariscente e che è indubbiamente, palesemente, terribilmente effeminato. Secondo, non mi stava ricattando, Gus, si è solo confuso. Guarda che può succedere di sbagliare.
-Però deve averti detto qualcosa di conturbante.- profetizzò Georg – E noi, in qualità di tuoi migliori amici, vogliamo sapere cosa ti ha detto. Saremo anche un po’ brilli, ma le tue smorfie le vedevo.
Tom alzò gli occhi al cielo, volendo scomparire nella Sprea e non tornare più su.
-Accidenti che pettegole che siete! È solo che … va bene, ok, era particolarmente insistente per uno che canna persona. E poi ha cominciato a dire che c’eravamo già visti tre volte, e a fare strani paragoni col numero tre, e poi ha tirato fuori Alice in Wonderland e un certo Fante di Picche, e ha attaccato con citazioni caotiche dei Nirvana, e poi niente. Se ne è andato, è scappato.
-Allora era un bucomane. Anzi, no i bucomani sono apatici, forse uno strafatto di acidi. Sì, sono sicuro.- Gustav assunse un’espressione da grande esperto – Se era sballato di LSD, avrà avuto delle visioni metafisiche e così ci spieghiamo tutta la schizzata.
-Non era fatto.- rispose Tom, rivedendo per un intensissimo attimo quei pozzi senza fondo che erano gli occhi dell’affascinante sconosciuto – Aveva le pupille normali. E il tono di voce fermo. Senza contare che barcollava solo perché aveva i tacchi alti almeno 10 centimetri. Ma no, Gustav, era solo un tipo clownesco, vagamente grottesco, forse un po’ mentalmente instabile.
“Ma allora” gli ricordò la coscienza “se fosse solo una figura così, perché ti sei trovato a dover combattere contro ricordi che avevi cercato di cancellare tanto tempo addietro? Come mai sai di aver riconosciuto quegli occhi, di averli già sperimentati quando eri bambino? Come mai non ti è nuovo quel nome e quella stupida citazione di Kurt Cobain? C’è qualcosa che non ricordi, Tom, qualcosa che hai tentato di scordare ma che è involontariamente rimasta nel tuo oscuro subconscio. E lui l’ha risvegliata. Ragiona, Tom, ragiona: perché non ti è nuovo nulla del biondo tinto di prima?”
-Ragazzi, sapete bene che ho la memoria straordinariamente corta- esordì, rifacendosi per almeno la centesima volta la coda – Perciò approfitto del fatto che ci conosciamo da quando siamo venuti al mondo per chiedervi: abbiamo mai avuto, nel nostro giro a Magdeburgo, un amico o un conoscente, o anche un parente di qualche nostro amico, che si chiamava Bill?
-Bill? No, non mi pare.- disse Georg, grattandosi il mento – No, nessun Bill. C’era Wilhelm, ma lo abbiamo sempre chiamato Helm, mai Bill, e nemmeno Will.
-Nah. Mai sentito.- annuì Gustav. – Perché ti interessa?
-E qualcuno impallato, ma proprio fissato intendo, con i Nirvana, i Pearl Jam, il grunge in generale? Conoscevamo qualcuno?- insisté Tom.
-A parte te nessuno.- commentò Georg – Intendo, c’era Frederick ma …
-Ma va beh, Fred è come me, su, fans normali.- tagliò corto Tom – Io ne voglio uno che non vedeva altro.
Gustav scosse energicamente la testa
-Nessun groupie ritardatario di Cobain, mi dispiace. C’era Dana, ma lei era quella con la fissazione dei Iron Maiden e dei White Snake, non conta.
-Dio, Dana e quella dannata “2 Minutes to Midnight” sparata a tradimento nelle orecchie mentre dormivo … figlia di … - ricordò Georg, grugnendo di disappunto al ricordo di quella brutta mattinata in campeggio.
Tom annuì distrattamente, cacciandosi di nuovo le mani in tasca e limitandosi a dire
-Andata, ragazzi, io torno sul serio a casa. Devo rimuginare.
-Tom che rimugina: domani nevica.- commentò Gustav, beccandosi la solita spallata piena di insofferenza.
E Tom cominciò a veleggiare silenziosamente verso casa, senza ascoltare le battute dei G&G, alla perenne ricerca di un altro pub, le mani affondate nelle tasche e strette attorno a quel dannato libro spiegazzato e unticcio, la sigaretta che ormai spenta gli pendeva all’angolo della bocca. Avrebbe chiesto a Julia qualche illuminazione, lei aveva una memoria di elefante, se lo sarebbe sicuramente ricordato se c’era qualcheduno impallato con il grunge americano degli anni 90, e che magari, casualmente, si chiamava pure Bill. E indubbiamente, nei ricordi confusi che il biondo gli aveva tirato fuori dal suo addormentato subconscio, c’era anche una pistola e un attacco di vomito improvviso, ai quali però non sapeva dare una consequenzialità e un filo logico. Solo, una pistola, la scuola, vomito, e il vago ritmo di una canzone dei Pearl Jam che gli rintronava i canali uditivi senza però riuscire a capire di quale canzone si trattasse.

***
Buonasera ragazze! Eccomi qui tornata con un'altra storia (per chi mi conosce già: sì, sono una palla lo so, ma non posso fare a meno di scrivere stupidate e impestare il sito). Innanzitutto, spero che il primo capitolo vi sia piaciuto, anche se non si capisce un tubo di niente ed è scritto da cani come al solito. Prometto che la storia si farà più interessante andando avanti, ovvio (sperem); ci sarà tanto, ma tanto angst, stemperato da quel coglione di Tom (si, Tom, lo sai che ti voglio bene amico) ma anche un po' di fluff che non guasta mai. Poi non so, visto che ho paura di cosa uscirà fuori (leggo troppi libri, devo darmi una calmata) ... spero solamente che mi vogliate lasciare una recensione per sapere che ne pensiate, se vale la pena di continuarla o no
Grazie a tutte, fatevi sentire, un bacione
Charlie ;*
P.S. il frontisterion è il "pensatoio" in greco, termine coniato da Aristofane nella sua commedia "Le Nubi", dove Socrate e i suoi filosofi si rintanano in questo frontisterion ... un po' come Tom, dai.
P.S. 2: riferimenti a Nirvana e Pearl Jam assolutamente veri

 
  
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