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Autore: Black Swallowtail    08/03/2016    1 recensioni
Questa è una battaglia che può combattere solo chi è profondamente disperato o chi possiede una fede incrollabile su qualcosa.
Non posso fare a meno di chiedermi, per l'ennesima volta… quale delle due ragioni alberghi in me.
Ci sarà un'altra alba. Ne sono sicura.
Il mio sguardo è catturato dalla luna.
Siamo abbastanza disperati da gettare via la nostra umanità, ma abbiamo in noi abbastanza speranze per combattere. Non abbiamo nulla da perdere, nella nostra lotta, nemmeno la nostra umanità. L'ho capito dopo aver visto il destino di coloro che si sono arresi. Fin dall'inizio, noi eravamo fatti di pezzi infranti. Fin dall'inizio, noi—noi eravamo rotti.
(...)
“Mi dispiace,” sussurro, mentre mi allontano da quel luogo, lasciandolo nuovamente a se stesso e al suo abbandono. Mi calo il cappuccio sul viso.
“Per favore, ricordami… vivida com'ero.”
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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We are made from broken parts

 

Le due figure che scivolano all'interno si guardano attorno, guardinghe, le mani già poggiate sulle armi, stringendone in modo convulso l'elsa. Entrambi sono avvolti in normali vesti da caccia, semplici abiti neri per riuscire a nascondersi meglio nel buio e mimetizzarsi tra le rovine di quella che un tempo era la città di Yharnam. Uno dei due fa un rapido cenno al compagno, aprendo l'ascia con il sinistro rumore del meccanismo metallico che scatta, mandandomi un brivido lungo la schiena, fino a raggiungere l'estremità del mio corpo, dove si trasforma in una sensazione fantasma, che mi sembra di avvertire nonostante non ne sia più capace da tempo. Mai come ora trovo più vera l'affermazione che spesso ho sentito udire da Cacciatori più anziani, con la malinconia negli occhi, come se guardassero verso un mondo dove io non sarei mai potuta giungere – ci rendiamo conto del valore di una cosa che diamo per scontata solo quando la perdiamo.

Il Cacciatore si poggia con le spalle al muro, sporgendosi appena di qualche centimetro per riuscire ad osservare l'interno della stanza avvolta nel buio, dove un forte odore di incenso dal vago sapore bruciaticcio che aggredisce le narici riempie l'ambiente come un miasma. Dopo essersi accertato della mancanza di pericoli, annuisce seccamente verso il compagno; con un sospiro di sollievo, per scacciare via la tensione, l'altro muove il braccio sinuosamente, attivando il meccanismo di chiusura della sua mannaia, che con uno scatto torna alla sua forma compatta. Si concede perfino un momento per esaminare attentamente alcuni tra i libri lacerati e gettati a terra, sfogliandone qualche pagina, prima di schioccare la lingua con disappunto.

Il piccolo ingresso della cappella è completamente vuota. Non c'è una sola anima viva, all'interno, se non loro, e li vedo comunque con i nervi a fior di pelle, i denti digrignati come se attendessero un attacco da un momento all'altro. Non posso biasimarli. Yharnam è un luogo che non perdona, dopotutto; è terribilmente facile perdere la propria sanità in un luogo come questo. Ogni angolo nasconde un nemico, ed ogni nemico è mosso da una famelica, insensata sete di sangue che lo trasforma in un folle combattente incurante di se stesso. L'odio che è nato nei loro corpi e si è sviluppato insieme al veleno della malattia ha distorto la mente di questi uomini, e la loro fede in un culto che li ha abbandonati ha piantato nei loro cuori l'ultimo seme della disperazione; i rovi hanno stretto la sanità e l'hanno soffocata con l'edera parassitaria della pazzia. Per i Cacciatori, Yharnam è l'incarnazione dell'ultimo incubo, che risiede nelle menti umane, nel profondo del loro subconscio.

Sono ignari perfino della verità. Non riescono a vedere oltre il sottile velo che separa la mente umana dall'illusione che ricopre la realtà; non sono ancora pronti a mercificare la loro razionalità in cambio di una mera visione della realtà; per strappare questo strato intangibile, è necessaria Intuizione e, con essa, una volontà allo stesso tempo bestiale e terribilmente umana: la volontà di non perdere se stessi, rimanere ancorati alla propria coscienza, ma che supera la soglia di sopportazione dell'uomo comune. Nessuna mente che non sia stata addestrata a sopportare le peggiori visioni che il mondo nella sua decadenza offre può sopportare un tale fardello; per tale ragione, è così facile che la malattia, che il sangue delle nostre vene, cresce tanto in forza e ci richiama con una promessa, alleviare i nostri dolori. Perdere la coscienza umana, alla fine, vuol dire strapparsi di dosso tutto il suo peso. Vuol dire non dover più sopportare questo incubo.

Non sono forse più umani coloro che scelgono di caderne vittima per sfuggire da questo incubo, piuttosto che quelli i quali ne rimangono disperatamente aggrappati, vivendolo ogni istante?

“—Sei sicuro che sia stata una buona idea venire a cacciare in questa zona?” la domanda del cacciatore con la mannaia è trepidante, la sua voce è colma dell'incertezza e della sottile, gelida paura che è scivolata nel suo animo, mentre si siede a terra con la schiena poggiata contro la balaustra.

“Non è una scelta. Dobbiamo farlo e basta,” risponde seccamente l'altro; la sua mano fruga a lungo all'interno della tasca, prima di tirarne fuori un piccolo panno sudicio e strappato, stretto con un piccolo pezzo di corda arrangiato in un nodo posticcio, che tira al suo compagno con un singolo movimento del braccio; l'altro lo prende al volo, mormorando un ringraziamento, prima di tirarne fuori una pastiglia dal colore vagamente rossastro, più chiaro della tinta cremisi scura del sangue. Di qualunque cosa si tratti, l'uomo sembra osservarla attentamente per lunghi istanti, tenendola stretta da pollice ed indice, prima di metterla in bocca e frantumarla con i denti, producendo un basso rumore di qualcosa di duro triturato, che suona terribilmente spettrale nel silenzio di questo luogo.

“Avremmo potuto rimanere semplicemente a Yharnam.”

“Dopo tutto questo tempo di stallo, qualcuno è riuscito ad uccidere Gascoigne ed è penetrato nella Cattedrale, non dirmi che vuoi rimanere a perdere tempo lì fuori?” il Cacciatore con l'ascia si volta, rivolgendogli un ghigno sinistro, il suo respiro si condensa in una nuvoletta di gelo che riempie l'aria, prima di svanire in un battito di ciglia, “Dobbiamo andare avanti. Non riesco più a sopportare la vista di quelle persone ridotte alla follia. Perché… mi ricordano costantemente cosa ci succederebbe, se lasciassimo che la malattia prenda il sopravvento.”

L'altro abbassa lo sguardo, l'ampio cappello calato sul volto mi impedisce di osservarlo in viso, ma posso sentirlo sospirare distintamente, mentre scuote la testa e rimette quelle strane pastiglie in tasca. Poggia la mannaia di fronte a sé, sfiorandone appena la lama dentata con i polpastrelli avvolti nei guanti, seguendone il profilo della lama lentamente, “Voglio soltanto uscire vivo da questo incubo, Howard. Non chiedo altro. Voglio solo rivedere la mia famiglia...”

“Vogliamo tutti qualcosa, Jacob. Vogliamo tutti poter vedere l'alba e riuscire a sfuggire da questo incubo. Ogni momento che passiamo qui, sento la follia peggiorare. Sento la mia mente che inizia a perdere il senso della realtà. Quando osservo quelle bestie, mi chiedo se quello non è il destino a cui siamo condannati,” si porta alle labbra una bottiglietta trasparente colma di un liquido nerastro che gorgoglia quando viene stappato, e scende lento come fango nella sua bocca; la sua espressione si dipinge di disgusto, quando lo ingoia, prima di accartocciare i suoi lineamenti in quello che appare terribilmente come senso di colpa. Disgusto per se stesso e non per quello che ha ingoiato, “L'unica cosa che ci mantiene sani, a questo punto, è il sedativo. Sangue umano, Howard.”

Il prezzo da pagare per continuare a vivere un incubo come questo è bere sangue umano. Se la propria volontà non è sufficiente, allora l'unica via per non perdere se stessi è aggrapparsi al sedativo. Paradossalmente… coloro che decidono di proseguire nella caccia, lo fanno al prezzo peggiore, quello di piegarsi ai peggiori atti contemplati dall'uomo, quello di nutrirsi dello stesso cibo delle bestie che bisogna cacciare. Abbeverarsi di sangue umano, per conservarsi, per non cadere vittima delle allucinazioni che la mente produce disperatamente nel tentativo di salvaguardarci.

Non tutti riescono a sopportare il peso di tutto questo. Non tutti hanno la saldezza necessaria. Per coloro che non riescono a sopportare l'idea di perdere se stessi, ma privi della forza necessaria nel loro spirito e nella loro coscienza per non perdersi, non c'è altro modo. Non è un comportamento da biasimare; non ci sono crimini, qui a Yharnam. Non esistono azioni che possono essere considerate immorali, non durante l'apocalisse che stiamo vivendo. Qualunque cosa accada, un Cacciatore deve compiere il suo dovere – non importa quale sia il prezzo da pagare. È questo che mi ha insegnato lui, prima di sparire del tutto, prima di allontanarsi da me per sempre, lasciandomi solo con quella frase che ricordo, seppur lontana nel tempo.

Ma è davvero passato così tanto? Senza riuscire a capire come il tempo passi, qui, senza riuscire a vedere l'avvicendarsi del sole, camminando sotto questa gigantesca luna color arancione che se ne sta immobile, come paralizzata, lì in cielo, ad osservarci senza alcuna espressione, senza alcun interesse, non so dire quanto tempo sia passato. Questo basterebbe a rendere un uomo folle. Ma i miei ricordi sono ancora vividi in me, come in loro; ci aggrappiamo ad essi, e alla nostra missione, al nostro obbiettivo, per continuare ad andare avanti. Non c'è altro modo per non staccarci da questa realtà, dopotutto.

Tra le labbra, poco più che un sussurro, ripeto quelle parole. Le parole che mi ha rivolto, la notte prima che partissi per Yharnam.

Mentre le sussurro, come una preghiera, mentre stringo i pugni, raccogliendo tutta la determinazione che ancora vagheggia in me, come uno spettro di un tempo passato, mi appoggio al pilastro dove ho atteso per tutto il tempo, senza lasciare l'ombra che mi nasconde, mentre i due Cacciatori si avvicinano all'entrata. Howard si ferma, puntando la pistola verso il punto dove sta la mia figura, ma che risulta invisibile ai suoi occhi a causa dell'estrema oscurità.

“C'è qualcuno?” chiede in un soffio Jacob. Il compagno annuisce secco, “Ho sentito qualcosa. Passami una torcia.”

L'altro estrae dalla sacca che porta a metà schiena un lungo bastone, sulla quale estremità sta un panno sporco e lacerto intriso di petrolio. Per sicurezza, vi getta sopra qualche altra goccia da una piccola urna, prima di sfregarci sopra una Carta del Fuoco, che emette scintille esitanti, di un vago colore arancione smunto, che aggredisce il combustibile fino ad accenderlo. La torcia nella mano sinistra e l'ascia nella destra, Howard inizia a muovere qualche passo esitante verso di me, squarciando le tenebre della stanza con la flebile luce; il riverbero della fiamma sembra quasi soccombere di fronte alla penombra dello spettrale ingresso della cappella, riuscendo appena ad allontanarne le ombre più pallide e macilente. Rimango perfettamente immobile, senza muovere un muscolo, senza respirare, mentre mi passa accanto, le orecchie tese per udire qualsiasi suono, gli occhi che si muovono incessanti, senza posa, a scrutare ogni angolo. Per un istante, il suo viso si trova ad un soffio dal mio, e riesco ad osservarne i lineamenti maturi e consumati dai lunghi anni di caccia che hanno risucchiato la sua giovinezza, lasciando al suo posto solo una pelle tirata e bruciata, ricoperta di cicatrici, quelle di chi ha affrontato più pericoli di quanti vorrebbe. Un cacciatore professionista.

“Howard..?” la voce di Jacob tradisce preoccupazione, ma è sufficiente a rompere le incertezze del compagno. Abbassata la torcia, torna a rilassare il braccio che regge l'ascia, prima di scuotere la testa, “Ho sentito male. Qui non c'è nessuno.”

“Immagino che sia per via dell'incenso. Sembra allontanare le bestie. Così aveva detto Ludwig, almeno.”

“Le bestie non sono il nostro unico nemico, Jacob. Ho sentito voci di ogni genere circolare sugli ultimi avvenimenti di Yharnam e non mi riferisco solo al Cacciatore che avrebbe ucciso Gascoigne in uno scontro uno contro uno.”

“—Intendi la storia del Cacciatore che combatte senza utilizzare un braccio? Secondo te è possibile riuscire a combattere senza un'arma da fuoco, o solo con un'arma?”

“Non so. Forse è davvero solo una diceria. Non importa, comunque. Se c'è una cosa che ho imparato, è che in un incubo come questo ogni cosa può accadere… perfino che delle leggende diventino realtà. Non ne sarei sorpreso. Dopotutto, la nostra intera Caccia non si basa su questo? Siamo qui per uccidere fantasmi che vivono in questa notte senza fine. Non c'è nulla di razionale in tutto questo. ”

Mentre quell'affermazione sparisce, divorata dal rumore delle armi che scattano, preparandosi ad uscire per continuare la caccia dopo quella pausa di qualche istante, non posso far altro che sgusciare fuori dall'ombra e lasciare che l'effetto dell'Elisir Blu scompaia, facendomi tornare a poco a poco visibile, strappandomi di dosso quell'invisibilità che mi ha nascosto ai loro occhi. Sarà una sorpresa per loro, trovare la strada già sgombra? Si stanno dirigendo verso la Cattedrale. La cosa che troveranno ad attenderli distruggerà la loro volontà. Farà capire loro quale sia il triste destino che attende chi combatte disperatamente. Forse questo li spingerà a tornare indietro, a tentare un'altra strada, a rinunciare alla loro caccia. A salvare le loro vite.

Questa è una battaglia che può combattere solo chi è profondamente disperato o chi possiede una fede incrollabile su qualcosa.

Non posso fare a meno di chiedermi, per l'ennesima volta… quale delle due ragioni alberghi in me.

Ci sarà un'altra alba. Ne sono sicura.

Il mio sguardo è catturato dalla luna.

Siamo abbastanza disperati da gettare via la nostra umanità, ma abbiamo in noi abbastanza speranze per combattere. Non abbiamo nulla da perdere, nella nostra lotta, nemmeno la nostra umanità. L'ho capito dopo aver visto il destino di coloro che si sono arresi. Fin dall'inizio, noi eravamo fatti di pezzi infranti. Fin dall'inizio, noi—noi eravamo rotti.

 

La prima sensazione che provo, è quella di essere a casa. È come se, dopo tanto tempo, fossi tornata in un luogo familiare che avevo quasi dimenticato, ma che fa nascere in me una sorta di lontana malinconia, una sensazione di nostalgia che non avrei mai pensato di poter provare qui.

Le rovine che si ergono silenziose ed immobili, tristemente vuote, sono circondate da alberi rinsecchiti che tendono i rami spogli al cielo arrossato e alla gigantesca luna ardente; le scale di consunta pietra sono inframezzate da erbacce e ciuffi di pianticelle incerte che si sono fatte faticosamente strada, reclamando questo luogo come loro, una volta che nessuno vi è più tornato, abbandonandolo a se stesso; tuttavia, ogni angolo di questo giardino abbandonato sembra pregno di un vagheggiante e triste senso di colpa, una bassa disperazione, come qualcuno che cerchi senza riuscirvi qualcosa che ha perso tempo fa. Ogni respiro sembra portare dentro di me questa sensazione di mancanza.

Non riconosco questo luogo. Non l'ho mai visto ed è la prima volta che lo visito, eppure è come se tornassi in un posto in cui ho già vissuto, in cui ho lasciato parte di me. Un posto sepolto nei meandri della mia memoria, impossibile da richiamare alla mente, ma che sembra stringersi tutt'attorno a me e chiamarmi a bassa voce, seppure non vi sia un solo rumore. Un innaturale silenzio estremamente solenne. Il silenzio che si riserva ad un luogo sacro—o ad un cimitero. La mia mano sfiora la fontana vuota e dal bordo scheggiato che si regge malamente in piedi nel suo angolo; il suo interno è sporco e graffiato, e nessuno si è premurato di versarvi dentro dell'acqua per tanto, troppo tempo. Per qualche ragione, il pensiero mi dà una fitta al cuore e non posso che sentirmi profondamente dispiaciuta per l'abbandono in cui versa questo luogo.

Perché mi sembra tutto così familiare..? La mia sicurezza inizia a tremare, a farsi più flebile. Ogni angolo, ogni scalino, ogni fiore che cresce faticosamente, è come se lo conoscessi. È come se lo avessi toccato con le mie mani.

Come intrappolata in un sogno, come se l'aria improvvisamente si fosse fatta terribilmente densa e pesante, ed il tempo allontanato del tutto da questo luogo, percorro la piccola stradina che sale, curvando, fino ad un uscio senza porta, l'entrata al grande edificio di legno decadente e divorato dallo scorrere del tempo. Ma non è quello che ad attirare la mia attenzione.

C'è una tomba, lì vicino. Una semplice lapide di gelida pietra, la cui iscrizione è andata erodendosi, al punto da essere quasi illeggibile; nel momento in cui mi avvicino ad essa, sento il mio cuore perdere per un lungo, interminabile secondo, un battito, come se l'aria mi fosse stata strappata via dai polmoni. Prima ancora di sapere perché, sento un velo di lacrime che riempie i miei occhi, offuscandoli con un velo sfocato che mi impedisce di decifrare del tutto le poche lettere ancora leggibili, una sensazione di tristezza e di perdita. Mi porto una mano agli occhi, mentre mi alzo faticosamente, asciugandomi le lacrime dagli occhi e sussurrando a fior di labbra, senza che riesca a rendermene nemmeno conto, una preghiera per chiunque sia stato sepolto in questo luogo; un senso di colpa lacerante mi stringe lo stomaco, come se dimenticare il nome di colui a cui è dedicata questa tomba sia una sorta di peccato. Come se un tempo lo avessi conosciuto.

L'interno del vecchio edificio assomiglia ad uno strano e confusionario incrocio tra una grande biblioteca, un'officina per la riparazione delle armi, ed una sorta di chiesa, il cui altare è posto non distante dal banco da lavoro sul quale sono abbandonati vecchi attrezzi arrugginiti ed incrostati, abbandonati come questo luogo da tempo immemore. Con il cuore in gola, entro nella penombra dell'interno, allontanata appena dalla flebile luce che arriva dalla porta alle mie spalle e da una finestra rimasta ancora integra, seppur con il vetro ricoperto di crepe. E, nel momento in cui muovo il mio primo passo, sento degli occhi puntati su di me; la mia mano corre istintivamente all'elsa dell'arma, mentre mi volto di scatto verso il punto in cui ho avvertito quell'occhiata sinistra e vuota trapassarmi da parte a parte. E la vedo.

Nel momento in cui ne riconosco il profilo, poggiato in un angolo tetramente, senza alcuna forza a tenerla in piedi, abbandonata a se stessa, sento il mio stomaco accartocciarsi e la gola inizia a bruciare nel tentativo di trattenere ancora le lacrime; davanti a me, rotta, senza più forze, con gli occhi completamente privi di ogni scintilla di vita, ma allo stesso tempo talmente veri da sembrare quelli di un essere vivente, sta una bambola con il corpo scomposto ed i capelli di un profondo colore albino, bianchi come la neve, che sfuggono disordinatamente dalla cuffietta che dovrebbe trattenerli. Le gambe innaturalmente piegate ed infrante sono coperte da un'ampia gonna superbamente ricamata in ogni più piccolo dettaglio – tanto da apparire più come un abito per una vera donna, che per una bambola a grandezza naturale.

Questa figura fa nascere in me, nello stesso tempo, una sensazione di profonda compassione e di estrema repulsione, come se mi disgustasse del tutto l'idea di avvicinarmi a lei, ma allo stesso tempo provocasse in me una sensazione di morbosa attrazione. I suoi occhi sono come un abisso di bianco livore, mi attirano irresistibilmente, come se chiedessero un disperato aiuto. Come se mi implorassero di non abbandonarla. Ogni suo tratto, ogni dettaglio del suo viso, del suo corpo, è tutto così terribilmente umano. È come se fosse un cadavere, non un corpo di metallo. Non riesco a trovare la forza per avvicinarmi a lei e, pur continuando a sentirne lo sguardo addosso, esattamente come se seguisse i miei movimenti, mi avvicino ad uno scaffale che sembra più sgombro degli altri, non pieno di libri ammuffiti e polverosi, di cui molti sono stati ammonticchiati o gettati a terra, a ricoprirsi di polvere e a perdere le pagine ammuffite.

Su questa particolare libreria, ci sono solo due oggetti; uno è un piccolo quadernino rilegato in pelle, consunta, come se fosse stata presa in mano innumerevoli volte, così come le pagine ingiallite sembrano essere state sfogliate ancora, ed ancora, ed ancora, talmente fragili da minacciare di sgretolarsi tra le mie dita. Sulla prima pagina, vergate con una calligrafia precisa ed estremamente elegante, non diversa da quella di un libro stampato, ci sono poche, semplici parole, ma che bastano a togliermi il respiro mentre le scorro – Diario personale di Gehrman, Primo Cacciatore e fondatore dell'Officina.

L'altro, invece, è un pettine. Lo stesso, identico pettine che un tempo mi aveva dato Gehrman, e che aveva usato tante, innumerevoli volte per ordinare i miei lunghi capelli, prima che li tagliassi. Sento un dolore lacerante, nel guardarlo. La mia mano è incerta, nello sfiorarlo. È ricoperto da uno strato di polvere, perché nessuno lo ha toccato dal giorno stesso in cui è stato abbandonato questo luogo. Non appena lo stringo tra le mani, sento una strana sensazione, come se gli occhi della bambola fossero cambiati, divenuti più tristi. Come se quell'oggetto fosse destinato a lei.

La maggior parte delle pagine è mancante. È come se fossero state estirpate via. Lo scorro febbrilmente, animata dal desiderio di leggere, di scoprire di più su di quell'uomo che mi ha tolto dall'orfanotrofio, che mi ha addestrato a divenire una Cacciatrice, che ha scelto il mio destino, che ho sempre considerato un padre; quell'uomo che mi ha condannato, ma mi ha salvato al tempo stesso. Che a volte ho odiato, ma a cui ho sempre guardato come punto di riferimento. L'uomo che mi ha dato uno scopo. L'uomo che, prima che tutto questo iniziasse, mi ha guardato negli occhi e con voce spenta dalla rassegnazione e dalla fatica, ha detto, “—Non dimenticare qual è il tuo obbiettivo. Ci sono incubi che annienterebbero chiunque, lì fuori. Ti ho preparato per una Caccia terribile, e non sarà mai abbastanza. Serve una bestia per cacciare un'altra bestia, ed è per questo che noi siamo fatti di pezzi infranti. Per questo riusciamo a combattere nonostante la sofferenza e non ci rompiamo; perché noi eravamo rotti fin dall'inizio. Urlerai, maledirai la tua esistenza, consumerai vita finché non diverrai distante. Ma non distogliere mai gli occhi dalla realtà. Fino ad allora, finché riuscirai a guardarla, allora ci sarà speranza per te.” Ha sospirato. Ed in quel sospiro, c'era un dolore lacerante, un pentimento che sembrava spingerlo sull'orlo delle lacrime. Mi sono avvicinata a lui, sfiorandolo, e sentendone la debolezza per la prima volta. Lui mi ha guardato negli occhi; e non ho potuto sostenere tutto il pentimento nel suo sguardo.

“Siamo destinati a vivere soli. Siamo destinati a marcire. Non era questo il destino che avrei scelto per te. Perdonami… Maria.”

Quella fu la prima ed unica volta in cui sentii la voce di Gehrman spezzarsi.

Non ho mai capito chi fosse Maria. Non ho mai capito perché mi avesse chiamato in quel modo.

Fino ad ora.

Dal diario, scivola una lettera. Era infilata tra le pagine, e non l'avrei notata se non fosse caduta mentre sfogliavo le pagine consumate ed illeggibili. La busta è stropicciata ed annerita, ma il sigillo su di essa è ancora intero; aprendola con le mani tremanti, riesco ancora a leggerla, seppur sia scritta di fretta e da dita incerte, insicure, che non riuscivano a fermare il loro tremore. E ogni parola, ogni singola parola, è come un ago che si conficca nella mia carne, scavando sempre più in profondità, fino a ferire il mio cuore. Ogni frase, un nuovo dolore.

Ha catturato la mia attenzione nel momento in cui l'ho vista. Il suo viso, i suoi occhi innocenti da bambina, la sua espressione così malinconica, ogni cosa in lei mi ha ricordato Maria. Mi ha ricordato qualcosa che ho perduto. Qualcosa a cui mi sono aggrappato disperatamente.

Crescendo, è divenuta sempre più come lei. Guardarla è divenuto un dolore insopportabile, di cui non posso fare a meno. È come se Maria non se ne fosse mai andata. È come se fosse ancora qui. Gli stessi capelli d'argento, gli stessi occhi così chiari da apparire vuoti, ma che sembrano scrutarmi ogni volta fin nel profondo.

Le ho insegnato tutto quello che so. La sto crescendo, perché possa affrontare la Caccia. Non c'è altro modo per porre fine all'incubo… il sanguesmunto è l'unica via. Pensavo che lei lo fosse, ma mi sbagliavo. Non so se esserne felice. Alla fine, non c'è altra strada che possa percorrere, se non quella del Cacciatore.

Ma non voglio. Una parte di me non sopporta l'idea di vederla andare. Non tornerebbe più. Diverrebbe un mostro. Dovrei ricostruirla con parti rotte e strapparle via la sua purezza. Non voglio… che finisca come Maria.

Perché se n'è andata, Maria? Questa bambola non è che un guscio vuoto, non importa quanto possa impegnarmi per renderla diversamente. Sono circondato dai suoi fantasmi. Un vecchio automa sua effige, una ragazza che è esattamente come sarebbe stata lei alle soglie dell'adolescenza, e il suo fantasma che continua a tormentarmi. Vorrei vederti ancora una volta. Vorrei averti al mio fianco.

Tutto sta andando in pezzi. L'Officina non riuscirà più a continuare. Tutti coloro che conoscevo se ne sono andati, alla fine. Che qualcuno si prenda questo mio regno di rottami, allora. Ormai sono solo.

No, non posso permetterlo. Non posso permettere che tutto questo muoia—non posso permettere che la tua scomparsa sia stata vana, Maria. Questo frammento di Cordone Ombelicale è quello che mi serve. Mi basterebbe così poco per salvare ogni cosa, al solo prezzo della mia umanità. È così poco, in cambio di quello che potrei ottenere. Perché sto esitando?

La piccola… no, ormai è divenuta grande. Ormai è una Cacciatrice. È il momento che vada, prima che sia troppo tardi. Dovrò guardati andartene ancora, Maria. Dovrò ancora consegnarti nelle mani del destino crudele. Vorrei piangere, ma non ho più lacrime da versare.

Mio Dio. Quale peccato ho commesso, per meritarmi questo?

Non la rivedrò mai più. La mia Maria. Ormai, sembra non ci sia altro da fare. L'unica via da percorrere, è quella che porta inevitabilmente alla mia sofferenza. Ma dopotutto, cos'ho ancora da perdere? Sono fatto di parti infrante.

Ero rotto fin dall'inizio.

Non come lei. Non come la mia piccola Nashetania Maria.

Se solo avessi potuto darti un altro destino, lo avrei fatto. Se avessi potuto farti iniziare d'accapo, lontano da qui, lo avrei fatto. Avresti trovato un modo. Ne sono sicuro. Quindi, per favore, vivi. Sopravvivi. Combatti. Anche se sei fatta di parti infrante, non eri rotta fin dall'inizio. Urla, maledici la tua esistenza, ma non dimenticare… Ricordati di te.

Ricordati vivida com'eri. Come dovresti ancora essere, ora, mentre leggi.

È stato bello poterti vedere ancora, Maria.

Spero tu possa perdonarmi.

Odiami pure se vuoi.

Ti ho sempre amato,

Gehrman.”

Non sono riuscita a fermare le lacrime, questa volta. Le sento che scorrono cocenti sulle mie guance, scivolando ardenti fino a cadere sulla carta, bagnandola e macchiandola dell'inchiostro, distorcendo le parole. Cado in ginocchio, la lettera stretta debolmente tra le dita, mentre improvvisamente capisco cosa sia questo luogo. La vecchia Officina. È qui che era andato, allora, dopo essere sparito? È qui che si è rifugiato, a distruggersi nel suo dolore e nei suoi ricordi? Solo. Abbandonato da tutti. Senza nessuno accanto. Divorato dai sensi di colpa. L'unica compagnia, una bambola senza vita dalle fattezze di una donna che ha amato disperatamente. In quegli occhi vitrei posso vedere riflessa la mia immagine, l'immagine di una Cacciatrice in lacrime. Con fatica, mi tolgo il cappello dalla testa, come se questa semplice azione richiedesse una forza disumana. Mi ero quasi dimenticata del mio viso.

Ed ora che lo vedo di nuovo, ora che è riflesso nello specchio infranto accanto all'automa, nei suoi stessi occhi, non posso che notare la somiglianza disumana tra di noi. La somiglianza con la fantomatica Maria che Gehrman ha disperatamente cercato per tanto tempo. Il motivo per il quale non voleva che l'Officina andasse distrutta.

Cos'ha fatto, allora? Qual è la follia di cui parla? Non si può riferire davvero alle leggende su quelle creature vicine agli dei, esseri corrotti che ricercano follemente l'uomo per partorire la loro distorta prole, che vengono chiamati Antichi? Eppure, l'altare insanguinato che sta lì in fondo alla stanza, avvolto nell'oscurità dove la luce non arriva, circondato da vecchie candele, sembra suggerire esattamente questo. Le lacrime che ancora colano lungo le guance, le gambe tremanti, mi avvicino faticosamente ad esso, sfiorandolo incerta con le dita e sporcandole del sangue secco e rappreso che si è incollato alla gelida pietra. La cera biancastra si è solidificata, arrossandosi nei punti in cui ha toccato, e incollandosi sui libri sparpagliati e distrutti, ammuffiti. Macchiati di un cremisi annerito e spento.

In mezzo a questo sfacelo, c'è—un pezzo di Cordone Ombelicale.

“Gehrman...”

Le parole sfuggono dalle mie labbra, senza che me ne renda conto.

“—Padre… perché?”

Non ricevo alcuna risposta. La bambola non può di certo parlare. Anche se conoscesse le risposte, anche se sapesse ogni cosa, le sue labbra rimarrebbero immobili. Non potrei mai conoscere la verità. I suoi occhi spenti rimangono spenti. Mi avvicino a lei, stringendo una delle sue mani gelide. Morte. No, non morte – prive di vita. Non è altro che una imitazione. Una effige della donna chiamata Maria.

Come me.

Eravamo solo…

Bambole di pezzi infranti.

Rotte fin dall'inizio.

 

 

“Mi dispiace,” sussurro, mentre mi allontano dall'Officina, lasciandola nuovamente a se stessa e al suo abbandono. Mi calo il cappuccio sul viso.

“Per favore, ricordami… vivida com'ero.”

 

“PER FAVORE, ABBI PIETÀ! NON VOGLIO MORIRE! NON VOGLI—UAAAAAAAARGH!”

L'ultima, soffocata implorazione che squarcia la notte infinita di Yharnam termina bruscamente con un urlo di dolore che si prolunga per un istante che sembra infinito, prima di spegnersi. Veniva dalla cattedrale, proprio come pensavo.

La scalinata è vuota. Terribilmente vuota. Dopo quel grido, non ho udito altri rumori, nemmeno quelli di una battaglia; non ho sentito alcun clamore, alcun rumore che potesse indicare che quei due Cacciatori siano sopravvissuti. Con un arco secco del mio unico braccio, strappo la testa di un Dottore della Chiesa, un singolo fendente della mannaia aperta che scivola attraverso la sua guardia, raggiungendo la morbida carne del collo; uno spruzzo di sangue nerastro imbratta il mio mantello e raggiunge il mio viso, sporcandomi la guancia destra con il suo fetore. Lo pulisco rapidamente con la manica, mentre richiudo l'arma con il movimento del polso.

Non sono arrivata in tempo. Speravo che non si lanciassero in una azione tanto avventata come entrare nella cattedrale o avvicinarsi alla bestia che la abita; ma hanno invece scommesso la loro vita, sperando di riuscire dove altri hanno già fallito. Mi mordo il labbro, senza riuscire a staccare lo sguardo dalla pozza di sangue che si allarga gocciolando sugli ultimi gradini. L'ultimo impatto è stato abbastanza forte da scagliarlo fino qui dal fondo; il suo cadavere accartocciato è irriconoscibile. Non riesco nemmeno a definirlo corpo. È solo un insieme di carne maciullata ed arti che si alzano contorti e spezzati, strappati in posizioni sovrannaturali; il cranio, infranto contro il selciato, nella parte inferiore parzialmente integra è distorto in un urlo bruscamente estirpato. L'unica parte riconoscibile, nel mezzo di questa poltiglia, è una mano. Una mano che stringe un sacchetto di pastiglie, sparse ovunque a causa dell'impatto, infrante. Quando mi piego su quel cadavere, sulla mano che ancora stringe le pastiglie, noto una piccola nota che sporge dal sacchetto stesso, come se fosse tenuta sul fondo, coperta da esse, e non sia mai stata letta - “Torna presto, papà. Spero che queste caramelle ti facciano ricordare me. Sono le nostre preferite. Non dimenticare casa!”

Non riesco a trattenere l'impulso di vomitare che sale lungo la mia gola, ed il sapore pungente della bile, acido ed amaro, raggiunge la bocca prima ancora che possa rendermene conto. Quel sapore orribile rimane anche dopo che, tremando senza sosta, mi sono piegata a rimettere sul pavimento di pietra, mescolando questo acido al sangue dei resti del cacciatore che un tempo… si chiamava Jacob.

È una cruda verità. Non c'è pietà a Yharnam. Non c'è pietà per noi che scegliamo di combattere e sfuggiamo la follia. Continuiamo a guardare la realtà e a combattere perché non abbiamo altro, questo ho sempre pensato. Ma è una menzogna. Non tutti siam fatti di pezzi infranti. Non tutti siamo rotti fin dall'inizio. Io sono un'eccezione. Ed è per questo che combatto, perché non ho nulla da perdere. Un tempo, ho voluto vivere disperatamente. Un tempo, ho sperato di poter riuscire a vivere una nuova vita, lontano da qui.

Ma non è possibile. Non lo è mai stato. Sono state solo vuote illusioni.

Tuttavia...

Tuttavia, voglio ancora vedere una nuova alba. Voglio ancora potermi svegliare sotto la luce del sole.

Questa è una battaglia che può combattere solo chi è profondamente disperato o chi possiede una fede incrollabile su qualcosa.

Non posso fare a meno di chiedermi, per l'ennesima volta… quale delle due ragioni alberghi in me.

Ci sarà una nuova alba, ne sono sicura.

Noi eravamo rotti fin dall'inizio.

“Forse è così—”

Apro la mannaia, mentre al mio fianco trovo il corpo del secondo Cacciatore, agonizzante, la parte inferiore del corpo brutalmente estirpata da quelli che sembrano enormi artigli. Il suo sguardo tremolante segue la mia figura, e il suo braccio sinistro si tende verso di me, disperatamente. Mi volto verso di lui, ed il mantello svolazza per un secondo, rivelando il mio corpo. Il mio braccio strappato. Il suo sguardo sbarrato è sufficiente a farmi capire che mi ha riconosciuta. Le sue labbra si muovono a sillabare una singola, unica supplica, mentre il sangue cola lungo il suo mento spaccato, “Ti prego...”

Annuisco. Non chiudo gli occhi, mentre affondo la lama nel suo torace, rubando il suo ultimo sospiro di vita e ponendo fine a quella sofferenza orribile che sarebbe stata la lenta morte. Lo guardo, fino a che la luce in lui non si spegne, e sparisce in un soffio, come una foglia secca portata via dal vento.

“Forse sono rotta—”

La figura inginocchiata in fondo alla cattedrale inizia a pregare ancora più forte, man a mano che mi avvicino, e la sua cantilena si diffonde, un eco che rimbalza ovunque, quasi come se un intero coro invisibile di uomini, nascosti nel buio, faccia eco alle sue parole.

Dove non c'è paura, la morte arriva senza alcun lamento.”

Con un urlo di dolore, il suo corpo inizia a tremare, mutando rapidamente in un ululato ferale nel momento in cui sembra esplodere in una marea di sangue imbrattando l'altare. Dalle spoglie di quel corpo martoriato, si alza una creatura deforme e ferale. Le parole del Cacciatore che mi ha salvato, rimbalzano nella mia mente, mentre la bestia che era il Vicario Amelia si volta a guardarmi con le fauci spalancate a mostrare i denti intrisi di sangue. Non siamo così diversi dalle bestie che cacciamo, noi che siamo rotti e composti di pezzi infranti; non siamo così diversi, ma qualcosa in noi differisce da loro. Noi sentiamo. Noi ricordiamo. Noi abbiamo ancora qualcosa di vagamente umano.

“—Ma proprio perché ero rotta fin dall'inizio, posso ancora sperare di ripararmi.”

E, con queste parole, rivolte a me stessa, mi lancio in avanti, il mio unico braccio pronto a colpire.

Dovunque tu sia, Gehrman… no, padre. Dovunque tu sia, sappi questo.

Non ti ho mai odiato.

Ti ho già perdonato.

Ho sempre saputo, in fondo…

Di essere fatta dei pezzi infranti di qualcun altro.

 

 

 

 

   
 
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