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Autore: Ruta    09/03/2016    2 recensioni
Anche se Sherlock Holmes rappresenta il centro del suo mondo, la quotidianità di Molly non inizia quando lui impone la sua presenza nell'obitorio con obnubilanti richieste né finisce laddove tali pretese di assistenza cessano la loro natura tendenzialmente indiscreta.
Una storia dedicata a Molly Hooper, perché il suo contributo non trova necessità e necessarietà unicamente in quelle di Sherlock tantomeno nell'amore innegabile che prova per lui.
Genere: Generale, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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E’ Lavinia, la segretaria del dottor Womack, a raccontarle la storia dell’appuntamento delle tre.
Lei potrebbe opporsi all’inopportunità intrinseca della domanda: “Conosci la storia, Moll?”, riconoscendola come tale. Potrebbe.
Non lo fa e seppure prova uno sgradevole amalgama di disagio e senso di colpa nell’ascoltare una storia che non è suo diritto conoscere e che non le appartiene, Molly è rapida a nasconderlo, mostrando agli occhi acuti dell’altra donna un’espressione neutramente bianca.
“Ebbene,” comincia Lavinia, dopo aver controllato con un’occhiata di perlustrazione che sì, le uniche orecchie indiscrete in giro siano le loro. “Ebbene,” ripete, facendo ricorso al suo intercalare preferito ed è presto detto. In due minuti Molly è al corrente di vita, morte e miracoli dell’appuntamento delle tre e dell’intera spiacevole faccenda che l’abbia portata a diventare l’appuntamento delle tre.
Quando la ragazza esce dallo studio, allo scadere della sua ora di seduta con il dottor Womack, è arrivata la madre. All’inizio, ricorda Molly, ad attenderla nella sala d’aspetto era il padre, un tipo smilzo e nervoso dalle orecchie sproporzionate. (Molly è perfettamente consapevole degli sguardi ardenti che deve aver lanciato in più di un’occasione alle due figure, padre e figlia, vedendoli andare via, scivolare come ombre languide nel tramestio irrequieto della city. Sa che è stato il dottor Womack a richiedere, no, a pretendere che fosse la madre a presentarsi, ulteriore (s)gradito pettegolezzo di corridoio e se una parte di lei era stata così egocentrica da pensare che lui avesse potuto farlo per una sorta di riguardo nei suoi confronti, ora quella fantasia mostra la sua natura inconsistente a fronte di ciò che è vero e reale.)
Quando la ragazza, Nigella, esce, la madre non le trotta incontro con la solita obnubilante chiacchiera facile e neppure la guarda con l’allarmismo di cui ha dato prova nei primi tempi. Attende che sia la figlia ad avvicinarsi a lei e sa che è sbagliato, che è una scena privata e intima nonostante l’ambiente che ne fa da fondale, ma Molly non può impedirsi di cogliere il modo in cui la donna stia praticamente stritolando i braccioli della poltroncina o come si morda il labbro inferiore con gli incisivi o come i suoi occhi sembrino fagocitare la figlia nella sua interezza, iperprotettivi.
Nigella si accosta alla madre, mormora un saluto e Molly le segue con lo sguardo mentre si allontanano.
L’appuntamento delle tre si è concluso e così la sua storia, almeno per l’arco di quella giornata. Ora inizia l’appuntamento delle quattro.
Molly si alza quando Lavinia la chiama, dicendole che è il suo turno ed entra nello studio del dottor Womack.

 

 

La ragazza che profumava di morte

                                                                            (e che era vita)  

 

 

 

 

Nigella Monday è troppo magra, perfino per gli standard antisalutistici promulgati dalle riviste di moda. In questo non c’è nulla per cui stupirsi. Lo studio del dottor Womack è specializzato in casi del genere, casi di persone che rifiutano il cibo alla maniera in cui rigettano una vita che sta loro stretta. Perciò sì, Nigella è troppo magra, ma lo è anche Molly e lo è l’appuntamento delle cinque e quello delle sei e via dicendo: una sfilata di spaventapasseri e uomini di latta e leoni codardi che sperano di diventare qualcuno di diverso perché non hanno avuto la fortuna di incontrare la loro Dorothy. Così ci pensa il dottor Womack ad aggiustarli, a fare il Mago di Oz, a convincerli che dentro di loro sono dotati di qualcosa di prezioso e unico, che sono preziosi e unici proprio nell’individualità che tanto li spaventa.
Quella è la versione fanfarona e semplicistica. La verità, nel caso suo, nel caso di Nigella, ha tutte le complessità su cui spesso la carta e l’inchiostro tendono a soprassedere, tranne che nei romanzi delle sorelle Bronte o nelle opere di Dickens o nei sonetti di Shakespeare: il retroscena dei sentimenti.
La storia di Nigella è fatta per creare scalpore. Prima del disturbo (che è un modo un po’ più gentile per definire la loro malattia, quasi un sotterfugio, ma tant’è), Nigella soffriva del problema opposto. Era grassa. Non grassa come la donna cannone, ma abbastanza perché questo diventasse il cruccio di sua madre che, animata dall’infaticabile volontà delle madri di vedere la propria figlia “al meglio”, non si esimeva dal propinarle visite dai migliori dietologi o regali a doppio taglio per ricordarle la sua figura sgraziata: tute da ginnastica e iscrizioni nella palestra del quartiere e come ultima spiaggia visite da un terapeuta affinché l’aiutasse ad acquisire una migliore percezione del proprio corpo. 
Il terapeuta era riuscito effettivamente lì dove ogni precedente tentativo materno era fallito e quando il grasso consolidato sulle braccia e sui fianchi della figlia aveva cominciato a sciogliersi come burro al sole, la madre aveva gridato al miracolo e fatto in modo che le visite proseguissero e diventassero a cadenza settimanale. 
Nigella, però, aveva cominciato a mostrare dei sintomi collaterali. Appariva distratta e nervosa e quando la madre, mettendola sotto torchio, aveva cercato di risalire alle motivazioni di quel comportamento stravagante, le confessioni della figlia l’avevano fatta pentire della sua insistenza. Perché Nigella aveva ammesso di cominciare a sentirsi a disagio in presenza del terapeuta, diventato, a suo dire, troppo tattile.
La madre aveva liquidato le paure delle figlia, definendole frutto di paranoia e ingratitudine nei confronti di una persona che le era stata di così grande supporto.
Nigella avrebbe potuto fare altrettanto, decidere di soprassedere sulle sensazioni sgradevoli che quei contatti sempre più frequenti e meno casuali le provocavano; semplicemente dimenticare. Non l’aveva fatto e anzi aveva proseguito in solitaria nella sua battaglia, agendo nell’unico modo che riteneva potesse risolvere il problema: aveva ingaggiato un consulente investigativo privato. 
E quando un anno più tardi, grazie alle prove schiaccianti di confessioni di ex pazienti e l’inclusione di un filmato in cui Nigella stessa era stata costretta a denudarsi mentre si sentiva il terapeuta, dietro la scrivania, ansimare e gemere volgarità, lo psicoterapeuta era stato dichiarato colpevole da una commissione d’inchiesta del Ministero della Salute per abusi sessuali perpetrati sui pazienti nel corso di oltre tre decenni di (dis)onorata carriera.  
Il consulente privato aveva raggiunto una certa notorietà e Nigella, vittima innocente di troppi desideri che non erano i suoi, era finita dal dottor Womack: un disturbo alimentare da affrontare e una madre che, forse, cominciava a intravedere l’errore di valutazione del suo giudizio.

*

Alla fine della seduta, Molly non prova sollievo né uno stordente senso di alleggerimento. Si sente sempre opprimere, a gravare su di lei il lutto e un rimorso che le scava un buco nero nel petto.
Quando esce, è pronta a salutare Lavinia e a tornarsene a casa, nel suo appartamento in Old Montague Street. Qualcosa, o meglio qualcuno, glielo impedisce. Il qualcuno in questione è alto, longilineo e tremendamente pallido. Ha ricci capelli corvini e occhi d’acquamarina dal bagliore ferino, zigomi pronunciati e un profilo aristocratico. Indossa un lungo cappotto di lana che deve costare quanto una retta universitaria e qualche affitto e sicuramente è troppo pesante per il caldo snaturato di quell’estate di San Martino piombata tra capo e collo in pieno ottobre. Non appena registra la sua presenza, il ragazzo si alza con uno scatto agile e repentino, rivolge un cenno impercettibile di saluto in direzione di Lavinia con un sorriso obliquo che è da solo una perla d’insolenza e, sorpassandola, si infila nello studio del dottor Womack prima che la porta abbia finito di richiudersi alle sue spalle.
Molly non sa cosa pensarne. Lavinia indica alle sue spalle e sillaba in un mormorio eccitato e udibilissimo, nonostante il tono confidenziale: “E’ lui. L’investigatore di Nigella è lui.”
Consulente investigativo, la corregge tra sé Molly. Si sveglia dallo stato di torpore e si decide a uscire. Dopo l’ora di assoluto silenzio della seduta, il caos del traffico di Londra è un balsamo per le orecchie. La distrae dalla quiete del suo appartamento vuoto, le fa dimenticare, per un intero inestimabile istante, che è sola al mondo.

*

Dalla seduta successiva, il dottor Womack cambia registro e riempie l’assenza delle parole che Molly continua a ingoiare, rifiutandosi di pronunciarle, con il superfluo delle sue.
Non le parla della bellezza del mondo, anche se potrebbe, come testimonia la ricca collezione di fotografie dei viaggi in giro per il mondo che occupano le superfici piane di ogni pezzo d’arredamento.
Non le parla di sé o della sua famiglia. Le parla degli altri pazienti che ha in cura, di come lo sfiniscano, a volte, di come gli capiti di arrabbiarsi con loro per la loro incapacità di capire, per la loro catatonia. Si sfoga, i ruoli improvvisamente invertiti e se anche il rimprovero e il biasimo le sono marchiati a fuoco in viso per quella mancanza di professionalità, le labbra di Molly rimangono sigillate e ostinatamente piegate all’ingiù.
Finché non nomina Nigella. Senza volerlo, Molly si agita sulla sedia e il dottor Womack smette di parlare all’istante. Il suo è un sorriso spiegazzato e consapevole, che dichiara in modo esplicito che è perfettamente al corrente di quanto succede nei confini della sua sala d’aspetto. “Immagino che Lavinia ti abbia raccontato la sua storia.”
Molly non si spreca a negare, si limita a fissarlo stolidamente, incapace di intuire la direzione che intende far prendere alla conversazione.
“Sono pronto a scommettere che lo reputi un comportamento moralmente scorretto da parte mia, permettere che vengano divulgate le esperienze personali dei miei pazienti.”
Il silenzio di Molly per una volta è più che eloquente. Non è assenza di parole, ma della loro necessarietà.
“Lavinia non lo fa per cattiveria, al contrario agisce su mia direttiva. Oh, intravedo dell’interesse.” Il dottor Wolack si china in avanti, gli occhi scuri come onice nera e dal taglio allungato sono socchiusi e la scrutano con una scintilla inedita di divertimento sotto una cortina di capelli irsuti e una barba da nano. “Ho catturato la tua attenzione? Perché credi che lo faccia? Per piacere personale? No? Quale altra ragione potrei avere, Molly?”
Molly non ne ha idea, ma nel momento in cui arriva a quella conclusione, sa di non essere del tutto sincera. Si rende conto, da quando ha saputo la storia di Nigella, di aver pensato a lei con maggiore frequenza di quanto le piaccia ammettere, di essere meno soprappensiero, più concentrata sulle presenze che la circondano. Si è accorta di aspettare con trepidazione le sedute per la semplice, sbalorditiva curiosità di registrare i progressi dell’altra. Senza volerlo, in una maniera strana e imprevista e perciò tanto più sconvolgente, si è affezionata a una perfetta estranea.
“Nel dolore siamo compagni, Molly. Nel dolore siamo tutti fratelli.”
Il giovane dottore le passa la scatola dei fazzoletti kleenex senza traccia di compatimento o disprezzo.
E’ in questo modo che Molly scopre di star piangendo. E’ la prima volta che succede da quando è morto suo padre.  
Continua a parlarle, senza dare peso alle sue lacrime, non perché non siano importanti, lo sono, lo sono moltissimo, ma perché sono lacrime che è giusto che versi, che non vanno frenate.

*

All’incontro successivo Molly si arrischia a chiedergli del ragazzo, il consulente investigativo.
Per un attimo la sorpresa del dottor Womack è pura costernazione, appare quasi frastornato.
Molly ne è a propria volta disorientata e prova una genuina confusione per la reazione di lui. Poi il viso del dottor Womack si spalanca, rischiarato da un sorriso talmente luminoso che Molly teme di fare la fine di Semele, folgorata dallo splendore di Zeus nella sua versione divina.
“Ti riferisci a Sherlock Holmes?”     
Sherlock Holmes. Perciò è quello il suo nome.
“Da non credersi, la faccia tosta di quell’uomo. Cosa pensi che sia venuto a fare, qui?” Il dottor Wolack si sfrega il mento, ruotando la sedia girevole, le gambe accavallate e poggiate sullo spigolo della scrivania ingombra. Si è tagliato la barba. Ora la porta cortissima, un accenno di lanugine su guance affilate e mandibola. Lo svecchia, facendolo apparire il giovane trentenne che nei fatti rimane. “Si è trattenuto per un buon quarto d’ora, senza aprire bocca, senza presentarsi, senza uno straccio di spiegazione. Si è limitato a stare lì, proprio dove sei tu e a fissarmi. Alla fine si è alzato, mi ha allungato il suo biglietto da visita e mi ha detto che solo perché non aveva trovato nulla in quel momento non era detto che non trovasse nulla in futuro. Sembrava deluso? No, deluso non è il termine adatto. Disorientato, ecco. Qualunque cosa abbia visto in me, devo aver superato il test. A quanto racconta Nigella, pare che abbia una spiccata capacità analitica.”
Soltanto quando è già in strada, assorbita com’è dal pensiero di Nigella, Sherlock Holmes e tutto ciò che c’è a riempire il mezzo, Molly afferra il significato del sorriso del dottor Womack.
E’ stata la prima volta che ha parlato durante una seduta.

*

“E’ possibile che lo incontri spesso in futuro.”
“Chi?”
“Sherlock Holmes, il consulente investigativo.”

Oh. Molly aggrotta la fronte. “Perché?”
“Ha intrapreso una collaborazione con gli organi investigativi della polizia ed è altamente plausibile che venga interpellato per eventuali accertamenti al Barts. Non è dove stai facendo tirocinio?”
La risposta non è in alcun modo soddisfacente o esaustiva. “In quale veste? Non sta a lui accertare la causa di un decesso né tantomeno formulare una diagnosi.”
E’ un giorno come un altro, una seduta come un’altra (contraddistinta dalla piega informale che hanno assunto i loro incontri da oltre un anno). Sono scalzi, a gambe incrociate sul tappeto, di fronte a loro i cartoni untosi della pizza d’asporto, che giocano alla play-station.
Si tratta della svista di un attimo. Lui la bacia e Molly è troppo allibita per decifrare l’espressione triste con cui la sta guardando o riconoscerla. L’ha già vista altrove, addosso a qualcun altro, soltanto che le sfugge il chi e il quando. “Non posso più essere il tuo analista.”
La mano abbronzata di Ben rimane sulla sua guancia, il pollice di lui le sfiora l’angolo della bocca.
“E’ perché mi hai baciata?”
“No, non è perché sono innamorato di te, Molly, ma perché sei guarita.”
Molly si guarda attorno: fotografie di luoghi in cui non ha mai messo piede e in cui, concretamente parlando, non avrà possibilità di mettere piede prima di un decennio perlomeno, mutuo e debiti universitari da saldare permettendo; parquet lucido, pareti azzurro polvere, librerie a non finire, comode poltroncine in pelle e luce dappertutto; ma soprattutto lui.
“Non so come farò senza di te.”
Non come ‘fare’, ma come ‘farò’, quasi abbia già accettato per buona la decisione di Ben di non averla più come paziente.
Quando si abbracciano, entrambi indugiano più del dovuto, ma nessuno dei due lo fa notare all’altro.

*

Alla fine tutto segue un suo corso, indipendentemente dalla volontà di chi vorrebbe poter spendere una parola in proposito. Segue il suo corso e prende direzioni imprevedibili.

Chi l’avrebbe mai detto, ad esempio, che il dottor Benjamin Womack avrebbe sposato Meena, una delle sue migliori amiche, o che lei stessa avrebbe finito per coinvolgersi nel vicolo cieco di un amore unilaterale con scarse, se non assai poco concrete, probabilità di essere corrisposta.
Sono sul “terrazzo” dell’appartamento di Meena, lei sulla scala antincendio, Ben a cavalcioni sul davanzale della finestra. Lattine di birra, un pomeriggio luminoso in cui le rifrazioni dei raggi solari sono schegge di vetro iridescenti e chiacchiere facili: è tutto talmente familiare che dopo mesi di apnea e incubi le sembra per la prima volta di riemergere dalle profondità di un pozzo buio per ritornare a respirare senza costrizioni. “Sarei stato un partito migliore,” afferma Ben in tono sicuro e pregno d'ironia, prendendo un sorso della birra ormai calda e fissando l’interno dell’appartamento. “E’ una cosa seria?”
Il capo inclinato su un lato e poggiato sulla mano aperta, Molly segue la direzione del suo sguardo e valuta Tom con un criticismo che dieci anni prima non le sarebbe appartenuto, che deve averle trasmesso una persona a caso per osmosi. “No. Sì.” Esita. “Non lo so. Potrebbe. Può diventarlo, se solo –”
Ben annuisce, il sorriso nella curva della bocca dura è un segreto che anni di amicizia le hanno insegnato a riconoscere da minuscole avvisaglie. “Se solo fossi certa che lui non tornerà.”
Prima che si affretti a negare o a chiedergli spiegazioni, lui la interrompe decisamente: “Andiamo, Molly. Ti conosco. Ti ho visto piangere per tuo padre e le lacrime che hai pianto per Sherlock Holmes non erano quelle di qualcuno in lutto, ma di una persona con il cuore spezzato. So riconoscere i sintomi.”
“Perché non dovrei avere il cuore spezzato? L’uomo che amavo è morto. Si è buttato dal tetto dell’ospedale in cui lavoro.” Molly fa una smorfia, non può impedirselo e Ben scuote la testa.
“Sei una pessima bugiarda.”
“Non per il resto del mondo.”
“Il resto del mondo non ti ha avuta come paziente per due anni.”
Molly sospira, arresa e serra involontariamente la presa attorno alla lattina. “Da cosa lo hai capito?”
La risposta di Ben non si fa attendere e la sua espressione diventa remota, persa nella miriade di ricordi ed esperienze significative che condivodono. “Ti sforzi di fingere che vada tutto bene. Ricordi com’eri, com’era allora? Quando tuo padre è morto, eri prostrata dal dolore e ne avevi ogni diritto, avevi perso tutto ciò che rimaneva della tua famiglia, perciò non ti importava che gli altri vedessero quanto fossi ferita, non ti interessava. Il dolore ti aveva reso cieca e insensibile a tutto il resto, talmente eri concentrata a tenere uniti i pezzi di te stessa. Ora invece ti impegni così tanto per dare l’impressione di essere forte, che puoi farcela. Eccola la differenza: è come se dovessi dimostrare quanto stai soffrendo. Sherlock Holmes era il tuo mondo. Hai lasciato che lo diventasse come un tempo lo è stato tuo padre e adesso che se ne è andato il mondo ti è di nuovo crollato addosso.”
“Sono cambiata, sono cresciuta nel frattempo” dice Molly, arrabbiata e senza un motivo preciso per cui sentirsi così. “E’ vero, Sherlock era il centro del mio mondo, ma la mia vita non è iniziata con lui, nel momento in cui l’ho conosciuto. Non esistevo solo in funzione delle sue necessità, non smettevo di vivere solo per ricominciare a farlo quando compariva nel mio obitorio o veniva in laboratorio a requisire la mia assistenza per un caso che stava risolvendo. Perciò è questo?” domanda criticamente, storcendo il naso. “Non ti sembro abbastanza addolorata?”
“Te l’ho già detto, mi pare. Ti ho visto piangere per la disperazione e per la morte. Questa volta è diverso: piangi per l’angoscia di chi speri che sia ancora vivo.”
Sono così vicini che Molly non deve neppure allungarsi per cercare la mano di Ben. “Non puoi dirlo a Meena. Non deve saperlo nessuno.”
Ben gliela stringe di rimando e le strizza un occhio. “Sono vincolato dal segreto professionale.”
“Non mi risulta che questo abbia mai posto un freno alla tua indiscrezione.”
“Non nel tuo caso, Molly,” replica lui improvvisamente serio, gli occhi solenni e contemplativi. “Mai nel tuo caso.”
Il silenzio che segue non risulta pesante o difficile da gestire. E’ una pausa gradita. “Molly… ricordi Nigella?”
“Certo, ma cosa c’entra questo con-”
“Lo feci per te.”
“Non capisco cosa-”
“Quando mi imposi perché fosse la madre ad accompagnarla, fu per il bene di Nigella che lo feci, naturalmente sì, ma non sarebbe del tutto onesto. Fu per te. Io amo Meena, amo la mia quasi moglie, ma c’è stato un tempo in cui non sapevo che l’avrei amata e a quel tempo il mio amore è appartenuto a qualcun altro.”
“Prima di amare il mio consulente investigativo, anch’io ho amato qualcun altro.”
“E’ come funziona la vita. Ti innamori di una persona sbagliata dopo l’altra finché non trovi quella giusta.”
Molly sorride. “O la più sbagliata di tutte.”
“Non è sempre tutto rose e fiori, Molls.”
“Con me non lo è mai.”
“Non ne sembri dispiaciuta.”
“Le cose semplici non fanno per me.”

*

 
La camera ricorda meno un ospedale e un po’ più casa, merito degli sforzi congiunti di Molly e dell’infermiera su piano, Patricia.
Ogni pomeriggio, dopo le lezioni all’università, Molly trova ad accoglierla gli occhi sorridenti del padre e fiori freschi nella brocca sul comodino. Si trascina fino alla poltroncina di fianco al letto e stringe la mano di suo padre, senza che lui gliela stringa di rimando. La funzionalità dei muscoli sta cedendo, gli organi e ogni parte di lui si stanno lentamente decomponendo.
Sono le controindicazioni dell’essere uno studente di medicina. Riconosce i sintomi ancor prima che questi si manifestino nei valori riportati sulla cartella clinica. Li desume dalle occhiaie incipienti, dalla progressiva perdita di peso, dall’inappetenza. Li legge nell’improvvisa trazione delle spalle di suo padre, dal modo in cui le ingobbisce, da uno spasmo della mano sinistra per una fitta più forte delle precedenti, dal sorriso tirato che, nello svegliarsi da un sonno leggero, le rivolge quando si accorge che, tenendogli il polso, lei stava contando le sue pulsazioni.
Arriverà il momento in cui di suo padre, l’uomo che l’ha cresciuta e amata per vent’anni, non rimarrà che uno scheletro ed occhi che non sono più in grado di vederla o riconoscerla.
Suo padre non arriverà a quel giorno. Glielo ha fatto giurare molto tempo prima, ai primi stadi della malattia. Dovrà sembrare un incidente: un’overdose di morfina. Molly ha accettato e promesso perché è una stupida sentimentale e non esiste nulla al mondo che non farebbe per chi le è caro, anche uccidere, laddove necessario, e così facendo dannarsi l’anima.
Ci sono giorni in cui lo trova in compagnia del bambino la cui sorella è ricoverata nel reparto pediatrico perché soffre di leucemia. Si chiama Bobby e ha sette anni. Ascolta la risata rauca di suo padre mentre spolvera gli stessi indovinelli che usava proporre a lei o mentre gioca a cowboy e indiani.
Ce ne sono altri in cui fanno i cruciverba e lei legge per lui brani dai suoi libri preferiti; ci sono giorni in cui ascoltano musica dal giradischi e quelli in cui le parla di sua madre.
Ci sono giorni in cui entrambi sono troppo stanchi per fare altro che non sia bearsi della reciproca presenza, come gatti ad oziare al calore del sole, in cui si godono semplicemente il silenzio ricco che l’altro ha da offrire. Ed è un silenzio tanto più significativo del chiasso superfluo e dello spreco di parole che è la tendenza universale.
E c’è un giorno in particolare, uno che Molly non dimenticherà mai, quello in cui scopre com’è suo padre senza di lei, com’è quando non c’è la sua presenza a costringerlo a fingere.
La verità, impara Molly, non è sempre gentile tantomeno misericordiosa. Quel giorno, spiando la smorfia addolorata con cui suo padre fissa la poltroncina che lei è solita occupare, la tristezza che divampa nel suo volto sfigurato dalla malattia e glielo scava, incupendolo, le si spezza il cuore. E’ anche il giorno in cui impara che un sorriso è la maschera per eccellenza e la risata il suo simulacro. Perciò, quando entra nella stanza, poco più tardi, il suo sorriso è gaio, la sua risata è trillante e cosa importa che siano forzati oppure no? Che sia tutta una bugia?
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Lei è stata cieca, cieca, cieca.       

 

“Immagino che tu non intenda aiutarmi,” dice Molly con un tono che per la verità è tutto fuorché infastidito.
Il sorriso da Stregatto che riceve da suo padre è una risposta sufficiente e lui non accenna a distogliere lo sguardo dai fogli sparsi a ventaglio sulle lenzuola del letto.
“Lo prendo come un no,” sospira e cerca di districarsi dalla costrizione della corda con cui Bobby l’ha legata alla sedia, peraltro senza grandi risultati. E’ diventato incredibilmente difficile, infatti, liberarsi da quando suo padre gli ha insegnato i nodi da marinaio. 
Suo padre sta leggendo la sua tesi (c’è da chiedersi come riesca a concentrarsi considerato il baccano che sta facendo Bobby. Le gira attorno, saltellando in un balletto di sua invenzione che mescola la danza della pioggia a un inno propiziatorio alla guerra, battendo la mano sulla bocca mentre fa il verso degli indiani), gli occhiali inforcati sulla radice del naso come una strana mascherina, gli occhi azzurri vividissimi nella bautta di cera in cui si è trasformata la sua faccia. La forma prominente del naso è l’unica cosa rimasta intatta del suo volto: guance incavate dove prima c’era la floridezza sana della sua prestanza, mandibola cascante al posto della curva inflessibile che era il simbolo della sua tenacia, fronte calva invece dell’attaccatura dei suoi capelli color sabbia, orecchie schiacciate ai lati e linea astratta della bocca. Tutto risucchiato via, defraudato da un incubo che Molly vede concretizzarsi giorno dopo giorno, la cui conclusione si approssima, insieme agli obblighi che le competono.
“Papà, sul serio… non potresti darmi una mano?”
“Tesoro e dove sarebbe il divertimento? Bobby J. si è così impegnato che sarebbe come defraudarlo dell’impegno profuso se fosse qualcuno che non sia tu a liberarti.”
Le strizza un occhio e Molly ride e lo sente ridere con lei, condividere quell’attimo riposante di allegria senza lo spettro della paura che le ruba il sonno sempre più spesso o le attanglia costantemente il petto. E poi succede.
La risata si trasforma in un verso soffocato, un tossire via via più facinoroso, che depriva il poco colore dalle guance di suo padre.
Bobby ha interrotto la sua danza e guarda la scena con le pupille dilatate dal terrore, incatenato al pavimento.
“Bobby, sciogli la corda,” dice Molly con urgenza mentre suo padre continua a tossire e il suo respiro si trasforma in un suono raspante e agonizzante che le ghiaccia il sangue nelle vene. “Bobby,” lo chiama a voce bassa, perché è importante non spaventarlo più di quanto sia già, ma pressante, incalzandolo. “Bobby, sciogli la corda. Sciogli la corda, Bobby. Bobby. Bobby.”
Finalmente lui ritorna in sé. Mentre disfa i nodi con dita impacciate, tremando percettibilmente, Molly lo istruisce su cosa fare: “Devi correre da Patricia. Puoi farlo, Bobby? Corri più veloce che puoi.”
Quando la corda è slegata e Bobby è già filato via a cercare Patricia come gli ha chiesto, Molly si precipita al capezzale di suo padre. Sta ancora tossendo e lei gli massaggia con efficacia il petto e la schiena, per poi girarlo su un fianco. Nella pena lacerante che deve star provando, intanto che inspira ed espira a singhiozzi, suo padre trova la sua mano. Non riesce a propriamente a stringerla e Molly tenta di ricordarsi quando ha smesso di farlo. Quando ha smesso di stringerla nelle sua, incapace di infondere un briciolo di vigore ed energia nella sua presa troppo debilitata e fiacca? Ormai anche lei evita di farlo. Il contatto fisico per lui è diventato l’estensione del dolore, suo prolungamento. E’ quasi ustionante, perciò Molly si limita a poggiare la mano di fianco alla sua, lasciandola accostata a quella di lui in una parvenza di carezza, ma senza sfiorarla.
La mano di suo padre è ossuta e gracile. Tutto in lui è avamposto di fragilità. Le sembra di annaspare, di camminare su cocci di vetri rotti, ingoiare della sabbia.
“E’ il momento, Molly.”
No, no, non può dire sul serio. Non può stare accadendo davvero. Non lo accetta. Non è giusto. Non –
“Molly,” suo padre esala un respiro di pura agonia, il tormento nel suo sguardo le spezza il cuore. “Molly,” supplica, “te ne prego.”
La sua vita è dolore. Non c’è più amore o calore o tenerezza o gioia. Solo un abisso di sofferenza e supplizi indicibili.
Molly gli prende i polsi scarni, soppesandoli. Del gigante biondo che da bambina la sollevava in aria, chiamandola il suo piccolo colibrì perché era troppo mingherlina e non stava un attimo ferma, di quell’uomo sono rimaste concavità e sporgenze appuntite, avallamenti e depressioni.
“D’accordo,” acconsente  con una voce atona che stenta a riconoscere come propria. “Stasera.”

*

L’indirizzo è esatto, perciò è stupido sperare di essersi sbagliato, anche se il sorriso da squalo balena della signora alla reception gli risulta già più sgradito di quello condiscendente di Mycroft, il che è un record opinabile, ma giustifica il suo stato di irritazione.
Sherlock prende posto senza battere ciglio, occupando una delle poltroncine petrolio più prossime alla porta dello studio e si prepara a un’atroce attesa.
Sente gli occhi grigi della signora perforargli il cranio, come puntaspilli, ma non si sforza di mostrarsene toccato. E’ indifferente all’interesse che solitamente desta negli estranei, agli sguardi che attira nella folla, alla curiosità. Per lui sono del tutto irrilevanti, privi di significato.
“Dovrebbe liberarsi presto, caro,” tuba con voce zuccherina la signora. Sulla sessantina. Due figli in età adulta. Un marito disoccupato e una madre malata di cui prendersi cura. In evidente sovrappeso per lo stress dovuto alla situazione familiare problematica. “L’appuntamento delle quattro dovrebbe finire a momenti.”
L’appuntamento delle quattro esce di lì a poco. Si tratta di una ragazza di ventidue anni, anno più anno meno, dal fisico esageratamente filiforme e vestita dei colori dei datteri e dei kaki. Rimane impalata, notandolo, mentre in fondo agli occhi scuri le si accende la scintilla di un’emozione senza nome. Appare interdetta. Poi, com’è comparsa, quella breve scintilla si spegne e il suo viso ritorna inespressivo e immobile.
Lui si alza agilmente e la oltrepassa, senza degnarla di un secondo sguardo. Sa già più di quanto gli serva sapere.
Passandole accanto, ne aggiunge un’altra: profuma di formaldeide e limone. Si porta cucita addosso, sulla pelle, oltre che nell’abisso dei suoi occhi straordinariamente tristi, la morte. E ciononostante, è un pensiero che è il contrario di freddezza e distacco e oggettività e del tipo d’uomo che ha scelto di essere, che perciò va bandito, estirpato, cancellato, ciononostante, nella storia che racconta, incarna nel modo più veritiero e autentico concepibile tutto ciò che è vita.

       

 


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Sinceramente non so da dove o come mi sia nata l’idea per questa storia. So soltanto che stavo scrivendo tutt’altro, che mi ero ripromessa concentrazione e completa abdicazione all’altra storia e in risposta a questa mia risolutezza, perché Coerenza è il mio secondo nome, ho iniziato a buttar giù questa, riversando su .word quello che in breve è finito col diventare un fiume di parole in piena regola.

Non so se abbia un senso, spero che per voi ne abbia, ovviamente per me ne ha, ma io non faccio testo xD  

Temo che, malgrado maldestri e ripetuti tentativi falliti da parte mia di renderlo quanto più simile possibile all'idea originale, il risultato non si avvicini neppure lontanamente a quello che avrei desiderato. Sono però due settimane a oltranza che macera sul desktop, aspettando che una folgorazione o un'improvvisa ispirazione mi consentano di limarlo quanto vorrei. Perciò, visto che sono un essere pigro per natura, mi sono convinta a lasciarlo in questo stato grezzo, sperando che, benchè "non buono" sia almeno "sufficientemente buono" o perfino "abbastanza buono", anche se ai miei occhi resta più una bozza che una storia vera e propria. Di questo mi scuso profusamente. 

Fanno ritorno una miriade di idee di vecchia data che ricorrono con grande frequenza nelle altre mie storie, tra queste quella che il padre di Molly sia morto di cancro durante gli anni in cui lei frequentava l’università (non farina del mio sacco, è qualcosa che spopola nel fandom d’oltremanica) e una, puro angst, (mia headcanon) secondo cui Molly abbia provocato un’overdose di morfina al padre, provocandone così la morte per evitargli ulteriore dolore nel protrarsi della malattia; e ovviamente quella sul disturbo alimentare di Molly, non un vero e proprio disturbo alimentare, ma un’inappetenza generata dallo stress e dalla situazione traumatica della morte del padre.

Contrariamente al solito, non si tratta di una Sherlolly, perché una volta tanto non è nata con quell’intenzione. E’ nata unicamente per Molly, perché a mio avviso all’interno della serie meriterebbe maggiore spazio e possibilità di manovra per rendere visibile quanto poco ordinaria sia a conti fatti e quanto efficacemente la sua natura gentile, alternativamente quieta e vivace, rispecchi l’ossimoro che ogni persona può essere nella sua specificità.

Ringrazio tutte voi per l’attenzione e per la premura e la bellezza che riversate su di me attraverso le vostre recensioni. A molte non ho ancora avuto modo e tempo di rispondere ed è una mancanza a cui spero di sopperire quanto prima. Come al solito, spero davvero che, per quanto bislacca e stravagante, la storia vi sia piaciuta o vi abbia trasmesso qualcosa.

Un bacione!          

  
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