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Autore: Chamelion_    27/03/2009    2 recensioni
Laf sapeva fin troppo bene quanto non fosse vero, che il vuoto fosse sempre vuoto. Sapeva che se il vuoto è vuoto, lo è solo temporaneamente, se è vicina la possibilità di colmarlo; ma il vuoto che non può essere riempito in nessun modo, provvede da sé a colmarsi di se stesso: e diviene pieno di vuoto.
Genere: Triste, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una piccola goccia densa di sporcizia solcò la superficie vitrea e approdò proprio sulla punta del polpastrello che Laf teneva delicatamente appoggiato contro la lastra, nell’intento di guardare oltre essa. La sua vista si sforzava di vedere con nitore, attraverso lo spesso strato biancastro di fiato condensato contro il vetro, l’interno del piccolo bar all’angolo della piazzetta, ma quella piccola porzione di vetrina attraverso cui Laf cercava di spiare era sempre più difficile da attraversare, man mano che la nebbiolina si accumulava su di essa.

Il respiro che esalò suo malgrado imbiancò del tutto il vetro, e Laf pensò che non valeva proprio la pena usare così i respiri: riversarli ad uno ad uno, come con un contagocce, su un vetro contro il quale o rimbalzavano, restituendo a chi li aveva emanati un’eco tiepida, o diventavano acqua, per poi lasciarsi scivolare, succubi, verso il basso.

Del resto, ogni cosa fatta da Laf era fatta per sé, e non doveva disturbare niente e nessun altro. Anche respirare: Laf alitava quanto sommessamente poteva, dacché non poteva evitarlo del tutto, e soffiava via l’aria stringendola tra i denti e il labbro, e poi la conteneva imprigionandola nella stoffa dei vestiti, o nella mano, o contro un muro o un vetro. L’importante era non invadere troppo l’esterno.

Attraverso le particelle acquose gli occhi di Laf si posavano con cautela sugli individui seduti ai tavolini dentro il bar, i cui movimenti sciolti emanavano calore tangibile. Bevevano il contenuto di tazze fumanti, godendosi quella pausa in un tardo pomeriggio d’inverno oppure distratti da pensieri che non riuscivano a scacciare; quelli che sedevano in compagnia di qualcuno, ovviamente, erano i più interessanti.

Laf amava vedere le persone interagire tra loro fisicamente, più che con le parole. I suoi occhi ingordi collezionavano fotogrammi dei piccoli gesti e movimenti che denunciavano che un corpo era consapevole di averne un altro accanto: spostare lievemente la mano quando un’altra le si allungava davanti, colmare la distanza tra due paia di spalle avvicinandosi, reagire con un cenno al cambio d’espressione dell’altro, tendere la nuca per accostare il viso ad un altro che si è ritratto un poco. Era come guardare le calamite partecipare ad un gioco tra loro, attraendosi e respingendosi; i corpi stessi, molto più della mente, sanno giocare con la polarità e decidere quando diminuire e quando accrescere le distanze.

Laf sapeva fin troppo bene quanto non fosse vero, che il vuoto fosse sempre vuoto. Sapeva che se il vuoto è vuoto, lo è solo temporaneamente, se è vicina la possibilità di colmarlo; ma il vuoto che non può essere riempito in nessun modo, provvede da sé a colmarsi di se stesso: e diviene pieno di vuoto.

Laf non aveva che vuoto addosso, e dal momento che non permetteva a niente di annullare questa vacuità, essa s’era inspessita e addensata, fino a diventare quasi palpabile. Da essa Laf si lasciava mangiare, il più delle volte traendo conforto dalla sensazione opprimente di soffocarne; correva spontaneamente a rinchiudersi nella sua vacuità quando sentiva troppo pesante l’esporsi all’esterno, e questa non mancava mai d’accogliere Laf nel suo abbraccio avvolgente, premuroso come quello di una madre apprensiva, sempre generosa nell’annichilire chi cercava rifugio.

Il pensiero, che talvolta subdolamente compariva, repentino come un fuoco artificiale sparato nel cielo, della propria madre portava Laf a stringersi una mano al petto, dolente, per poi incrociarvi sopra l’altra a simulare un abbraccio faticoso. Era così facile ingannarsi che ci fosse qualcun altro a parteciparvi, che ormai Laf si convinceva senza sforzo che nel vuoto da cui si lasciava circondare potesse esserci una breccia, uno squarcio attraverso cui qualcuno, se l’avesse voluto, sarebbe potuto entrare. Era innegabile che responsabilizzare qualcun altro al di fuori di sé rendesse più sopportabile il peso della propria scelta: di crearsi il vuoto intorno.

La ragazza bassetta con i capelli raccolti aveva cominciato a tenere d’occhio la figura spettatrice, le cui dita premevano sulla vetrina con tanta leggerezza che sembravano aver paura di lasciarvi un’impronta, già da qualche minuto, da dietro il bancone del bar, mentre strofinava un bicchiere con uno straccio e serviva il caffè ai clienti. Inizialmente era parsa incuriosita da Laf, che evidentemente osservava non i dolci esposti in vetrina ma i clienti seduti ai tavolini, ma ora le sue occhiate fugaci al suo indirizzo sembravano contenere preoccupazione e allarme. A un certo punto toccò il braccio di un cameriere, di passaggio dietro al bancone, e gli sussurrò qualcosa all’orecchio accennando a Laf con un movimento non tanto discreto.

Immediatamente, le dita di Laf lasciarono il vetro per ritirarsi nelle ampie tasche del cappotto, e i suoi piedi fecero un rapido passo indietro quando il cameriere, dopo aver guardato nella direzione indicatagli dalla ragazza, uscì da dietro il bancone camminando verso la porta. Probabilmente la sua intenzione era quella di domandare alla figura osservatrice che cosa desiderasse.

Il corpo di Laf, avvezzo alle manovre di fuga, si mosse in sincronia per evadere per l’ennesima volta un contatto estraneo: non aveva ancora finito di voltarsi che i piedi già camminavano, solcando con passi piccoli ma veloci il ciottolato grigio, mentre la testa s’affossava automaticamente in mezzo alle spalle come quella di una testuggine, e l’intera figura si lasciava avvolgere e annullare dal cappotto nero.

Si muoveva tra i vicoli stretti e poco illuminati con la nevrosi di un topo che cerca di passare inosservato, mimetizzandosi tra il cemento e le pietre giocando sull’omocromia. Eppure non sembrava mai abbastanza: Laf era, nonostante tutto, tanto consapevole della propria presenza da non capacitarsi di riuscire così bene nel proprio scopo, che era annullare questa agli occhi degli altri. Ma ciò era proprio quanto accadeva, e Laf non poteva che ripetersi che fosse meglio così.

Meglio, perché più facile: così decretava ogni cellula del suo corpo, ogni pezzo del complesso ingranaggio artificioso, atto a provvedere a se stesso e ad essere autosufficiente, che Laf aveva costruito a poco a poco nel tempo. Il primordiale istinto di autoconservazione su cui faceva affidamento pareva la sola cosa per cui valesse la pena concentrare ogni forza fisica; il che portava Laf ad agire sempre e solo per sé, curandosi di non coinvolgere altri nel funzionamento del suo ingranaggio. Nella sua vita.

Svoltato un angolo si trovò a sorpresa sulla via pedonale che costeggiava il fiume, che attraversò per poi discendere verso la riva. Le rive dei fiumi erano sempre semideserte, perché né l’acqua fetida né la sporcizia erano invitanti per i passanti; Laf notò entrambe le cose e non ne trasse piacere, tuttavia non smise di camminare e andò a sedersi proprio sul muretto che s’immergeva, appena due metri più sotto, nell’acqua scura e opaca. Sedette, stese le gambe e, affossando ancor di più la testa tra le scapole, s’appoggiò con le mani al muretto.

Il freddo dell’aria sembrava correre sul pelo dell’acqua, sotto forma di nebbiolina rarefatta, e il cielo lattiginoso e opalescente metteva in risalto ogni cosa sottolineandone l’aspetto negletto. Dalle crepe del muretto sotto le dita di Laf sembrava scaturire un fievole brusio di voci che mormoravano abbandono, ma tutto ciò poteva essere solo un inganno della mente di Laf, il cui bisogno di trovare un senso alla propria desolazione talora incalzava, esigente come un polmone che annaspa alla ricerca disperata d’ossigeno.

Un senso, ripeteva Laf, doveva esserci, perché neanche impegnandosi due volte quanto aveva fatto, e neanche vi fosse stata la convergenza dell’ausilio di un ipotetico fato, avrebbe potuto realizzare con tanta perfezione il proprio disegno, se ciò non fosse stato sorretto da una qualche logica, una ragione.

Ma che logica poteva esserci nel vivere nella disperazione, in una passività che aveva soppresso ogni slancio che potesse turbare questa condizione… anche la sofferenza?

Poteva, quella del “male minore”, essere una ragione sufficiente a spiegare la sua scelta di fuggire, di rendersi impenetrabile, allo scopo di evitare le ustioni ed i lividi?

Laf aveva cominciato a dubitarne da qualche tempo, ma la barriera che aveva innalzato, coccio dopo coccio, era ormai talmente radicata, talmente aderente al suo corpo, che trovare la forza di scrollarsela di dosso pareva impossibile. Specialmente, convincersi che valesse la pena farlo.

Perché, dopo tutto, se aveva cominciato doveva esserci un motivo. E Laf agognava trovarne uno per poterlo prendere a calci, poiché rassegnarsi a non vederne avrebbe significato che aveva abbandonato la battaglia, arrendendosi, precocemente, senza una vera costrizione. Che aveva scelto di castigarsi senza che ciò fosse necessario.

In effetti, mai niente aveva obbligato Laf a cedere le armi: era stata una sua scelta quella di levar la bandiera bianca, quando il dolore per le ferite subite era diventato insostenibile. Quando l’ennesima (forse l’ultima rimasta) scaglia della sua anima era stata strappata via come un brandello di carne da fauci canine affamate, mentre un’altra persona importante si dileguava in un silenzio tanto lacerante da squarciare le sue vene.

Di quante cicatrici può ricoprirsi un corpo umano, prima di ridursi ad un insieme di lacerti cuciti insieme con lo spago? Ad un certo momento Laf aveva creduto d’aver raggiunto il limite della sopportazione, e che non avrebbe saputo tollerare che qualcun altro, qualcuno che per qualche tempo era stato sostanziale nella sua vita, si allontanasse portandosi via un lembo del suo corpo martoriato. Non aveva più voluto dire addio a frammenti di sé.

Non concederne più ad alcuno era parsa, allora, la sola maniera per preservarli. Da allora Laf aveva iniziato il suo macabro gioco evasivo, abbandonando le strade affollate per fare dei budelli desolati la sua casa. Come un agorafobico che, fuggendo la vastità in cui si sente perduto, corre a rintanarsi in un cantuccio angusto, condizione indispensabile per poter respirare. Perché era più facile muoversi in un angolo, un nascondiglio affidabile perché conosciuto in ogni dettaglio, senza il rischio di essere colti impreparati dallo spuntare improvviso di un demone da dietro l’angolo.

Ma in che senso, esattamente, era più “facile”? Che cosa lo era: sopravvivere senza cadere a pezzi? Oppure essere felici? Che rivestirsi di vuoto rendesse più semplice restare intatti, interi, poteva anche essere, perché la compattezza isolante del vuoto ha la capacità di tenere insieme ciò che avvolge; ma se ciò implicava anche che la felicità fosse più a portata di mano, allora Laf doveva aver sbagliato qualcosa.

Con le unghie grattò via un po’ di calce dal muretto; sentì sotto il palmo della mano che una pietruzza si scrostava e la prese per fregarsela tra le dita; quindi la posizionò, con intensa concentrazione, in equilibrio al centro del polpastrello del pollice, e con l’unghia dell’indice della stessa mano la lanciò verso il fiume. Vedere l’estrema facilità con cui l’acqua scura inghiottì quel piccolo corpo inanimato, che scomparve senza lascia alcuna traccia, a parte due deboli cerchi concentrici che incresparono per un attimo la superficie laddove era stata perforata, come non fosse mai esistito, fece bruciare la gola di Laf quasi avesse ingoiato un pezzo di carbone incandescente.

Aveva davanti agli occhi la rappresentazione concreta della propria scelta: trasformarsi in un sassolino e gettarsi nella calma morta di un fiume immobile, lasciandosi risucchiare da esso. Nessuno che fosse passato di lì avrebbe mai saputo che sotto chissà quanti metri d’acqua, sul letto di quel fiume dall’acqua scura e mefitica, giaceva un sassolino abbandonato; e probabilmente neanche Laf, che l’aveva visto saltare e scomparirvi dentro, ne avrebbe conservato il ricordo a lungo.

Laf gettò indietro la testa con prepotenza, pregando che la forza di gravità facesse il proprio dovere e mantenesse le lacrime incollate ai suoi bulbi oculari: che non straripassero, che non toccassero le sue guance. Si chiese come poteva la sua scelta di suonare la ritirata, di abbandonare il conflitto per salvare quanto era rimasto del suo corpo, essere la migliore, la più facile. Si domandò se non poteva aver sbagliato, a perseguire la strada dell’annientamento di sé, se questa era cagione di tanta sofferenza. Ancora, si interrogò in preda al dubbio che, se avesse sopportato ancora qualche fitta di dolore, stretto i denti subendo la mutilazione di un altro pezzo di sé, avrebbe infine trovato, forse, un porto sicuro. Sapeva che avrebbe tollerato molti altri supplizi, se avesse avuto la certezza che un giorno ne avrebbe visto la fine: che il dolore avrebbe ceduto il posto alla quiete.

Ma non avrebbe potuto trarre conforto dalla consapevolezza di aver ormai toccato il fondo, perché niente suggeriva che non ci fosse un peggio. Di fronte al disorientamento dell’indefinito, Laf aveva temuto il rischio, e con un ampio passo indietro aveva scelto di non riporre più fiducia in nessuno all’infuori di sé. E se preservarsi dal dolore del distacco dopo la vicinanza comportava assuefarsi ad un distacco perpetuo, così avrebbe fatto, a costo di tagliarsi la lingua a morsi e di fare violenza al proprio corpo. Perché l’idea, non potendo evitare le ferite sanguinanti, che fossero le proprie dita a provocarle era più sopportabile della prospettiva di lasciare che fossero altri a giocare con la sua carne.

Quando seppe che il vento aveva asciugato le sue lacrime, e che non sarebbero cadute, Laf abbassò nuovamente il capo e ruotò il proprio corpo riportando le gambe sull’asfalto, si alzò e riprese a camminare senza curarsi di nascondere le proprie mani nelle tasche. Avanzava con il passo di chi non ha fretta di arrivare da nessuna parte, perché non c’è nessun posto in cui vorrebbe sinceramente andare. E se i suoi sforzi di annichilirsi non avessero reso la sua persona effettivamente invisibile agli occhi degli esterni, qualcuno sarebbe rimasto colpito da quella figura ambulante nella disillusione.

Quando lo vide, non aveva percorso che mezzo chilometro di strada, giungendo, dopo un lungo aggirarsi tra viuzze secondarie, dinanzi a uno dei ponti che cavalcavano il fiume. La mente di Laf era tanto immersa nel consueto torpore del nulla che impiegò qualche secondo ad accendersi di sorpresa.

In principio non vide che un’immagine confusa, quasi sfocata nella nebulosità dell’aria; ma la familiarità che impregnava i lineamenti dell’uomo appoggiato al parapetto lo distingueva chiaramente dalle poche altre figure astanti. Laf arrestò il proprio passo con lentezza, ogni senso ovattato da un inaspettato sfasamento che ricordava la passività tipica di quando si sogna. In quel momento il suo cervello sembrò smettere di funzionare, per consentire agli occhi di divorare l’immagine nella sua interezza.

L’uomo appoggiato al parapetto che, distante una manciata di metri, seguiva con lo sguardo lo scorrere placido della corrente, era un personaggio del passato di Laf; non era neppure uno dei ruoli principali quello che aveva giocato, per qualche tempo, nello scenario della sua vita. Ma Laf cadde preda del più grande stupore quando lo riconobbe, poiché aveva accuratamente allontanato ogni possibilità di imbattersi nuovamente in persone conosciute nel momento in cui aveva traslocato, per ritirarsi a vivere in una città del tutto estranea, badando a cancellare ogni cosa che rappresentasse un legame con il suo passato.

Ciononostante era lì, così drammaticamente vicino, benché non si fosse accorto di chi gli si era accostato. In balìa del panico, Laf restò immobile per qualche minuto prima di ricominciare a ragionare: quell’uomo impersonava un pericoloso fantasma di ciò che aveva voluto lasciarsi alle spalle, oppure (pensiero inatteso, insperato quanto improvviso) un’ancora di salvezza dal baratro infinito di vuoto di cui era vittima?

Se l’avesse raggiunto, pensò, sarebbero successe delle cose: avrebbe ritrovato il contatto con altre persone che aveva lasciato dietro di sé, alcune delle quali erano responsabili delle ferite che recava addosso. Ogni sfregio, però, era ciò che rimaneva di un amore che Laf aveva potuto toccare per qualche tempo, prima di separarsene brutalmente; e da sempre si tormentava chiedendosi se, dopotutto, il gioco non fosse valsa la candela, ogni volta. Se non avrebbe preferito, piuttosto che restare immobile in quella condizione di neutralizzazione di sé, guadagnarsi qualche cicatrice in più: assistere, sì, alla morte di qualcosa di buono. Ma prima di ciò, vivere questo qualcosa.

Oppure non sarebbe successo niente di tutto questo; ma soltanto facendosi riconoscere da quell’uomo avrebbe riscoperto, volente o no (ma forse era proprio quello che in realtà voleva) il nodo vincolante del suo passato, di quello che la sua vita era stata prima che ne prendesse le distanze. E questo avrebbe permesso a Laf di riscattarne una parte, non per rimpiangerla, ma per conservarla come prezioso ricordo di ciò che era stato, e come monito per il futuro: affinché non si perdesse più.

Scegliere di rifugiarsi nella propria umanità anziché nel ghetto della vacuità. Tutto questo pareva così pericoloso, così opposto rispetto all’obiettivo di tutti gli sforzi fatti fino a quel momento, da tentare fortemente Laf di provarci, solamente. E decise di farlo.

Quasi avesse sentito questo pensiero, l’uomo si discostò dal parapetto, concedendosi un’ultima occhiata al fiume sottostante, e prese a camminare allontanandosi da Laf, che si pietrificò. Sentendosi raggelare, sprofondando nuovamente nell’incertezza sul da farsi, non poté che guardare l’uomo camminare senza fretta, ma con passo regolare, diventando sempre più piccolo e più lontano. Riuscì a percorrere molti metri e a raggiungere l’incrocio, prima che Laf si riscuotesse.

In un primo momento non ricordò come si correva: non lo faceva da tanto tempo, e i primi passi che mosse in velocità furono talmente goffi e singhiozzanti che rischiò più volte di cadere. Poi dimenticò ogni cosa intorno a sé, ogni volto ed ogni forma, e si precipitò lungo la strada ansimando, senza staccare gli occhi dall’uomo.

Questi nel frattempo, quando il cambio di colore del semaforo glielo permise, attraversò la strada con tranquillità, strappando a Laf un lamento strozzato che probabilmente avrebbe udito, se solo fosse stato un po’ più vicino. Invece raggiunse l’altro lato della strada e, sempre ignorando di essere braccato, si diresse in direzione delle poche automobili parcheggiate lì vicino.

Laf non vide proprio il semaforo rosso, e si scagliò in mezzo alla strada, che fortunatamente era quasi deserta in quel punto della città, coprendo con pochi salti la distanza dal marciapiede opposto. Aveva dimenticato tutte le sue inibizioni, il suo proposito di rendersi invisibile: correva forsennatamente e sentiva che avrebbe permesso che i suoi polmoni si lacerassero, prima di arrendersi.

Vedere l’uomo salire su una delle auto ed accendere il motore incentivò la sua corsa, anziché scoraggiarla, e neppure quando il veicolo si mosse, spostandosi sulla carreggiata, desistette. Ma improvvisamente un’altra auto spuntò dal nulla e costrinse Laf a fermarsi per un paio di secondi, quanto sarebbe stato sufficiente per raggiungere l’uomo al volante; ma questi non si accorse della figura che s’era lanciata al suo inseguimento, forse perché troppo assorto in chissà quali altri pensieri. Non appena poté, Laf si tuffò dietro la sua macchina, concedendosi a malapena di respirare, e la seguì mentre girava all’incrocio e s’infilava in una stradina secondaria.

A causa del ciottolato di quel vicolo, che era particolarmente sdrucciolevole, l’auto era costretta a procedere a velocità moderata, cosa che consentì a Laf di avvicinarsi di qualche metro; ma dopo una curva particolarmente stretta, che la macchina imboccò senza esitazione, Laf scivolò. Cadde sul fianco violentemente e i suoi denti non riuscirono a trattenere un gemito di dolore, che unito al disorientamento dovuto all’urto, per un attimo svuotò la sua mente da ogni pensiero.

Il rombo del motore che si affievoliva informò le sue orecchie, prima ancora dei suoi occhi quando cercarono l’auto, che questa si stava allontanando con più sicurezza e velocità, ma malgrado lo volesse non riuscì a rialzarsi in tempo. Nel giro di pochi secondi la macchina si dileguò, e l’uomo che aveva inseguito con lei. Entrambi scomparvero inghiottiti da una nuvola di gas di scarico, come in un numero di prestigio.

La prima cosa che Laf avvertì, una volta riacquistata la lucidità quando il mondo smise di girare vorticosamente, fu il male; aveva battuto brutalmente l’anca, il gomito e parte del ginocchio, che ora pulsavano terribilmente riempiendo di dolore il suo respiro, spasmodico a causa della corsa. Nel medesimo istante in cui prese coscienza che l’uomo se n’era andato, ed era ormai irraggiungibile, sentendosi addosso la solitudine si accorse della seconda cosa evidente: il silenzio.

Dominava la scena, per nulla ostacolato dallo sfiatare affannoso di Laf, e riempiva i minuscoli spazi tra le molecole d’aria, le fessure nei muri che delimitavano il vicolo, impregnava il suolo, la pietra, il cemento. Se il vuoto di cui Laf aveva fatto la propria camicia di forza isolava l’esterno dal fragore che infuriava al suo interno, ora con esso coincideva il silenzio. Ed era il silenzio, così opprimente e disarmante, che avrebbe predominato nella vita di Laf da quel momento in poi: qualcosa di molto peggiore della trincea del vuoto con cui aveva dovuto misurarsi prima. Un’entità invincibile per un essere umano.

Non c’era niente altro intorno a Laf: soltanto quel vicolo stretto e troppo scivoloso, quei muri dall’intonaco vecchio in parte scrostatosi, il troppo buio per i pochi lampioni non ancora accesi; e quel silenzio che prevaleva su tutto, che soffocava trionfante ogni cosa, e che non lasciava abbastanza spazio nemmeno al dolore che, non potendo straripare dalla gola di Laf, implose nel suo petto dilaniandone i tessuti.

A un tratto, questo silenzio fu rotto da un suono estraneo. Un verso sfiatato e gutturale, secco, corto, come emesso da qualcuno la cui gola fosse stretta in una morsa. Laf sentì il proprio sangue raggelarsi mentre dirigeva la propria attenzione verso il muro alla propria sinistra, dal quale sembrava provenire quel rantolo arrochito che faceva pensare a qualcuno che sfregasse un’unghia contro una lastra di ferro. La sofferenza lacerante lasciò il posto all’orrore, il dolore fisico ai brividi: era un suono straziante, rauco e privo di colore, dal ritmo incalzante che andava accelerando.

Finalmente fu chiaro che quel verso strozzato non nasceva dal muro stesso, ma dalla bestia che comparì trascinandosi da dietro l’angolo del vicolo; Laf lo riconobbe subito come un cane, ma il suo aspetto era terrificante quasi quanto il rantolio che emetteva, contraendo febbrilmente il ventre come se non riuscisse a respirare. Sarebbe stato difficile indovinarne la razza, tanto era magro, scarno e, apparentemente, persino deforme. Era incredibilmente grosso, ma aveva zampe scheletriche e storte e qualche artiglio era spezzato a metà; il pelo era lungo, ma rado, e interamente nero come il petrolio. Gli occhi deturpati da croste nerastre erano fissi su Laf che, ancora a terra, gli restituiva lo sguardo, e la lingua grigiastra pendeva tra i grossi denti tendendosi quando percorsa da uno di quegli spasmi rauchi.

Non si avvicinò ulteriormente, ma si limitò a fissare Laf mentre il suo addome era sconvolto come da crampi: il suo verso ragliante sembrava raschiare la sua gola e strizzargli le budella, e tra le scosse di paura Laf riuscì a domandarsi che cosa la bestia stesse facendo. Infatti non stava propriamente abbaiando, e quel suono sporco non poteva certo definirsi un guaito.

Poi ebbe come un’intuizione che, per quanto assurda sembrasse, per quanto incredibile, infinitamente folle e inconcepibile, riuscì a convincere Laf, che se ne sconvolse a tal punto che la paura abbandonò il suo corpo in una frazione di secondo. Ridendo. Stava ridendo.

Quella bestia orrenda, che invero sembrava provenire dalle viscere infernali, rideva, e rideva di Laf. Rideva perché aveva visto: rideva della scena disgustosamente patetica a cui aveva assistito, acquattato nell’ombra in quel cunicolo desolato.

Laf che aveva voluto illudersi di poter tornare sui propri passi, di riscattare qualcuno dei brandelli della propria anima che aveva gettato dietro di sé e ricoperto di polvere. Laf che aveva creduto davvero, per un momento, di poterli recuperare, e che per farlo bastasse raggiungere una persona conosciuta molto tempo prima. Laf che l’aveva rincorsa. Laf che, per un tradimento del suolo, non l’aveva potuta raggiungere. Laf, i cui piedi erano scivolati. Laf che era a terra, ancora una volta, e questa volta per sempre.

Non riuscì a provare un briciolo di paura: smise, al contrario, di tremare e posò i propri occhi con delicatezza e precisione proprio dentro quelli del cane nero che derideva la sua pateticità. E lo guardò intensamente, incapace di farsene spaventare. Se ne lasciò schernire in quel modo così brutale, così orrido da far accattonare la pelle. Lasciò che la sua risata invadesse le sue vene e facesse rizzare tutti i suoi capelli.

Per forza rideva, si disse. Non era penoso quanto aveva fatto? Come poteva Laf, quella creatura reietta, che ora come non mai era lontana anni luce dall’essere una persona dignitosa, suscitare altro se non ilarità e derisione? Che cosa aveva da offrire quel rifiuto negletto, che nemmeno sapeva riprendersi l’umanità che gli spettava di diritto, se non uno spettacolo pietoso di cui farsi beffe? Nulla. Non aveva nulla.

Per forza rideva. Per forza.

















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Il titolo del componimento è un verso di una canzone dei Negrita: "Sale", L'uomo sogna di volare (2005).
L'ho sempre trovato terribilmente inquietante.

Il nome "Laf" è nato per essere il mio pseudonimo come scrittrice. Ho chiamato così il personaggio principale per due motivi: perché non è proprio di nessuno dei due sessi (e infatti anche il sesso del personaggio è volutamente indefinito), e perché è la pronuncia italianizzata del verbo inglese "ridere". Sul momento, almeno, mi è parsa una buona idea.


  
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