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Autore: Willow Gawain    12/03/2016    4 recensioni
C’era una volta una giovane ragazza dagli occhi grigi come il cielo di Londra, la pelle rosea come i fiori di pesco e lunghi capelli color del legno. Ella viveva da tanto, tantissimo tempo - tanto da non ricordare neanche quanto - in una villa nera al di là del lago più cristallino d’Inghilterra.
Le persone con cui abitava non erano affatto gentili con lei: dicevano che fosse strana, diversa, che la troppa cultura le avesse fuso il cervello. La ragazza era dunque spesso lasciata a sé, con la sola compagnia dei grandi autori del passato, che pur non avendola mai conosciuta sembravano capirla meglio di quelli che ogni giorno evitavano i suoi occhi; Alfred Tennyson, Lord Byron, Jane Austen e, colui che più amava, Thomas S. Eliot. La sua anima era ormai rarefatta come l’ombra della Terra Desolata di Eliot.
Ma qualcosa, un giorno, avrebbe cambiato per sempre la sua vita.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Gli occhi grandi di Cappuccetto Rosso

 

Each man kills the thing he loves.

(Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading)

 

C’era una volta una giovane ragazza dagli occhi grigi come il cielo di Londra, la pelle rosea come i fiori di pesco e lunghi capelli color del legno. Ella viveva da tanto, tantissimo tempo - tanto da non ricordare neanche quanto - in una villa nera al di là del lago più cristallino d’Inghilterra.

Le persone con cui abitava non erano affatto gentili con lei: dicevano che fosse strana, diversa, che la troppa cultura le avesse fuso il cervello. La ragazza era dunque spesso lasciata a sé, con la sola compagnia dei grandi autori del passato, che pur non avendola mai conosciuta sembravano capirla meglio di quelli che ogni giorno evitavano i suoi occhi; Alfred Tennyson, Lord Byron, Jane Austen e, colui che più amava, Thomas S. Eliot.

“Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono

Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,

tu non puoi dire o immaginare, perché tutto ciò che conosci

è solo un coacervo d’immagini spezzate, dove il sole batte

e l’albero morto non dà riparo e il grillo non rallegra col suo cantare,

e l’arida pietra non risona d’acqua.

C’è ombra solo al riparo di questa roccia rossa.

Vieni all’ombra di questa roccia rossa.

Ed io ti mostrerò qualcosa di diverso

Dalla tua ombra che al mattino ti segue a lunghi passi

E dalla tua ombra che la sera s’innalza per incontrarti;

In una manciata di polvere, ti mostrerò la paura.”

La sua anima era ormai rarefatta come l’ombra della Terra Desolata di Eliot.

Ma qualcosa, un giorno, avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

 

 

***

 

La pioggia era caduta insistentemente fino al primo pomeriggio, quando il cielo si era infine rischiarato, mostrando la luce pallida al di là delle nubi; solo dopo una buona mezz’ora gli uccelli avevano ripreso a cantare note discordanti, che rimbalzavano da una parte all’altra del bosco come un’eco alla ricerca di qualcuno.

Gli alti cancelli in ferro nero, attorno ai quali si avvoltolavano rampicanti nodosi, così come ogni pianta del vasto giardino verdeggiante, il ciottolato rosso d’ingresso e la finestra, il cui vetro veniva ritmicamente appannato da un respiro annoiato, erano bagnati.

Il freddo era intenso e nell’aria forte l’odore della pioggia, tanto forte da penetrare anche le imposte chiuse.

Il davanzale della finestra della biblioteca, al secondo piano dell’austera villa, era abbastanza grande da potercisi accomodare. Difatti, non senza indispettire gli altri abitanti della casa, che avrebbero voluto vederla più partecipe della vita domestica, lì stava spesso una ragazza, accoccolata tra il muro e il vetro, con lo sguardo perso ora su uno dei mille tomi dalle antiche rilegature, ora sulle fronde degli alberi, nella speranza di scorgere un pettirosso o un’allodola spiccare il volo.

Quest’oggi, forse per merito dell’atmosfera tetra e un po’ gotica, ciondolava tra il richiamo del mondo onirico e l’esaltazione che provocava al suo animo ogni fulmine che attraversava l’etere, abbattendosi su qualche albero in mezzo alla selva. Se chiudeva gli occhi, poteva fantasticare di trovarsi quanto più vicina possibile al luogo in cui il tuono sconquassava i timpani e faceva tremare il cuore.

Da quando però il tempo era migliorato si era dedicata a un’attività, a detta della cuoca di casa, più redditizia: sonnecchiare.

“Niente rende il corpo più felice di una sana dormita! Se solo i miei nervi fossero quelli di un tempo, quand’ero anch’io giovane e bella, e non mi svegliavo per ogni rumore, anche il più consueto!”

Glielo ripeteva abbastanza volte alla settimana da aver lei imparato a memoria il ritornello.

La ragazza sospirò, creando un nuovo ovale di condensa sulla finestra. Pensò che faceva davvero freddo per essere solo metà settembre, che forse avrebbe fatto meglio a sollevarsi – languidamente come al solito, tutti le rimproveravano di avere una certa mollezza nei gesti – e recuperare uno scialle dalla sua stanza, magari quello rosa pesca che le avevano regalato l’inverno prima.

Qualcosa, tuttavia, le suggeriva di non allontanarsi. Non quel giorno. Chiamiamolo istinto femminile, un sesto senso che va sempre di moda e di cui le donne amano vantarsi.

Le mani della giovane, intirizzite e screpolate dal freddo, raschiavano con le lunghe unghie un angolo ricoperto di ruggine dell’infisso, poco sopra il cardine, producendo un rumore sgradevole. Al di là di ciò regnava il silenzio assoluto tipico del dopo pranzo, momento consacrato al riposo pomeridiano.

Nessuno gironzolava, nessuno poteva distoglierla dal suo perdere tempo ad osservare niente in particolare, coi lunghi capelli bruni che le carezzavano morbidamente il collo – alcune ciocche s’infiltravano nel colletto della camicia bianca, infastidendola, ma lei non sembrava intenzionata a liberarsene.

Seppe che era giunto il momento che aspettava da tutta la vita quando, tornando a vagabondare con lo sguardo sulle inferriate del cancello, vide qualcosa di anomalo: un estraneo aggirarsi apparentemente senza motivo nei dintorni,  scrutando la casa.

Lo mise a fuoco, socchiudendo gli occhi grigi, con le sottili sopracciglia chiare che incorniciavano la sua espressione corrucciata e concentrata.

Tutto ciò che vide fu un giovane uomo dalla pelle di pesca, una zazzera scompigliata dal vento, della più intensa tonalità di rosso – come se indossasse una criniera di fiamme dell’araba fenice -, e poi, quando per scherzo del destino egli si accorse di essere osservato e la individuò, occhi azzurri vivaci e furbi come quelli di un animale.

“La mia nemesi” pensò la ragazza, schiudendo le labbra in un accenno di sorriso.

Avrebbe voluto essere libera e viva come lui.

Prima che però potesse far altro, la libertà però reclamò il ragazzo e se lo portò via, nel folto del bosco.

 

«È passato nessuno questo pomeriggio?»

Occhi grigi fece col capo un cenno di diniego, affondando nella zuppa di verdure un cucchiaio così lucido da potervisi specchiare; dopo aver mandato giù, abbastanza attenta all’etichetta da non produrre alcun rumore, domandò «Perché questa domanda proprio a me, che tra tutti sono quella che esce di meno?»

«Hai di nuovo bighellonato in biblioteca fino all’ora del bagno, ti ho vista.» sembrava quasi un’accusa, ed implicitamente lo era «Immagino tu abbia passato le ore a scervellarti sui libri.»

«Oh, ho letto.» sorrise, infondendo in quella semplice espressione un’innocenza che stonava col suo volto che indicava un’età vicina, se non addirittura superiore, ai vent’anni «Ho letto un magnifico saggio di Virginia Woolf.»

Una vocina di bambino, al suo fianco, borbottò sottovoce «Studiare è inutile e noioso. Disegnare è più divertente.»

«Disegnare non ti porterà a nulla nella vita.» lo redarguì acidamente il vecchio a capotavola «A meno che tu non voglia unirti a una di quelle stupide scuole surrealiste. Come si chiamavano, mia cara?»

«Futurismo, postimpressionismo, vorticismo, imagismo… sono talmente tante, e tutte ugualmente dimenticabili.» sospirò una ragazza dai lunghi boccoli biondi, che molto più di Occhi grigi aveva un’aria intellettuale, o per lo meno intelligente.

Il ragazzino lentigginoso accanto a Occhi grigi digrignò i denti «Tanto i tedeschi arriveranno fin qui e ci ammazzeranno tutti. Ci butteranno le bombe addosso, come hanno fatto a Londra.»

Calò il silenzio. Qualcuno iniziò a piangere sommessamente.

 

***

 

Occhi grigi passeggiava nel giardino, come sempre da sola. L’erba alta strofinava contro le gambe avvolte dalle calze di lana nere del body, mentre la gonna a balze veniva sollevata ogni tanto dal vento.

Aveva appena terminato la noiosa lezione di pianoforte del martedì pomeriggio e, almeno per una volta, si era lasciata convincere a prendere un po’ d’aria prima che il buio giungesse a mettere fine alla giornata.

Mentre però gli altri giovani giocavano o leggevano sul retro, dove i fiori erano così odorosi da infastidirla e le corde dell’altalena lamentavano la loro età, lei aveva preferito gironzolare da sola nei pressi del cancello, con la speranza di incrociare una di quelle rane gonfie e verdi che durante l’estate giungevano saltellando dal lago poco distante.

Solo una volta percorso l’intero giardino, mentre in cielo ricominciavano a rimbombare tuoni ancora lontani e Occhi grigi divagava col pensiero su come la corrente elettrica sarebbe sicuramente saltata quella notte, il rumore di passi presso il cancello riattivò in lei quella sottile connessione che aveva con il mondo reale.

Si voltò rapida e lo vide: era lui.

Immobile presso il portone d’ingresso, al riparo dalla brezza sotto il colonnato, Occhi grigi non s’interrogò su se chiamare i padroni di casa o correre dentro, come sarebbe stato appropriato ad una signorina del suo rango. Aveva un solo pensiero per la testa: quell’incontro avrebbe rimesso in moto la sua vita, stantia da troppo tempo. Forse era solo il favoleggiare della mente di una sciocca ragazzina che non era mai stata sfiorata da un uomo, rimaneva comunque il fatto che il suo cuore le sembrava battere per la prima volta solo ora da quando era nata.

Per Occhi grigi, lui era il mistero.

Senza che lei se ne rendesse conto, era intercorso troppo silenzio fra loro, sicché il ragazzo dai capelli di fuoco distese le labbra in un sorriso aperto e cordiale, parlandole con tono moderato «Buonasera. Sono giunto di nuovo fin qui per chiederti scusa.»

Occhi grigi batté le palpebre e portò le mani al petto, strette sopra la spilla che recava il vessillo di quella casa; non un passo indietro però, perché anche se il coraggio le mancava, il desiderio di scoprire di più la pervadeva.

«Chiedermi scusa?» ripeté, la sua voce cristallina raggiunse a stento lui al di là del ferro del cancello, ma la risposta ai suoi dubbi sovvenne autonomamente «Oh. Per essere andato via senza salutarmi.»

Lo vide annuire e in quel momento seppe che era una persona gentile. Si permise di ricambiare solo allora il sorriso, addirittura muovendo qualche ardito passo sul ciottolato fino a ridurre la distanza effettiva tra loro a neanche due metri. La distanza interiore, tuttavia, era tanto immensa da non poter essere calcolata.

Si guardarono come si guarda per la prima volta la persona del destino, occhi grigi in occhi turchesi.

La ragazza si lasciò sorprendere dalla durezza dei lineamenti squadrati che mai aveva visto su un uomo della sua età, lui al contempo fece scorrere lo sguardo sulle dolci curve del suo viso e, d’improvviso, s’addolcì ancor più nell’espressione.

“Mi pensa bella” rimuginò Occhi grigi, un po’ frivola, immedesimandosi nelle eroine romantiche dei romanzi femminili che un secolo prima avevano invaso le biblioteche.

«Mi chiamo Rangetsu.»

Occhi grigi sbatté di nuovo le palpebre, dischiudendo le labbra in un’espressione fortemente confusa; non aveva mai sentito un nome simile, né lo aveva scorto tra le esotiche descrizioni di Southey. Doveva essere un nome falso, ispirato a qualcosa di prezioso e sconosciuto, oppure di una parola inventata. S’ingegnò sul da farsi, giacché il sorriso di sfida di Rangetsu era quanto di più intrigante avesse mai visto, per tal motivo non si sarebbe permessa di essere da meno, a costo di diventare una femme fatale.

«Mi chiamano Ill.»

«Ill?» strabuzzò per un attimo gli occhi lui, marcando le due elle con un accento straniero.

Sembrava avere qualche problema nel pronunciare correttamente il suo nome, e Occhi grigi fu soddisfatta di essersi dimostrata alla sua altezza, poiché neanche lei riusciva a sillabare Rangetsu come faceva lui.

«Ill

Dopo qualche tentativo, Rangetsu riuscì infine ad articolare le due elle senza ottenere in cambio un risolino, ma un cenno d’assenso. Ill lo vide cercare con lo sguardo qualcosa sull’esterno del muro che li separava, ma non avendo mai messo piede fuori dalla villa ella non aveva idea di cosa ci fosse in quel punto.

Lui tornò a guardarla e chiese «Che cosa ci fai qui?»

Oh. Quella era una domanda così difficile…

Subito Ill sollevò la mano destra fino a tangersi il mento, sentendosi un po’ filosofa «Ci vivo.»

Risposta sbagliata.

L’espressione stranita di Rangetsu la fece sentire in colpa per quel magro tentativo di umorismo, dunque cacciò le mani dietro la schiena e, dondolando a mo’ di bambina sui talloni, aggiunse «Vivo qui da molti anni. Non mi è permesso uscire per nessun motivo.»

«Sei prigioniera?»

Quella deduzione la stupì non poco; sì, era effettivamente prigioniera della grande villa nera. Non ci aveva mai pensato, ma ora che Rangetsu lo aveva sottolineato con tanta naturalezza l’amara verità si era svelata ai suoi occhi come uno specchio che viene spogliato del drappeggio che lo copre. Sulla superficie riflettente dei suoi pensieri vide se stessa come mai si era vista: non più la solita giovane aspirante intellettuale un po’ sfrontata, saccente e frivola, ma qualcuno a cui era stata negata la libertà. Qualcuno che aveva diritto ad un unico, breve e selezionato perimetro di luce del sole.

La consapevolezza ora l’avrebbe divorata nelle lunghissime notti che sarebbero seguite: perché Rangetsu le aveva fatto realizzare la verità? Sarebbe stato così doloroso d’ora in poi…

«Mi dispiace, Ill…»

I demoni che le annebbiavano la mente dovevano essere chiari nei suoi occhi, pensò Ill.

Da quel giorno apprese che Rangetsu era per lei la salvezza.

 

Ill non aveva mai riflettuto sul perché nella casa la chiamassero in quel modo crudele, negandole persino il piacere di un nome elegante; la schernivano, di questo ne era sicura, tuttavia il suo cuore era persino più sigillato della sua libertà, motivo per cui essere trattata così non l’aveva mai infastidita particolarmente.

Fu Rangetsu ad aprirle lentamente gli occhi, non solo sul mondo esterno ma anche su quello interno, radicato nelle quattro mura che era abituata a pensare come ‘il luogo in cui abito’ – ma non casa, una casa ormai non l’aveva da così tanto da averla convinta che non si trattasse di un luogo, ma di una sensazione speciale, che forse mai avrebbe trovato.

Fu così che cominciò a rendersi conto davvero di come nella sua vita mancasse il calore umano. Fu allora che gli intensi rapporti d’amicizia e affetto dei suoi romanzi iniziarono a coinvolgerla veramente. E fu in quel preciso periodo che maturò una sconfinata curiosità verso ciò che al di là della nera cancellata di casa si muoveva e contorceva, assumendo forme a lei sconosciute: il mondo.

Aveva finalmente cominciato a vivere. Si era risvegliata da una accomodante fase durante cui si era limitata ad osservare senza lasciarsi coinvolgere, come le divinità dell’Iperuranio di Platone.

Tutto ciò però si era rivelato inaspettatamente doloroso.

La notte si aggirava come un’anima priva di pace per le silenziose e buie stanze del palazzo, soffocata dall’opprimente impossibilità di fuggire. Le sue corse notturne avevano convinto buona parte degli abitanti della presenza di uno spettro arrabbiato e vendicativo, tanto che i più piccoli avevano preso l’abitudine di sbarrare le porte fino all’alba, mentre gli adulti, ogni tanto, s’avventuravano coraggiosamente alla ricerca di una soluzione a quell’enigma.

Ill era però furba e conosceva la casa assai meglio degli altri proprio per via della sua incontentabile curiosità; aveva esplorato ogni anfratto, da ogni finestra s’era affacciata per calcolare sommariamente la distanza da terra e dalle nodose fronde degli alberi.

Non era una brava arrampicatrice, ma in quei mesi molte volte le sue mani si coprirono di tagli e sangue nel disperato tentativo di scalare il cancello o il muro perimetrale. Rangetsu l’aveva aiutata con magici rimedi portati dalla città, massaggiandole le dita indolenzite e soffiandovi sopra per riscaldarle.

Era una valchiria, una valchiria scatenata.

Anche caratterialmente era cambiata.

«Sembri esserti risvegliata da un sonno profondo.» aveva commentato il ragazzo un giorno «Ma ho paura che questo possa più ferirti che altro.»

Ciondolava, Ill, per i corridoi della casa, incapace di sostare troppo a lungo alla luce del sole proiettata sui pavimenti impolverati; la vista della natura le dava sofferenza, perché sapeva che mai avrebbe potuto correre per i campi e bearsi della sua bellezza, l’avrebbe invece sempre scorta solo attraverso finestre dall’aspetto pesante e antico, mangiate dalle tarme.

Anche lei si sentiva mangiata dalle tarme, da dentro, come quella vecchia casa scricchiolante anche lei cadeva a pezzi ogni giorno di più.

Era prigioniera.

Ogni uccello che si levava in volo accresceva nel suo animo un odio spropositato per la sua condizione, che si convertiva in lacrime amare durante la notte, quando diventava il fantasma della magione per farla pagare cara a chi non la considerava abbastanza umana da meritare qualche diritto.

I suoi incontri con Rangetsu si fecero più frequenti, abbastanza tra trasformare due conoscenti in qualcosa di simile ad amici; Rangetsu era un ragazzo dolce, premuroso, con la paura di vederla andare a pezzi.

Ill non sapeva per quale motivo tra tutti gli esseri umani del pianeta avesse scelto proprio la reietta della casa nera – così amava definirsi, rifacendosi ai poeti romantici -, ma ogni volta che sfiorava le sue dure e calde mani metteva da parte i dubbi, lasciandosi travolgere da sentimenti tanto profondi da inebriarla.

La stava letteralmente richiamando alla vita: in ogni gesto di lui, anche nel solleticarle con la punta del dito la guancia arrossata dal freddo, Ill leggeva quella componente umana che sconosceva.

L’inverno passò così, abbellito da incontri segreti nelle ore più sicure. Rangetsu le fece vedere per la prima volta in vita sua cose meravigliose: bacche rosse dal sapore dolciastro, fiori di indubbia bellezza e dal profumo delizioso, soffici fiocchi utilizzati per decorare i capelli e fotografie di volti sconosciuti. Ma tra tutti, il regalo sicuramente più apprezzato da Ill fu un velo rosso come il sangue: un mantello provvisto di cappuccio, che tanto le ricordò la fiaba di Cappuccetto Rosso.

«E tu saresti il mio lupo?» rise lei, cristallina e felice mentre lo indossava, scoprendone la calda lana che per un attimo le trapassò con una fitta il cuore: era come venir abbracciati.

Non ricordava d’esser mai stata abbracciata in tutta la sua vita.

«Se ricordo bene quella favola… al di là dell’allegoria delle due strade, lui aveva il compito di mostrare alla bambina un mondo diverso dal suo. In tal caso potremmo dire di sì.» rispose lui, inclinando verso l’alto gli angoli della bocca.

Ill amava quando sorrideva: i suoi occhi celesti diventavano più sottili e limpidi, trasmettendole una sensazione di benessere. Cominciava a scoprire dentro di sé uno sconfinato amore, che voleva donare a Rangetsu.

Il sopraggiungere della primavera rese il giardino un crogiolo di forti fragranze di fiori e pesche; Ill non aveva mai prestato troppa attenzione alla natura artificiale della serra, dove gli altri abitanti della casa si dilettavano a ricreare ambienti floreali non tipici dell’Inghilterra, ma adesso quei boccioli colorati esercitavano su di lei un certo interesse.

La signora poi aveva una strana passione per le rose, il cui rosso però agli occhi di Ill impallidiva se messo a confronto con quello degli higanbana, che Rangetsu le presentò come tipici della terra dei suoi antenati, nel profondo oriente. Quelli erano in breve diventati i fiori preferiti della ragazza.

Un giorno, infine, arrivò quella proposta.

«Scappiamo insieme.»

 

***

 

Ill fissava il suo riflesso nello specchio, stentando a riconoscersi. Aveva raccolto i lunghi capelli castani in una lunga treccia, a sua volta arrotolata sulla nuca, in modo che quelle poche ciocche che sfuggivano al suo controllo non fossero d’impiccio alla visuale.

Con indosso il mantello regalatole da Rangetsu sembrava lei stessa un higanbana.

Aveva rubato tutto ciò che era stata in grado di rubare dai risparmi del padrone di casa, atteso poi che tutti si ritirassero nelle loro stanze prima di abbandonare la propria, lanciando un ultimo sguardo, timoroso e nostalgico ma al contempo emozionato, alle sue poche cose: una spazzola di legno sulla sedia, una Bibbia rilegata in nero sul comodino, dei fiori sulla via della morte in un vaso di vetro, che proiettavano la propria ombra sul pavimento come lunghe dita adunche.  

Voltò le spalle e abbandonò tutto ciò che aveva in favore dell’ignoto.

Come ogni principessa che si rispetti, aveva fissato l’appuntamento col suo principe presso il cancello allo scoccare della mezzanotte. Scese le scale del secondo piano ed attraversò i corridoi della casa percorsa da una strana euforia che le solleticava la pelle; ogni passo le sembrava troppo rumoroso, tanto da farla procedere nascosta nelle tenebre e temendo che la luce della luna potesse tradirla ad ogni finestra in cui si imbatteva.

Nessuno però sembrò notarla, nessuno forse l’aveva mai notata veramente.

Giunta nelle cucine raggiunse l’uscita di servizio, che aprì con un sonoro girare di vecchie chiavi arrugginite nella toppa della porta. L’aria fredda della notte la investì come uno schiaffo, facendola per un momento tentennare; non aveva rivolto neanche un pensiero a cosa sarebbe stato di lei dopo la fuga, se significava però vedere anche solo per un attimo il mondo su cui aveva solo fantasticato per tutta la vita, le andava bene essere riacciuffata subito.

Ripercorse con la mente i calvari dolorosi di quei poeti e scrittori che erano interiormente morti dopo essere stati privati della bellezza della natura. La prospettiva di fare la loro stessa fine aveva qualcosa di affascinante agli occhi di quella scervellata incosciente, tuttavia continuò a ripetersi con ostinazione che Rangetsu l’avrebbe protetta.

E così abbandonò per sempre quella casa.

Stretta nella sua mantella scarlatta, Cappuccetto Rosso giunse presso il cancello, al di là del quale il lupo le sorrise coi suoi occhi celesti.

«Hai la chiave?»

«Sì.»

«Fai piano…»

Il cancello scricchiolò così forte che il cuore di Ill per un momento si fermò: era impossibile che non l’avessero sentito, e a conferma di ciò una luce al secondo piano illuminò la notte.

«Scappiamo!» esclamò Rangetsu, stringendole la mano e strattonandola verso di sé.

Ill avrebbe voluto stringerlo in un abbraccio ora che finalmente ne aveva l’occasione, ma la fretta e la paura la spinsero ad attraversare il tappeto di foglie sul terreno ed avventurarsi assieme a lui nel bosco nero.

Alcune urla straziarono l’aria dietro di loro, ma Rangetsu non lasciò mai andare la sua mano. Quella di lui era calda, grande e molto forte.

«Londra non è lontana, saremo lì in un’ora!» le disse, con un sorriso luminoso sul viso.

La ragazza si abbandonò a una risata felice: non si era mai sentita tanto libera! La selva intorno a lei sembrava viva, sentiva la linfa scorrere in ogni ciuffo d’erba, in ogni tronco e in ogni animale notturno che si muoveva rapido al loro passaggio.

Gridi di gufi e civette si levavano dalle fronde scosse dal vento; quei movimenti improvvisi acceleravano di qualche passo la loro corsa sfrenata, aggiungendo altra paura a quella generata dalla fuga verso il nulla e dal buio.

L’euforia cominciò rapidamente a sfiorire, assieme all’aggravarsi della respirazione, che diventava più faticosa di minuto in minuto. Erano ormai distanti dalla casa sul lago, quest’ultimo poteva ancora essere scorto in lontananza attraverso l’intreccio di alberi, e solo ora la natura iniziava ad assumere quelle tetre e inquietanti forme che richiamarono alla mente di Ill innumerevoli descrizioni dei suoi romanzi preferiti.

“Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da queste macerie di pietra?” ecco Eliot e la sua terra deserta che tanto aveva amato, che nell’insicurezza della notte faceva apparire tutto come ostile e pronto a saltarle addosso, aggredirla, morderla, sbranarla.

I suoi occhi grigi si riempirono di paura.

Stava cedendo alla suggestione. Ogni singolo passo nel buio era come essere avvolti da gelide mani di spettri che si allungavano dai tronchi, dalla terra stessa, dal cielo addirittura; neanche alla luna era permesso penetrare in quel luogo con la sua pallida luce bianca. Ill le sentiva attorno a loro, presenze meschine e pericolose: li guardavano attraverso la vegetazione, li seguivano coi loro occhi rossi come il suo mantello. Aspettavano solo il momento giusto per assalirli.

Il mondo iniziò a girare.

Lei si fermò, tremando dalla testa ai piedi «Rangetsu!» chiamò il ragazzo, che nel buio assumeva contorni allungati, una forma selvatica che la faceva fremere: non aveva mai visto il suo vero volto fino ad allora. Ne era sicura.

«Che succede, Ill?» le chiese lui con un sorriso a mezzaluna «Non avrai paura?»

«Sì che ne ho!» ribatté lei, la voce così bassa da non sembrare neanche la sua «Dove mi stai portando?»

Per un attimo lo vide metter su un’espressione basita, poi si rilassò «Come sarebbe a dire? A Londra, te l’ho già detto. Capisco che tu abbia paura, ma ci sono io, d’accordo? Fidati di me.»

Fidati di me, fidati di me…

Perché non riusciva più a fidarsi di lui? Perché proprio ora? Socchiuse le labbra per ribattere, ma alle sue spalle le grida di chi abitava con lei la fecero sobbalzare.

«Ci stanno braccando?!» mormorò, prima che Rangetsu la prendesse di nuovo per un polso e la trascinasse via con sé. Ill non seppe ribellarsi, per quanto il giovane le sembrasse improvvisamente estraneo, infatti, lo reputava ancora il suo unico alleato, l’unico disposto a farla fuggire dalla sua prigione.

Pregò solo di non dover fuggire anche da lui successivamente.

Vagarono nel bosco ancora a lungo, fin quando le gambe non iniziarono a far male, i respiri ad essere rochi e la pelle gelida. Ill aveva smesso di ragionare, si lasciava guidare e rassicurare da lui, che di tanto in tanto si voltava per assicurarsi che stesse bene o ripeterle che ce l’avrebbero fatta.

Mezz’ora più tardi, quando furono certi di aver seminato i loro inseguitori, Rangetsu le concesse qualche minuto di riposo in una radura da cui potevano vedere il cielo stellato.

Entrambi crollarono a terra stremati, Ill con le piccole mani ghiacciate strette sull’erba coperta di brina cristallina. Non aveva più emesso un solo suono e Rangetsu cominciava a preoccuparsi.

Quando si voltò a controllarla, Ill aveva il viso rigato di lacrime e rivolto verso la luna.

Le si avvicinò immediatamente, posandole una mano sulla spalla «Ill.» la chiamò, senza però ricevere risposta, al che la strattonò con delicatezza «Ill.»

Ill si riscosse in quel momento, sbattendo le lunghe ciglia ed incurvando le strette spalle; quando Rangetsu fece per prendere la parola, lei lo precedette chiedendo «Qual è il tuo vero nome?»

«Hm?» non aveva dunque mai creduto che si chiamasse davvero così? L’idea stranamente fece sorridere il giovane dai capelli rossi, che ribadì «Rangetsu, davvero. Rangetsu River. Mio padre è inglese e mia madre giapponese, perciò ho un nome così strano.»

La spiegazione sembrò convincerla finalmente, dopo un momento di insicurezza i suoi occhi si rasserenarono. Rangetsu le asciugò con il lembo della manica le lacrime e il sudore che le imperlava la fronte, poi, premuroso, le riscaldò le mani soffiandoci sopra.

«E tu? Non mi hai ancora detto il tuo nome.»

«L’unico nome che ho è Ill.» rispose lei prontamente «Non ho mai avuto cose come una famiglia o un nome. Loro mi hanno sempre chiamata così, quindi io…»

«Ho capito.»

“Ill” era una delle poche cose veramente sue, ma che al contempo non le appartenevano. Ciò diede a Rangetsu un’idea «In questo caso, che ne dici se decidessimo insieme il tuo nome?»

Probabilmente neanche facendole una proposta di matrimonio l’avrebbe resa altrettanto felice; dare un nome a qualcosa era un gesto con troppi significati intrinsechi per elencarli tutti, Ill lo aveva imparato dai libri. Abbandonò così per sempre quel triste nomignolo dato con inaudita crudeltà, attendendo pazientemente di sapere chi da quel momento sarebbe stata.

«Qualcosa che non si allontani troppo da Ill.» chiese, non volendo comunque chiudere in un cassetto ogni parte di sé.

Rangetsu si chiuse in un silenzio concentrato che durò diversi minuti, durante i quali la giovane si abbandonò al piacere dell’attesa. La pelle formicolava, il respiro era istintivamente diventato basso e sottile, fremeva dalla testa ai piedi.

Ma che ne era stato della paura della notte?

Rangetsu non se ne rendeva ancora conto, ma qualcosa in lei era cambiato durante quella corsa. Le sue iridi erano più spente di prima, lo sguardo più vuoto e i gesti stranamente fluidi: si muoveva come l’acqua.

Quando lui sollevò di nuovo la testa e sibilò il nome che aveva scelto, lei gli accarezzò la guancia con le mani fredde, poi annuì: quello sarebbe stato il suo nuovo nome, era perfetto.

«Staremo insieme per sempre?» domandò allora la nuova lei, improvvisamente dolce.

Quella domanda era strana, se avesse avuto il tempo di notarlo forse Rangetsu avrebbe capito l’enorme errore che stava per commettere e quelli che aveva già commesso.

«Sì, se lo vuoi.»

Portarla via da quella casa in cui era segregata.

«Lo voglio, sì.»

Fidarsi di una giovane sconosciuta dall’aspetto di Cappuccetto Rosso, che nel sorridergli mostrò una luce inquietante negli occhi. Ella strinse la presa su di lui, ora forte come Rangetsu non avrebbe mai sospettato.

Qualcosa in Rangetsu traballò: la sicurezza di aver fatto un’opera buona a liberare quella povera prigioniera dalla sua detenzione.

Quando le unghie della bruna penetrarono la sua carne, capì d’aver liberato il vero lupo dalla sua gabbia.

«Insieme, per sempre.»

 

 

***

 

Pochi giorni più tardi…

Lo strillone agitava i suoi giornali al vento, quasi sbattendoli in faccia a chi aveva la sfortuna di passargli vicino. Le strade di Londra erano incredibilmente caotiche in quelle fresche mattine primaverili.

«La paura continua a dilagare!» si sgolò il giovanotto dal volto coperto di lentiggini, finché qualcuno finalmente non si fermò a chiedergli una copia di uno dei quotidiani locali.

Strizzò gli occhi per un momento, chiedendosi come mai una fanciulla dall’aspetto tanto gentile girasse da sola; ebbe l’accortezza di non fare domande, vendendole con un piccolo sconto la copia richiesta. Con un sorriso dolce, la giovane ringraziò e si allontanò in direzione del porto.

Tenne sottobraccio il giornale fin quando non superò la folla brulicante e salì sulla poderosa nave pronta a solcare le acque: quel giorno avrebbe detto addio all’Inghilterra, destinazione New York.

Scese nella piccola cabina di terza classe che si era potuta permettere. Il suo sacchetto di monete era ancora gonfio, abbastanza da farla sperare nel futuro. E poi si era scoperta eccezionalmente fortunata nel gioco d’azzardo, per la sfortuna di quei poveracci che avevano finito per pagarle il viaggio.

Appoggiò il cappello bianco sul letto e finalmente si sedette a leggere, andando dritta all’articolo che le interessava.

 

“Londra. Ancora nessuna traccia del colpevole dell’orribile delitto verificatosi quattro giorni fa nella campagna a nord della capitale inglese.

I proprietari della poco distante casa di cura St. Agatha hanno denunciato la scomparsa di una dei pazienti. La ragazza, rispondente al nome di Ill, era stata internata ancora in tenera età a causa di gravi problemi di schizofrenia. Si sospetta possa essere proprio ella la vittima dello spaventoso caso di cannibalismo avvenuto quella stessa notte: i resti della vittima, tuttavia, sono risultati troppo danneggiati dal successivo incendio appiccato al corpo per decretarne le generalità.

I responsabili delle investigazioni affermano che non divulgheranno i particolari fin quando non ci saranno ulteriori progressi. Nel frattempo, la sicurezza nella città di Londra è stata raddoppiata nelle ore notturne.”

 

Terminata la lettura, la ragazza sorrise e si carezzò il ventre, ripetendo teneramente «Per sempre insieme.»

Un’ora più tardi, la nave salpò alla volta del nuovo mondo, lasciandosi alle spalle una Londra impaurita. Quando l’Europa e gli orrori della seconda guerra mondiale furono solo un ricordo e la caotica New York fu davanti ai suoi occhi, la giovane sollevò una mano dal ponte della nave per salutare la città.

Un mozzo più giovane di lei rise, divertito da quel gesto, e commentò «È una cosa che fanno in tanti, sai? Salutare la città.»

Lei abbassò sulla testa il cappuccio scarlatto del suo mantello ed annuì «È l’inizio di una nuova vita! Perché non dovrei essere felice?»

Quella brunetta doveva avere qualche rotella fuori posto, si disse il giovane, ma non seppe resistere alla curiosità di sapere chi fosse «Come ti chiami?»

Un momento di silenzio intercorse, prima che ella pronunciasse quel fatidico nome, che si perse nel vento e nei rumori del porto «River. Jillian River.»    

 

 

 

  
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