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Autore: Francine    14/03/2016    5 recensioni
Certo, il bidone di Clyde non sarà il camino dell’Avenger Mansion, ma quando Marzo ti morde le chiappe – e Marzo lo sa fare molto, molto bene – nessuno è così schizzinoso da rifiutare un po’ di calore. Nemmeno J. Jonah Jameson, pensa Gwen, le dita protese verso le fiammelle striminzite che faticano a raggiungere l’orlo del bidone.
«Non verrà», bofonchia Clyde, allungando le mani. «E scommetto che gradirebbe un cheeseburger come si deve, non una tazza di tè.»
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Peter Parker
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Spiderman, Stan Lee, Steve Dikto, Amazing Fantasy, 1962.
L'Uomo Ragno e tutti gli altri personaggi citati in questo scritto sono proprietà della Marvel Comics.
Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite
permesso scritto.


1.
 

Ma come puoi far entrare una vita intera dentro un paio di scatole di cartone?
Come puoi riuscirci?
Eliminando il superfluo, certo. A ben spulciare, c’è sempre qualcosa che abbiamo tenuto perché non si sa mai. Fa anche bene, dicono. Ché a tenere quelle cose – quelle zavorre – la mente non si sgombra e non ci consente di ragionare con lucidità.
Gwendolyn l’ha fatto. Ha aperto armadi e rovesciato cassetti, tirandone fuori le proprie zavorre. Una gonna troppo stretta, un paio di stivali dalla punta troppo acuminata, una collezione di tazze spaiate. Ma quando ha ammucchiato tutto dentro ad un paio di sacchetti  e li ha depositati nel cassonetto sottocasa, la sua mente non si è liberata. Affatto. È corsa di nuovo allo stesso nodo.

Come posso far entrare una vita intera dentro ad un paio di scatole di cartone?

Eppure, ha dovuto farcela. La banca le ha dato quarantottore di tempo per cercarsi un altro posto, molte grazie e scusi il disturbo.
Ma lei dove sarebbe andata?
Come avrebbe fatto?
Da che parte avrebbe cominciato?
Matthew avrebbe trovato una soluzione, ma Matthew non c’era più, quindi no, Matthew non poteva risponderle. Avrebbe dovuto pensarci da sola. I mobili e le librerie e i soffitti alti, altissimi del suo piccolo appartamento a Forest Hills le sono sembrati bassissimi, quasi volessero soffocarla. I libri di Matthew. I cd di Stephen. Le bambole di porcellana. I quadri alle pareti. Le foto. Il servizio da tè.
Gwendolyn s’è trovata spaesata, come una bambina che si perde al Luna Park e si guarda intorno in cerca di qualcosa. Una voce amica. Una mano da stringere. Un segnale. Qualcosa, perdio!
Ma solo la pendola – toc toc toc – sembrava esistere in quel corridoio lungo e stretto. Così Gwen si è rannicchiata su se stessa, si è messa le mani nei capelli e ha pianto.
 

2.

 
Gli scatoloni non sono pratici, quando vivi per strada.
Meglio le borse della spesa. C’entra più roba. Le puoi piegare. Le puoi lavare. Non si rompono. E di borse di plastica dai manici larghi, Gwen ne ha comprate moltissime. Perché aveva il vizio di scendere a fare la spesa, dimenticandosele a casa. Impilate nello stanzino, accanto al lucido per le scarpe e ai rotoli di carta igienica.
Adesso le sembra uno spreco. Adesso pensa che, mettendo assieme tutti quei novantanove centesimi, potrebbe permettersi un cheeseburger ed una porzione di patatine. O magari un Happy Meal, con le sorpresine settimanali. A Gwen piacciono le chincaglierie, come le chiamava Matthew. Sono la tua droga, le diceva, e anche adesso conserva gelosamente quei due o tre ninnoli che ha trovato nel pacchetto. Un pupazzo di Star Wars. Una sirenetta. Una macchina col sorriso ammiccante. Anche una clochard ha diritto ad un po’ di zavorra da conservare con cura in una tasca della borsa viola. Per restare ancorata a questa vita.
Ha stipato cinque buste affidandosi ai ricordi di quand’è stata una giovane esploratrice – una vita fa. Cinque, ché non puoi caricarti troppo, quando giri a piedi. Le altre le ha portate all’Esercito della Salvezza riempite di cose spaiate. Avrei dovuto farlo da tempo, ha detto alla ragazza molto educata che l’ha ringraziata di cuore, e mentre guardava le sue mani curate e lo smalto rosa confetto, Gwendolyn nascondeva le sue nelle tasche del soprabito. E s’è chiesta se ci sarebbe stata un po’ di Salvezza anche per lei.
Le sarebbe bastato che quell’autunno non fosse troppo ventoso. E di trovare un riparo entro Dicembre. Ma qualcuno, lassù al Reparto Desideri, doveva essere in pausa, e non l’hanno sentita. Così, Jamaica Station – i dintorni di Jamaica Station – è diventata la sua nuova casa. Non è un brutto posto. I passanti ti ignorano – e al terzo giorno Gwen ha deciso che non era poi così sgradevole. Se loro non vedevano la sua miseria, perché avrebbe dovuto badarci lei? – e quando fa freddo i corridoi delle stazioni sono caldi a sufficienza per passarci la notte. Lei e le sue cinque buste in cui ha stipato la sua vita.
Gli scatoloni non sono pratici, quando vivi per strada.


3.

Molta gente pensa che i clochard non si tengano aggiornati.
Gwen non ha più una pagina Facebook o un account Twitter o qualsiasi altra diavoleria che possa essere spuntata fuori in questi ultimi quattro anni. E anche quando ce li avevo, pensa, non è che li usassi poi questo granché. Perché Gwen è una ragazza fuori tempo massimo. E stare al passo coi tempi non è stato proprio facile, per lei, che ha lasciato il lavoro per crescere suo figlio Stephen. Per farne un buon americano che credesse alle favole del governo e andasse a morire da qualche parte attorno a Kabul, in una missione di pace.
No, Gwen non ha nessun account sui social network, nessun amico virtuale, nemmeno mezzo tweet da rilanciare nell’etere telematico. Zero proprio. Eppure, Gwen si tiene informata. A sera legge i giornali che racimola al parco, durante il giorno. E pazienza se non saranno edizioni fresche di stampa; una notizia non scade, come il latte o i surgelati. Purtroppo, l’americano istruito adesso consulta l’edizione digitale, e quando Gwen si ferma a leggere gli strilli davanti all’edicola della stazione, McTaggart la scaccia sbattendo le mani. L’unico quotidiano che riesce a trovare è il Daily Bugle, ma quello Gwen lo ha sempre considerato buono per riempirci le scarpe prima di metterle ad asciugare accanto al termosifone.
La verità è che Jameson la infastidisce. Lui, la sua miopia e le sue campagne denigratorie contro gli eroi in calzamaglia. Si chiede perché. Eppure, loro fanno qualcosa, giusto?
La verità è che Jameson guarda, ma non vede, tutto preso com’è a rispettare Capitan America e a spalare fango su chiunque gli capiti a tiro. Gwen, invece, vede, anche se i suoi occhi non sembrano essere molto lucidi ed affacciati su questa realtà. Gwen vede, anche quello che non vorrebbe vedere. Soprattutto quello.
Di tristezza, ne è pieno mondo, e a volte il cuore degli esseri umani sembra un pozzo senza fondo. Gwen ha lasciato che il suo cuore si perdesse in un abisso limaccioso e oscuro. Un lago di tristezza in cui sprofondare fino al giorno in cui qualcuno non l’avrebbe trovata, all’angolo di una strada con le sue cinque borse strette tra le braccia, il cappello calcato in testa e il cuore fermo.
Ma a guardarla bene, questa vita è bella. Questa città è bella.
Luccica, come le vetrine di Macy’s sotto Natale. O come l’Empire, visto dal Ponte.
E gliel’ha ricordato lui. Gliel’ha dimostrato quando ha cominciato ad acchiappare i furfantelli e i pesci piccoli. Quelli che si divertono a tirare il collo ai gatti, a borseggiare i passanti o a riempire di sputi e insulti e spintoni una clochard con tutta la sua vita dentro cinque borse colorate. Un momento prima, le erano attorno, ridacchiando e passandosi una bottiglia mentre lei gridava, invano, che qualcuno l’aiutasse. Un momento dopo erano loro a strillare come agnelli al macello, legati a testa all’ingiù ad un palo della luce, la bottiglia abbandonata nello scolo dell’acqua piovana.
«Tutto bene, signora?», si è sentita chiedere.
Lui era dietro di lei, a guardarla con quei suoi occhi bianchi cerchiati di nero, appeso ad un filo come fanno i ragni. Gwen è sempre stata aracnofobica a livelli preoccupanti, eppure non ha avuto paura. Esiste davvero, si è detta osservando il suo costume rosso e blu. Esiste. Ed è a malapena un ragazzo, ha pensato, annuendo e sistemandosi il cappotto.
«Che sollievo», ha replicato lui, saltando giù dal muro e avvicinandosi. «Venga. L’accompagno in un posto più sicuro», ha detto, prima di chinarsi per aiutarla a raccogliere le sue cose.
«Lascia!», ma è stato un gesto istintivo, quello di Gwen; un gesto dettato dalla paura e dalla vergogna. E dalla gelosia. Il suo soprabito estivo, le sue scarpe pesanti, la teiera di ghisa ammaccata, una foto di Matthew ai tempi dell’università. Era la sua vita quella che stava sparsa su quel marciapiede male illuminato, come se qualcuno avesse rovesciato il contenuto di una borsetta alla ricerca di qualcosa. Le chiavi di casa, ad esempio. Non lo diceva anche Matthew che le chiavi sono sempre le prime a partire per il paese del non-ritorno?
«Mi scusi. Non volevo», ha detto il ragazzo. Congelato – fulminato – con le mani a mezz’aria.
«Fatti gli affari tuoi!», ha strillato; ma non era la vera Gwen, a parlare, nossignore. Era la sua paura. Era il latrato di un cane rabbioso e impaurito che azzannerà la mano che vuole accarezzarlo. Era la vergogna di farsi vedere debole e impaurita e.
«Mi scusi ancora. Faccia attenzione», s’è raccomandato il ragazzo, prima di schizzarsene via saltando da un palazzo all’altro, lasciandola sola e mortificata a cercarsi le parole giuste da dire nelle tasche bucate del cappotto.
 «Aspetta!!», ha gridato. «Torna indietro!», ha detto – ha piagnucolato – mentre il vento le portava l’odore salato delle lacrime. «Non lasciarmi sola…»
E lui è tornato, dondolando appeso a quel filo bizzarro.
«Scusami!», gli ha detto. Torcendosi le mani dal dispiacere. «Scusami… Io… Non hai fame?», gli ha chiesto.
«Non si disturbi», ha risposto lui, una mano come a dire, non c’è problema, davvero. Ma Gwen è sempre stata testarda. E ha insistito.
«Nessun disturbo», gli ha detto. Raccogliendo un pacchetto di Oreo dalla busta gialla e porgendoglieli con la mano tremante.
 

4.

Jameson lo chiama Uomo Ragno e non nasconde il fatto che lo consideri una calamità a piede libero. Invece, Gwen sa che l’Uomo Ragno è l’angelo custode di quelli come lei. Quelli che non vede nessuno. Quelli che non hanno nulla da dargli in cambio, se non un paio di grazie ed un sorriso sincero. Gwen lo aspetta, ché lui esce di sera, quando i furfanti sgattaiolano fuori dalle loro tane come tanti scarafaggi.
Joey, Cindy ed Etta non le credono. Hanno paura, loro; ma solo perché non lo hanno visto volteggiare per i tetti, saltando da un palazzo all’altro, la sera. Non lo hanno visto aiutare la gente, durante la crisi aliena. Non conservano due bustine di tè in una tasca della borsa gialla – quella dove conserva il cibo – per lui. Perché non si sa mai quando ad una persona può servire una tazza di tè. In fondo, anche lui è umano, giusto? E anche a lui, magari, potrà servire scambiare due parole con qualcuno, davanti ad un bel fuoco scoppiettante mentre si scalda l’acqua e il mondo ci fa la cortesia di aspettare.
Certo, il bidone di Clyde non sarà il camino dell’Avenger Mansion, ma quando Marzo ti morde le chiappe – e Marzo lo sa fare molto, molto bene – nessuno è così schizzinoso da rifiutare un po’ di calore. Nemmeno J. Jonah Jameson, pensa Gwen, le dita protese verso le fiammelle striminzite che faticano a raggiungere l’orlo del bidone.
«Non verrà», bofonchia Clyde, allungando le mani. «E scommetto che gradirebbe un cheeseburger come si deve, non una tazza di tè.»
«Verrà», dice Gwen. E se proprio vorrà un cheeseburger, beh, ce ne procureremo un paio grazie ai coupon del giornale di qualche giorno fa. Magari, anche un Happy Meal, pensa. Aspettando. Stringendo vita, cuore e sogni in cinque buste della spesa.


 al mio Tigrotto, con amore.
   
 
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