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Autore: Ire_2002    16/03/2016    1 recensioni
Skyward Sword
Vi siete mai chiesti quale sia il passato del Link di Skyward Sword, come sia arrivato alla scuola d'armi e come abbia conosciuto Zelda?
Se, come me, vi siete fatti questa domanda almeno una volta, potrete trovare qui la risposta.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Link, Princess Zelda
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Io e mio padre vivevamo in una piccola casa al di sotto di Oltrenuvola. Le altre erano più in alto, dove la terra era pianeggiante e l'erba cresceva, mentre la nostra si aggrappava alla roccia al di sotto del villaggio, sospesa sopra il vuoto. Però mi piaceva.
Mia madre se n'era andata quando io ero nato, così mio padre mi aveva cresciuto da solo.
Lui era uno dei cavalieri che pattugliavano il cielo durante la notte, uno dei migliori che Oltrenuvola avesse mai visto.
Era il mio eroe.
Non avevamo molto, ma l'uno a aveva l'altro, ed era tutto ciò che importava.
Quella sera io ero sul suo letto, con il casco di mio padre tra le mani. Sapevo che un giorno sarebbe stato mio, volevo diventare come il mio eroe. Mi piaceva tenerlo tra le mani ed osservarlo, era un oggetto importante. Passai le dita sulle due grandi lenti di vetro, mentre mio padre entrava nella stanza.
Mi somigliava, avevamo gli stessi capelli di un colore tra il castano e il biondo, e gli stessi occhi azzurri. Aveva un poco di barba sul mento, e un'espressione calma, che mi infondeva sempre un senso di pace.
Saltai giù dal letto, sorridendo, e porgendogli il casco. Lui lo prese, scompigliandomi delicatamente i capelli, e se lo mise in testa.
Anche se usciva tutte le notti la cosa non mi spiaceva, perché sapevo che il giorno dopo l'avrei rivisto, e che durante la notte aiutava a mantenere la sicurezza ad Oltrenuvola.
Lo seguii, come ogni volta, tenendo la mia mano stretta alla sua, ero ancora talmente basso da dover sollevare quasi del tutto il braccio per potermi tenere a lui.

Quella notte era stato chiamato per una missione speciale. Mio padre mi aveva detto che era qualcosa di molto importante.
Arrivati alla piazza da cui di solito partivano i cavalieri vidi mio padre, di fianco a me, portare due dita alla bocca, fischiando con forza.
Spalancai gli occhi, assumendo un'espressione affascinata, mentre il solcanubi di mio padre si avvicinava, con le grandi ali spalancate, emergendo dal buio della notte.
I solcanubi mi attiravano come non mai, erano animali davvero magnifici, e io non vedevo l'ora di averne uno.
L'uccello atterrò davanti a noi, e a causa dello spostamento d'aria i miei capelli iniziarono a muoversi, scostandosi rapidamente dalla mia fronte.
L'uccello chiuse le ali, osservando me e mio padre con i suoi occhi dorati ed intelligenti.
Insieme agli altri cavalieri, che si trovavano qua e là nella piazza a salutare i parenti e a preparare i propri destrieri, mio padre sistemò il casco del solcanubi e vi salì in groppa, mentre io restavo a terra, osservandolo dal basso.
Nella piazza si sentiva un lieve brusio, tra le mogli che raccomandavano ai rispettivi mariti di stare attenti, i bambini che si affrettavano ad abbracciare i propri genitori, o provavano ad accarezzare il corpo coperto di morbide piume dei solcanubi.
A salutare mio padre erano venute altre tre persone, che non conoscevo se non di vista, stavano tutti vicini, a pochi metri da me, erano evidentemente una famiglia.
Il primo che notai fu un uomo dalla corporatura un poco grassoccia, quasi del tutto calvo e con due spesse sopracciglia bianche come i baffi, sapevo chi era, si trattava del direttore della scuola d'armi.
C'erano poi una donna un poco più bassa di lui, dai lunghi capelli biondi, e una bambina che sembrava somigliarle parecchio, con i capelli corti, che si teneva aggrappata alla sua gonna.
Mio padre alzò il pollice verso l'alto, abbassandosi il casco, e ci salutò tutti e quattro.
Disse che sarebbe tornato presto, e si sollevò in cielo, mentre io lo salutavo, agitando la mano, e seguendolo con lo sguardo fino a quando le ombre della notte non ebbero inghiottito lui e gli altri cavalieri. Non notai però due occhi che mi osservavano, poco dietro di me.

Mio padre, insieme ad un gruppo dei migliori cavalieri, si diresse verso il Cumulonembo.
Era il loro capitano.
Uno stormo di mostri si stava dirigendo verso Oltrenuvola, e la squadra di mio padre era stata mandata a fermarli prima che attaccassero il villaggio.
Lui li condusse in battaglia valorosamente, buttandosi nell'orda di mostri.
E, per tutta la notte, la battaglia proseguì.
Questo è quello che mi è stato raccontato.

A casa, io ero rimasto sveglio, ad aspettarlo. Ero appoggiato alla ringhiera della passerella in legno che collegava la mia casa con il resto di Oltrenuvola, e non avevo mai distolto lo sguardo dal cielo.
Avevo fiducia in mio padre, sapevo che sarebbe tornato. Non dovevo essere preoccupato per lui.
Eppure sentivo un enorme peso sul petto, che non voleva saperne di andarsene. Ma non c'era motivo di preoccuparsi, papà tornava sempre a casa.
Finalmente, dopo quella che mi sembrò un eternità, la squadra di mio padre tornò a terra. Vedevo le figure dei solcanubi attraversare il cielo notturno e andare verso la piazza.
Alzai lo sguardo, separandomi bruscamente dalla ringhiera, e iniziando a correre per venire incontro a mio padre, continuando a guardare il cielo.
Arrivato in piazza vidi i cavalieri, seguiti dai loro solcanubi. Aveva iniziato a piovere, e le fredde gocce d'acqua mi bagnavano i vestiti.
Nessuno parlava, e tutti mi passavano di fianco evitando il mio sguardo. C'era silenzio, un silenzio che non mi piaceva, carico di tensione.
Nessuna traccia di mio padre.
Iniziai a guardarmi attorno, a destra e a sinistra.
Piano piano la piazza diventò vuota.
Aspettai... e aspettai.
Ma lui non si fece mai vedere.
Sentii però una mano sulla mia spalla, e mi voltai, con un nuovo sorriso sulle labbra, pronto a salutare mio padre, a riabbracciarlo, a rivederlo.
Il mio sorriso però si spense subito.
Non era lui.
Il direttore della scuola d'armi mi fissava, con uno sguardo cupo.
Io abbassai le orecchie verso il basso, sperando che non lo dicesse.
Ma ormai un'orribile sensazione si era insinuata nel mio petto, e sapevo che forse per tutta la vita non me ne sarei mai liberato.
Il maestro della scuola d'armi mi mostrò l'oggetto che teneva tra le mani.
Il casco di mio padre era graffiato e ammaccato, con le lenti rotte. Me lo porse, e io lo presi tra le mani tremanti.
No.
Non poteva essere vero.
Non volevo crederci, lui non era morto davvero!
Gettai il casco a terra, e corsi verso la rampa da cui i cavalieri di solito partivano.
L'uomo tentò di afferrarmi per gli abiti, ma io fui più veloce.
Arrivai sull'orlo della rampa, portai le mani alla bocca e iniziai a chiamare mio padre, mentre la pioggia continuava a bagnare i miei vestiti, e a farmi sentire un freddo che mi gelava fino alle ossa.
Ma non m'importava.
Chiamai il suo nome nella notte, sperando che lui potesse sentirmi.
Le lacrime cominciarono a scendere lungo il mio viso, mentre io continuavo a gridare.
Ancora e ancora... Finché la mia voce non scomparve.

Quella stessa notte venne celebrato il funerale.
Non c'era un corpo, ma una lapide era stata comunque sistemata tra le altre. Mio padre però non c'era. Forse si trovava al di sotto delle nuvole.
Ma non mi importava.
Io ero seduto, le braccia sulle ginocchia, e non volevo avvicinarmi.
Non volevo vedere la sua lapid, sarebbe stato come ammettere che lui non c'era davvero più.
Mi trovavo in un angolo del cimitero, tra una cassa e il recinto, e guardavo verso il basso, sperando di non essere notato da nessuno.
Le lacrime continuavano a scendere ininterrotte, mentre diverse ciocche di capelli fradici si erano attaccate alla mia fronte. Piangevo in silenzio, senza emettere alcun suono.
Ad un certo punto, però, smisi di sentire la pioggia picchiettare sui miei abiti, e alzai lo sguardo.
La figlia del direttore della scuola d'armi era davanti a me, in piedi, e con un ombrello in mano mi stava difendendo dalla pioggia, bagnandosi però i corti capelli biondi.
Accennò ad un leggero sorriso, ed io la fissai negli occhi azzurri.
Mi porse la mano, ed io, dopo averla guardata per qualche secondo, allungai il braccio verso di lei.
Nella notte in cui persi tutto mi si avvicinò una persona che per me non provava solo indifferenza o pietà, ma compassione.
Zelda...

Zelda aprì la porta della stanza, ed io entrai, tenendo le mie poche cose tra le braccia.
Mio padre era un buon amico del direttore della scuola d'armi chemi aveva permesso di stare in una delle stanze del dormitorio. Anche Zelda ci viveva.
Mi guardai attorno, nella mia nuova stanza, ancora spoglia, con solo un letto, un tavolo, una sedia e un armadio.
Mi voltai verso Zelda, che si trovava dietro di me.
Sorrideva, cercando di sembrare allegra.
Le mie labbra si incurvarono leggermente verso l'alto. Zelda sembrava simpatica e mi teneva compagnia, era bello averla accanto.
Appoggiai le mie cose sul letto, sedendomi. Presi tra le mani il casco ormai inservibile di mio padre e iniziai a osservarlo.
Non potevo credere che lui non ci fosse davvero più... E faceva male sapere che non sarei più tornato a casa.
 Zelda andò ad aprire la finestra e si voltò verso di me, ancora con il sorriso sulle labbra, ma quel sorriso presto si spense.
Una lacrima mi solcò il viso, e Zelda si avvicinò a me, prendendomi delicatamente il viso tra le mani, per poi stringermi a sé. Restai un attimo rigido, ma poi ricambiai l'abbraccio.

Passarono due anni da quella notte.
Durante tutto quel tempo avevo imparato a lavorare il legno come mio padre mi aveva insegnato.
Era giorno, e la luce entrava dalla finestra della mia stanza, illuminandola. Avevo in mano un pennello, e avevo quasi finito il mio lavoro. Dovevo dare solo un paio di pennellate. Con un paio di rapidi movimenti colorai l'ultima parte che ancora non avevo dipinto.
Osservai per bene la mia opera. Alla fine il risultato era qualcosa di grossolano, ma era pur sempre il mio lavoro migliore. Avevo scolpito un solcanubi, grande come la mia mano. Era il mio regalo per Zelda, per ringraziarla per tutto ciò che aveva fatto per me.
Saltai giù dal letto, su cui ero seduto, e corsi per il corridoio, con il mio regalo tra le mani.
Comunque... Qualcosa quel giorno non andava ad Oltrenuvola. Mi avvicinai alla porta della stanza di Zelda, ma il mio sguardo fu attirato dalla porta del direttore, lasciata socchiusa.
Mi avvicinai lentamente, e ciò che vidi fece subito spegnere il mio sorriso.
Zelda era seduta su una sedia, con le braccia appoggiate sul letto dei genitori, il viso contro il materasso. Sentivo i suoi singhiozzi anche da dove mi trovavo.
Suo padre le poggiava una mano sulla schiena, con la testa bassa.
E sdraiata sul letto c'era la madre della mia amica. Era a pancia in su, con le mani sul petto e un'espressione debole.
Una terribile epidemia era arrivata ad Oltrenuvola, e la madre di Zelda non poté combattere a lungo contro la malattia.
Restai lì, fermo, sulla soglia, con la testa bassa.
La madre di Zelda sembrava addormentata... ma non si sarebbe svegliata mai più. Se ne andò silenziosamente, come aveva fatto anche lui.

La madre di Zelda fu la prima di molti che la seguirono subito dopo, lasciandosi dietro famiglie spezzate.
Anche quel giorno pioveva, ed io ero all'ingresso del cimitero, con un ombrello in mano.
Zelda era lì, davanti alla tomba della madre, in ginocchio. Non potevo vederla in viso, ma doveva avere la stessa espressione che avevo avuto io due anni prima.
Mi avvicinai, senza fare rumore, e le riparai la testa fradicia con l'ombrello.
Si voltò verso di me, con gli occhi colmi di lacrime, e io le sorrisi, proprio come lei aveva fatto con me.
Le porsi la mano, e tra le lacrime anche lei sorrise. Mi prese la mano e mi abbracciò.
Non tutto era perduto.
Adesso l'uno aveva l'altro.
Ed era tutto ciò che importava.

Passarono parecchie settimane.
Io e Zelda eravamo andati fuori a cercare il suo Remlit, Mia, ma qualcosa non andava. Io ero sulla cima di una collina, e mi guardavo attorno per cercare il piccolo animale, mentre Zelda era più indietro, all'ombra di un albero.
Mi voltai verso di lei, e vidi che si appoggiava debolmente al tronco dell'albero.
Non sembrava riuscire ad alzarsi, e sembrava esausta.
Corsi giù per la collina, raggiungendola, e fu in quel momento che capii che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato in lei.
Chiamai aiuto, e la portai a casa.

Passarono un paio di giorni, e Zelda si sentiva mortalmente malata.
Malata della stessa malattia che aveva preso sua madre e tante altre persone. Ero seduto su una sedia, di fianco al suo letto, tra le mano tenevo quelle verdi piantine dai fiori a forma di cuore, che donano energia, e Zelda era davanti a me, ma sembrava addormentata.
Era pallida, troppo pallida, e aveva un'espressione stanca e sofferente. Non riuscivo a sopportare l'idea che soffrisse tanto, e che io non potessi fare nulla. Quei fiori non servivano a niente in certi casi.
Non potevo perdere Zelda, non lei...
Lei era la mia famiglia.
Ero rimasto sempre con lei, ogni giorno, e pregavo perché non mi lasciasse anche lei.
Le presi la mano, e iniziai a singhiozzare, appoggiando il viso sul materasso.
Poi... Sentii l'altra sua mano sfiorare la mia.
Alzai lo sguardo, e incontrai il suo.
Quel giorno si svegliò, e mi disse che non mi avrebbe lasciato.
Avevano finalmente trovato una cura.
I suoi occhi erano stanchi, ma le sue labbra erano incurvate in un sorriso. Sorrisi anch'io, e una gioia immensa mi pervase.

Piano piano migliorò, e non passò più un giorno senza che noi due non fossimo insieme.

L'uno aveva l'altro...

Ed era tutto ciò che importava.

 

 

 

ANGOLO AUTRICE: Salve ragazzi! Inizio dicendo che questa non è altro che la trasposizione scritta di un fumetto in inglese che ho trovato su youtube, e che vi consiglio assolutamente di guardare, perché è doppiato talmente bene da avermi fatto praticamente venire le lacrime agli occhi, ed è una cosa grave, perché non mi succede mai. Il titolo del video è" We have each other".Ho lavorato molto a questa one shot, voi cosa ne pensate? Mi piacerebbe ricevere un commento, e vi prego di farmi notare eventuali errori.

Ciriciao gente!

  
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