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Autore: Hermione Jean Granger    18/03/2016    11 recensioni
Ci sono tante cose che Sherlock Holmes ritiene impossibili. Sei di queste le ha riportate in una lista, per ricordare a se stesso che mai e poi mai le farà o gli capiteranno. A distanza di anni, tuttavia, si rende conto di essersi sbagliato e che l'amore, nel suo caso, ha reso possibile l'impossibile.
"Sherlock pensò che se Mycroft l'avesse visto in quel momento gli avrebbe dato del sentimentale, ma aveva imparato a non curarsi delle sue critiche molto tempo prima. Aveva imparato che non era così svantaggioso tenere alle cose e alle persone, che la solitudine non protegge, gli amici lo fanno. E i genitori, gli amici, i fratelli, perfino gli stupidi Ispettori Capi di Scotland Yard."
[Prima classificata al contest "Sei cose impossibili" indetto da BlackIceCrystal sul forum di EFP]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Beatrice e Vittoria,
le migliori compagne di ship
ma soprattutto di vita
che potrei desiderare.


 
Le sei cose impossibili di Sherlock Holmes


Sherlock salì piano le scale che portavano alla soffitta: John non ne aveva mai fatto cenno nel suo blog, ma al 221B di Baker Street c'era un solaio ben nascosto, segreto e polveroso come tutti i soppalchi del mondo.
Quando Sherlock si era trasferito lì, si era appropriato immediatamente di quello spazio, rendendolo talmente disordinato da far arrendere subito John a metterci anche solo un piede dentro. Quindi, la soffitta era diventata territorio di Sherlock, come praticamente tutto in quell'appartamento: il consulente investigativo, come lui stesso amava orgogliosamente definirsi, era affezionato a quel luogo piccolo ma accogliente, spesso sede dei suoi viaggi nel Palazzo Mentale e altrettante volte luogo di meditazione quando John non voleva proprio togliersi dai piedi e lui aveva bisogno di riflettere.
Era passato qualche mese dalla sua ultima visita alla mansarda: con la vestaglia blu che svolazzava e la tuta grigia da casa, Sherlock spinse la porta, che si aprì con un cigolio.
Quella volta era lì per un motivo preciso: cercava un pezzo di carta scritto almeno trent'anni prima, ma che era sicuro di aver conservato. Quella notte l'aveva sognato, come se la sua mente volesse ricordargli di avere un conto in sospeso, e si era reso conto di essere costretto, in qualche modo, ad andare a dare torto al se stesso di quand'era ragazzo, circa diciannovenne.
Cominciò a frugare tra gli scatoloni con la precisione e il metodo che lo contraddistinguevano: trovò di tutto, da documenti di vecchi casi a parti del corpo in putrefazione, e quando stava pensando di arrendersi e andare a sparare un po' alla carta da parati, vide il foglio accartocciato e il cuore gli saltò in gola. Si ravviò i capelli, ormai brizzolati, e lo spiegò con cura.
"Le sei cose impossibili di Sherlock Holmes" recitava il titolo in una grafia ordinata.
Sherlock ricordava il giorno in cui l'aveva scritto come se fosse stato quello precedente: in uno dei suoi violenti squilibri ormonali adolescenziali, aveva sentito il bisogno di mettere per iscritto le sue priorità dichiarando quali fossero le sei cose che non gli sarebbero mai e poi mai capitate. Osservò la lista, afferrò un pennarello nero che giaceva lì accanto e si mise a sedere per terra, appoggiato al muro, ricordando.
Il primo punto era: "1. Cucinare per qualcuno".

"È finita. Abbiamo firmato i documenti." aveva annunciato John, comparendo sulla porta con aria esausta.
Sherlock, non sapendo come replicare, era rimasto a fissare il suo coinquilino mentre si toglieva la giacca e la sciarpa e le appendeva con lentezza, quasi come se fosse troppo stanco anche per quei gesti elementari. Si era seduto sulla sua poltrona e aveva sospirato pesantemente.
"Sherlock, non ti sento parlare da quando sono entrato. Tutto bene?" aveva domandato ad occhi chiusi.
Sherlock si era riscosso da quello stato di torpore e aveva ribattuto: "Stavo solo cercando di essere gentile - non è questo che cerchi sempre di insegnarmi tu?"
"Dimentica i miei insegnamenti e versami qualcosa di forte" aveva replicato John, cercando di affondare nella poltrona.
"Ehi!" aveva protestato Sherlock, tuttavia i suoi piedi l'avevano condotto comunque in cucina a cercare qualcosa di alcolico per John. Gli aveva allungato una birra e John aveva mugugnato un "grazie" in risposta.
"Non risolverai i tuoi problemi con l'alcool. Anzi, rischi di prenderti quella che qui" - Sherlock aveva indicato lo schermo del suo telefonino - "definiscono una 'sbronza triste' e stare male ancora di più" aveva concluso con la sua solita saccenza.
"Sherlock, ho appena divorziato da mia moglie. Cerca di stare zitto o giuro che ti prendo a pugni" aveva protestato John, guardandolo negli occhi cristallini.
E quella sera, inspiegabilmente, Sherlock era stato davvero zitto, perso nei suoi pensieri, cercando su internet modi alternativi per far stare meglio John e riflettendo su quanto fosse effimero e strano l'amore: John e Mary erano passati attraverso mesi di litigate furibonde e alla fine, per il bene di Brittany, avevano deciso di lasciarsi in comune accordo. Tutto considerato, avevano divorziato per amore. Era qualcosa che Sherlock ancora non riusciva bene a comprendere.
Sul sito "Come aiutare un amico che è stato lasciato", Sherlock aveva trovato quattro passi che l'autore del blog considerava indispensabili: quindi, uno, aveva ascoltato John per giorni mentre si sfogava (ma ovviamente mettendolo in modalità muto), talvolta con rabbia, talvolta con mite rassegnazione; due, aveva parlato con lui della situazione, offrendogli il suo sostegno (anche se probabilmente esultare dicendogli che ci sarebbe stato più tempo per i clienti e dirgli che sicuramente la causa della fine del suo matrimonio era semplicemente il fatto che l'amore non esisteva, non erano state mosse geniali che sarebbero state apprezzate dal tizio del sito); tre, l'aveva portato fuori, malgrado al cinema non avesse smesso per un attimo di lamentarsi della folla e del rumore troppo alto, per non parlare del fatto che aveva indovinato il colpevole del thriller che erano andati a vedere nei primi due minuti di pellicola, e le persone in sala non erano state particolarmente felici di apprenderlo quando Sherlock si era alzato e l'aveva urlato a gran voce, aspettandosi chissà quale riconoscimento; quattro, non aveva mai lasciato l'amico solo, constatando con un certo disappunto che John non gradiva le visite a sorpresa sue e del suo computer acceso con sequenze di foto di corpi smembrati pronte ad essere riprodotte, soprattutto nel cuore della notte.
John era migliorato, ma non quanto Sherlock si era aspettato, e questo lo faceva sentire frustrato e anche triste, malgrado non capisse perché. Così, una sera, mentre John era fuori per una delle sue passeggiate solitarie, era andato al negozio sotto casa per comprare gli ingredienti e aveva preparato della pasta al forno; frugando tra i ricordi del Palazzo Mentale, si era ricordato che John l'aveva indicato come suo piatto preferito in una di quelle stupide interviste per i tabloid.
Non si era mai preso la briga di cucinare, ma quella volta era importante per lui che il piatto venisse bene: si era concentrato, aveva seguito la ricetta alla lettera (e aveva macchiato il telefono con le dita tutte sporche di besciamella) e alla fine aveva messo nei piatti due porzioni di lasagne decenti, anche se leggermente bruciate ai lati.
Quando John era tornato e aveva compreso la situazione, la sua espressione sconcertata aveva divertito e offeso Sherlock allo stesso tempo.
"Hai... hai cucinato per me?" aveva chiesto, incredulo, e Sherlock si era sentito immediatamente un grande stupido. La sua espressione rilassata si era indurita e si era limitato a sedersi e cominciare a mangiare. John si era accomodato accanto a lui, fissando le lasagne come se da un momento all'altro avessero potuto trasformarsi in vermi, e poi le aveva cautamente assaggiate: "Sono buone. Grazie" aveva sussurrato, circospetto. Sherlock si era limitato a fare un cenno col capo.
Avevano consumato la cena in silenzio, scambiandosi occhiate ogni tanto, e poi Sherlock si era ritirato nella sua stanza con una grande confusione nel cervello e nel cuore. Cosa l'aveva portato ad andare contro i suoi principi per John? Aveva cucinato per lui, e quello era il primo punto della lista di cose che non avrebbe mai fatto. Che gli era preso?
L'immagine e le parole di Mycroft continuavano a rimbombargli nella mente: "Amare non è un vantaggio, Sherlock".
Era rimasto nel suo Palazzo Mentale per ore, prima di sprofondare in un sonno agitato e popolato da sogni angosciosi.


Sherlock tirò una riga sopra la scritta. Prendersi cura di John in quel momento difficile per lui era stato complicato, ma tuttavia affascinante: nel loro rapporto, John l'aveva protetto fin dall'inizio, fin da quando aveva sparato a quel tassista per proteggerlo nel giorno in cui si erano conosciuti.
Certo, successivamente anche Sherlock aveva avuto modo di ricambiare; ma il ritorno al 221B di John, così distrutto e provato, e la sua progressiva rinascita, avevano fatto provare a Sherlock un senso di speranza e di tepore che non aveva mai sperimentato prima. Quella pasta al forno era il simbolo di un grande traguardo per entrambi: la scoperta della sincera reciprocità del loro affetto. Affetto che aveva costretto Sherlock a disobbedire alla sua stessa lista di cose impossibili, quando se ne curava ancora.
L'uomo continuò a leggere, assottigliando un po' gli occhi per via dell'assenza degli occhiali, che lui considerava assolutamente superflui, al contrario di tutti i medici che l'avevano visitato e che lui aveva mandato a quel paese definendoli, letteralmente, "folli ciarlatani impostori". 
Sherlock arrivò al secondo punto e si corrucciò come non mai: per colpa di John, aveva infranto anche quello.

Quando si era svegliato, aveva sentito il profumo di qualcosa che aveva subito identificato come pancake. In cucina, aveva trovato John ai fornelli con un inconsapevole, ma bellissimo, sorriso sulle labbra. Sherlock si era fatto cautamente avanti finché John non si era accorto di lui e gli aveva rivolto il buongiorno.
"Non guardarmi così, sto solo facendo i pancake" aveva riso, notando l'espressione del suo coinquilino. "Volevo ringraziarti" aveva aggiunto, più serio. "In questi mesi mi hai davvero aiutato a stare meglio e so quanto sia stato difficile per te" aveva concluso, guardando Sherlock negli occhi. Il detective si era rilassato un po' e aveva cominciato a sorseggiare il tè che John aveva lasciato in infusione.
"Oggi vedo Brittany" aveva detto John, con gli occhi che gli brillavano, mentre i due facevano colazione al tavolo ingombro di telescopi, occhi umani e Dio sa quali altre diavolerie. L'uomo divorava i pancake con grande appetito, Sherlock si era limitato ad assaggiarli e a ringraziare John per essersi preso quel disturbo. A volte John si chiedeva ancora se il suo coinquilino non fosse un vampiro. 
"Oh... bene" aveva risposto Sherlock, in assenza di cose più intelligenti da dire, cosa strana per lui, dal momento che aveva sempre qualcosa di intelligente da dire.
Appena John era uscito, Sherlock si era messo a comporre un brano malinconico: mentre lo eseguiva al violino, davanti alla finestra, aveva sentito dei passi inconfondibili e aveva subito cambiato melodia. Quando l'ospite aveva varcato la soglia, Sherlock aveva continuato a suonare come se niente fosse, mentre l'uomo si versava un po' del tè rimasto dalla colazione e si sedeva sul divano.
"Ciao, fratellino" aveva provato Mycroft dopo un po'.
Sherlock aveva smesso di colpo di suonare.
"Ciao, Mycroft" aveva risposto, seccato, posando il violino e sedendosi di fronte a lui.
"Non hai complotti governativi da sventare? Il fatto che io abbia cucinato per John e lui per me non significa niente, siamo due coinquilini e cerchiamo di darci una mano nei momenti difficili, inoltre-"
"Amici, Sherlock, siete amici, non semplici coinquilini. E forse nemmeno semplici amici." aveva ribattuto Mycroft, calmo.
Sherlock aveva sgranato gli occhi. "Ma come-" aveva cercato di protestare, ma il fratello l'aveva interrotto. "L'hai ascoltato, Sherlock. Siete usciti insieme innumerevoli volte. Hai perfino cucinato per lui!"
Sherlock non si disturbò neanche a chiedergli come facesse a sapere tutte quelle cose: gli occhi di Mycroft erano sempre dappertutto. Ci fu una lunga pausa.
"Sai, Sherlock, credo di aver un po' esagerato con tutta la storia 'amare non è un vantaggio': in un certo senso, amare ti ha aiutato tantissimo." aveva detto Mycroft, alla fine.
"Io non amo John!" aveva esclamato Sherlock incrociando le braccia e stringendosi nella vestaglia.
"Lo sai che mi preoccupo per te" aveva continuato Mycroft, imperterrito. "E ti ho sempre detto di non farti coinvolgere perché non volevo che soffrissi. Ma penso che tu e John potreste essere davvero felici insieme." concluse, con aria stralunata, come se non credesse davvero di aver pronunciato quelle parole.
Sherlock rimase corrucciato: sperava che la poltrona lo inglobasse, piuttosto che dover affrontare quel discorso con suo fratello.
"John non mi ama. Stava con Mary, ricordi?" aveva domandato Sherlock, più contrariato di quanto avrebbe voluto mostrare.
"John ti è stato accanto per anni, ha visto tutto il peggio di te ed è rimasto. Ti vuole bene, Sherlock. Forse anche di più." aveva ribattuto cautamente Mycroft.
"Cosa te lo fa pensare?" aveva chiesto nuovamente Sherlock.
"Sono io il fratello intelligente, non te lo dimenticare" aveva replicato asciutto Mycroft. Sherlock si era alzato di scatto, aveva afferrato il violino e aveva ricominciato a suonare.
"Sherlock!" aveva esclamato suo fratello.
"Non ti sento!" aveva urlato Sherlock, rabbioso, accompagnando la frase a movimenti scattosi dell'archetto. 
Mycroft l'aveva fissato attentamente per qualche secondo. Poi si era avviato verso la porta.
"Tu ami John Watson, e prima lo ammetterai, prima sarà meglio per entrambi" aveva urlato per sovrastare la musica, prima di sbattersi la porta alle spalle.
Sherlock aveva suonato tutto il giorno, furente.
Chi si credeva di essere Mycroft? Che diritti aveva per irrompere in casa sua con quelle deduzioni completamente sbagliate?
Prima che se ne fosse reso conto, era tornata la sera, e con essa John, zuppo d'acqua e con un enorme sorriso stampato in faccia. Aveva subito cominciato a chiacchierare, felice, raccontando i momenti passati insieme a Brittany; "La prossima volta dobbiamo uscire tutti e tre insieme" aveva concluso alla fine, guardando Sherlock con l'entusiasmo di un bambino.
Il cuore del detective aveva fatto un balzo. E, mentre John continuava a riferirgli la sua giornata, con gli occhi blu che luccicavano, Sherlock aveva mandato un sms veloce a Mycroft, due sole parole: "Hai ragione".


Sherlock osservò la scritta "2. Dare ragione a Mycroft" con rabbia: certo, nel tempo i rapporti tra i due fratelli erano un po' migliorati, grazie soprattutto all'intervento diplomatico di John, ma i due sarebbero sempre rimasti avversari naturali, anzi, "acerrimi nemici" come a entrambi piaceva definirsi. Tuttavia Sherlock, seppur preda di un certo astio, non poteva negare a se stesso che, anche in quel caso, dare ragione a Mycroft fosse stato il primo passo per capire diverse cose su se stesso e sui suoi sentimenti. Non avrebbe mai creduto di provare amore per qualcuno, ma John aveva cambiato le carte in tavola e Mycroft l'aveva capito; sarebbe stato più da sciocchi ostinarsi a contrastarlo che ammettere la verità e concedere un punto a suo fratello - tanto lui rimaneva comunque in vantaggio.

La risposta al messaggio era arrivata dopo meno di un minuto: "Domani andiamo da mamma e papà". Sherlock aveva sgranato gli occhi.
"Tutto bene?" aveva domandato John, interrompendo la narrazione e concentrandosi sul coinquilino.
"Sì, sì, vai avanti" l'aveva incoraggiato Sherlock, simulando un sorriso e sentendosi morire dentro.
Mycroft voleva raccontare la storia ai loro genitori? Magari per chiedere dei consigli?
Sherlock non era per niente sicuro di essere pronto. Si era appena reso conto di provare qualcosa per John e ora doveva saperlo il mondo intero? Aveva maledetto Mycroft per quello che probabilmente era un piano architettato da tempo e aveva messo via il telefono.
Quando John si era ritirato nella sua stanza augurandogli la buonanotte, aveva cominciato a camminare avanti e indietro per il salotto, preda di un'indicibile angoscia. Era rimasto sveglio fino alle prime luci dell'alba, quando la morbida luce del sole aveva cominciato a filtrare dalle tende spesse. Sherlock aveva maledetto anche lei e si era raggomitolato sul divano, stringendosi nell'ampia vestaglia; si era assopito così, guadagnandosi un'occhiata affettuosa da John quando si era alzato per andare a lavoro e l'aveva trovato lì a dormicchiare, così stanco e vulnerabile. Aveva fatto del suo meglio per non svegliarlo e c'era riuscito: tuttavia, quando Mycroft era arrivato un'oretta più tardi, non aveva usato la medesima premura.
"Alzati, Sherlock, è ora" aveva esclamato, scuotendolo leggermente. Sherlock si era tirato su di scatto, pronto a protestare, ma Mycroft l'aveva anticipato: "William Sherlock Scott Holmes, non hai mai amato nessuno nella tua vita, eccetto John, non mi hai mai dato ragione nella tua vita, eccetto su John. È ora di andare a dire alla mamma che sei umano, ne sarà molto felice."
"Ma io..."
"Non fare il bambino capriccioso. Mettiti qualcosa e andiamo" aveva concluso Mycroft, con un tono che non ammetteva repliche. E stranamente, Sherlock si era alzato, si era preparato velocemente e aveva fatto il viaggio con suo fratello fino a casa dei suoi genitori.
Quel giorno era stato terribile, uno dei più imbarazzanti della sua vita.
Sua madre li aveva accolti sulla porta, abbracciandoli entrambi con grande commozione. Seduti al tavolo della cucina, i quattro Holmes avevano sorseggiato tè in silenzio per una buona mezzora, prima che qualcuno si decidesse a parlare.
"Allora, Sherlock, come vanno le cose?" aveva tentato il padre, con una finta disinvoltura che non avrebbe convinto nemmeno Lestrade.
"Uhm... bene" aveva risposto lui, altrettanto vago.
"Come sta John?" aveva cinguettato la madre, già più vicina all'argomento principale di quella conversazione.
"Sta bene" aveva risposto Mycroft. "Anzi, direi più che bene, visto tutto lo charme che emana" aveva aggiunto poi con un sorrisetto.
Il fratello minore l'aveva fulminato con lo sguardo ma Mycroft, che sembrava essere l'unica persona immune all'occhiata assassina di Sherlock, aveva proseguito: "Uno charme che, ahimè, ha travolto in pieno anche il nostro piccolo detective".
Sherlock era avvampato di rabbia e d'imbarazzo, mentre Mycroft faceva una smorfietta compiaciuta e i suoi genitori cercavano di sedare l'entusiasmo.
"È bellissimo, tesoro" aveva detto alla fine sua madre, appoggiando rumorosamente la tazza decorata sul piattino.
"È un enorme problema" aveva bofonchiato Sherlock, sperando intensamente che Moriarty irrompesse e lo rapisse seduta stante.
"Perché, Sherl?" aveva domandato nuovamente la madre.
Sherlock aveva ingoiato il vuoto: le parole proprio non riuscivano a uscire.
"È convinto che John non lo ricambi" aveva risposto Mycroft al posto suo.
"Ma questa è una sciocchezza!" aveva riso la madre.
Sherlock avrebbe voluto urlare che non era affatto una sciocchezza, che John era eterosessuale, che non avrebbe mai amato nessun uomo, figuriamoci lui, che nel campo dei sentimenti era così impedito e ignorante. Avrebbe voluto alzarsi e fare un bel casino, buttare qualcosa a terra magari, per poi nascondersi nel suo cappotto e correre via. Ma non l'aveva fatto. Era rimasto seduto al suo posto, con lo sguardo fisso nel liquido ambrato che riempiva la sua tazza, senza proferire parola.
Aveva messo tutti in modalità muto, finché una frase di Mycroft non l'aveva colpito al petto come una stilettata: "Vedrete che il prossimo Natale saranno qui a fare i piccioncini... mi viene da vomitare al solo pensiero".
"Ora basta, Mycroft! Basta!" aveva gridato, alzandosi di scatto. Aveva preso il cappotto ed era andato verso la porta; nessuno l'aveva fermato.
"John non mi ama e non mi amerà mai" aveva ringhiato sull'uscio, rivolto alla sua famiglia. "Fareste meglio a rassegnarvi come mi sono rassegnato io" aveva concluso, per poi chiudersi la porta alle spalle.
Dopo qualche passo malfermo sul viottolo di sassi bianchi, una voce calma e serena l'aveva fermato. "Sherlock."
"Papà, non-"
"Aspetta". Il padre di Sherlock, "l'unico normale della famiglia", come l'aveva definito una volta Mary, raggiunse il figlio.
"Sai cosa mi ha definitivamente conquistato di tuo madre?" gli aveva domandato pazientemente. Sherlock aveva fatto un cenno di diniego col capo.
"Il suo cervello" aveva detto il padre, sorridendo. "Era brillante, sveglia, svelta, molto più di me... ma aveva anche un cuore grande. Le assomigli più di quanto pensi, Sherlock. Non vedo perché non dovresti riuscire a conquistare chiunque tu voglia".
Sherlock aveva alzato lo sguardo e aveva incontrato gli occhi chiari di suo padre, che lo guardavano con grande affetto e qualcosa che non era riuscito a definire - orgoglio? Sembrava che volesse abbracciarlo, ma si era fermato a quelle parole e si era limitato a guardare l'espressione del figlio che si rischiarava leggermente per poi incamminarsi verso il cancello. 


Sherlock fissò il punto successivo: "3. Chiedere consigli a mamma e papà" con un pizzico di rimpianto. Avrebbe dovuto darlo quell'abbraccio a suo padre, finché poteva: ormai era tardi. Ma non avrebbe mai smesso di ringraziarlo, dentro di sé, per quell'iniezione di fiducia che anni prima l'aveva sconvolto e rincuorato.
Con le mani che gli tremavano un po', sbarrò anche quella scritta. Gli venne da sorridere a quel ricordo dolce-amaro di lui che spariva alla vista della casa familiare e all'espressione di suo padre che lo guidava verso la via adatta a lui.
Si guardò intorno, cercando e trovando subito lo scatolone con le cose lasciategli in eredità dai suoi genitori: da parte di sua madre, strumenti scientifici e un set da tè, oltre a varie chincaglierie; suo padre gli aveva lasciato i ricordi di una vita e non aveva aggiunto altro, certo che Sherlock avesse ormai raggiunto la felicità che aveva sempre sperato per lui. E aveva ragione.
Sherlock pensò che se Mycroft l'avesse visto in quel momento gli avrebbe dato del sentimentale, ma aveva imparato a non curarsi delle sue critiche molto tempo prima. Aveva imparato che non era così svantaggioso tenere alle cose e alle persone, che la solitudine non protegge, gli amici lo fanno. E i genitori, gli amici, i fratelli, perfino gli stupidi Ispettori Capi di Scotland Yard.
Ritornò nel suo angolino con la lista in mano e osservò il punto successivo, il quarto: subito, le reminiscenze di ciò che era accaduto dopo il tè coi suoi gli si affacciarono alla mente.

Confuso e spaventato, aveva preso il primo treno per Londra e poi un taxi fino al Bart's. La sua irruzione nella stanza dove lavorava di solito non era passata inosservata: "Ciao Sherlock" aveva sussurrato Molly, china sul microscopio. A un'occhiata più attenta, la ragazza aveva lasciato completamente perdere il lavoro non svolto di fronte a lei e si era avvicinata cautamente a Sherlock, seduto per terra con la testa fra le mani.
"Va... va tutto bene?" aveva domandato, esitante, maledicendosi un secondo dopo per quella domanda così stupida: era chiaro che qualcosa non andava di certo.
"Non ci riesco, d'accordo?" aveva risposto Sherlock, sollevando il volto e permettendole di vedere gli occhi gonfi e arrossati.
"Non riesci a fare cosa?" aveva chiesto Molly, piuttosto confusa.
"A pensare di poter vivere una vita felice con qualcuno" aveva ribattuto lui, con un piccolo singulto.
"È facile per le persone normali innamorarsi, fidanzarsi, essere felici... ma io non sono normale!" aveva esclamato a gran voce.
"Guardami, Molly, non sono normale affatto! Ho sempre ritenuto l'amore una cosa stupida, inutile, svantaggiosa! Mi è stato insegnato così, i fatti mi hanno dimostrato questo, sempre! Le persone che amano sono vulnerabili, fragili... Quelle che non amano sono più sicure. E adesso eccomi qui, amo John e non so che fare! Non so che fare" aveva concluso, mentre le lacrime cominciavano a sgorgare sul viso pallido.
Molly era rimasta immobile, interdetta: Sherlock la fissava, piangendo, e lei avrebbe solo voluto abbracciarlo, ma non sapeva se lui si sarebbe ritratto oppure si sarebbe lasciato consolare.
"Sherlock..." aveva tentato "Io penso che se ami John dovresti dirglielo" aveva bisbigliato, con semplice sincerità.
"Come faccio? Come faccio a dirglielo?" Sherlock si era messo le mani tra i capelli. "E se poi lui non ricambiasse e questa cosa cambiasse per sempre la nostra amicizia? Non voglio perderlo, Molly" aveva singhiozzato e, con enorme sorpresa della dottoressa, l'aveva stretta in un abbraccio avventato, abbandonandosi al pianto sulla sua spalla.
"Diglielo, Sherlock. Non puoi torturarti così" aveva affermato lei con tenerezza. "Almeno dopo avrai una risposta. Sai, non solo tu sei triste quando pensi che lui non ti veda: ho notato anche il contrario."
Sherlock si era staccato da lei e si era asciugato bruscamente le lacrime.
"Come glielo dico? Insomma, sarà uno shock" aveva domandato.
"Forse nemmeno tanto, noi l'abbiamo capito tut-" aveva cominciato Molly ma un'occhiata allo stesso tempo ferita e infuriata di Sherlock l'aveva fatta tacere immediatamente.
"Uhm, certo... sì. Un bello shock" aveva balbettato.
Sherlock si era seduto e lei l'aveva imitato.
"Sherlock, è possibile che le persone che amano siano più sicure... ma probabilmente sono anche più infelici" aveva detto piano Molly.
"E come? Io amo - accidenti - e guarda come sono ridotto!" aveva ribattuto lui, con la voce rotta.
"Una volta che l'avrai detto a John ti sentirai meglio" aveva risposto lei. "Sai... quando tu... quando hai capito che mi piacevi, poi è stato più facile per me" aveva aggiunto, avvampando.
Sherlock aveva avuto il tatto di distogliere lo sguardo da lei e non commentare.
"Sì... sembra logico" aveva osservato dopo una pausa.
"Grazie, Molly" aveva aggiunto, prima di alzarsi e andare verso la porta. "Sei un'amica preziosa". Ed era scomparso.
Molly era rimasta impietrita sulla sedia. Sherlock l'appena appena definita come una sua "amica"? Era successo davvero? Aveva controllato fuori dalla finestra, ma non sembravano esserci meteoriti in avvicinamento. La giovane medico patologo era tornata alla scrivania e aveva ripreso il suo lavoro, sperando sinceramente che Sherlock e John riuscissero a chiarirsi.


Sherlock osservò il punto quattro, forse quello a cui, ai tempi in cui aveva scritto la lista, teneva di più: "4. Piangere di fronte a qualcuno".
Da ragazzo, trovava assolutamente inconcepibile anche solo l'idea di mostrare la sua sofferenza a qualcuno.
Si era sempre tenuto il suo dolore dentro, sepolto nel profondo; aveva lasciato che lo distruggesse lentamente, convinto che l'oscurità delle droghe avrebbe sconfitto le tenebre che albergavano in lui, che gli obnubilavano il cervello e gli rallentavano il cuore sempre più cupo.
Successivamente, aveva capito che l'oscurità non può scacciare le tenebre, solo la luce può farlo. E John era luce, confortante luce abbagliante, un fanale luminoso in una strada tenebrosa, un faro scintillante in un mare fin troppo tempestoso.
Sherlock chiuse gli occhi e pensò al seguito della sua storia.

Dopo giorni passati a torturarsi, era stato lo stesso John a offrirgli il pretesto perfetto per confessarsi. Durante la cena, gli aveva detto, divertito: "Sai, oggi mi ha fermato un altro giornalista per chiedermi un'intervista sul nostro ultimo caso. Voleva intitolarlo: 'Sherlock Holmes, l'eroe moderno'".
"Non sono un eroe" aveva ribattuto Sherlock, secco. "Mi pare di avertelo già detto".
"Secondo me lo sei, Sherlock. Una specie di Superman dei giorni nostri, solo un po' più elegante e, uhm, sociopatico" aveva concluso, ridendo.
"Anche se ovviamente non direi mai queste cose a un giornalista" aveva aggiunto, allegro, con la bocca piena di patatine.
"Non sono un eroe" aveva ripetuto Sherlock, con gli occhi fissi sul piatto.
"Perché, Sherlock? Sei intelligente, stai dalla parte dei buoni e aiuti a punire i malvagi, hai una spalla completamente sottovalutata... Mi sembra che questo possa bastare" aveva ridacchiato John, spegnendo subito il suo sorriso quando aveva visto la faccia cupa dell'amico.
"Gli eroi non dovrebbero avere debolezze... Il mondo dovrebbe poter contare su di loro, loro non dovrebbero... tenere alle persone" aveva concluso Sherlock, arrossendo leggermente.
"Va bene avere amici, Sherlock, anche per un eroe" aveva replicato John.
"Non va bene innamorarsi! Ci si mette nei guai, e si mette in pericolo anche la persona a cui si tiene... È sbagliato, tutto sbagliato" aveva bofonchiato Sherlock.
John l'aveva guardato, incredulo. Sherlock, innamorato? E di chi, per l'amor di Dio? C'entrava ancora Irene Adler?
Aveva preso un enorme respiro.
"E quindi sei innamorato?" aveva chiesto in tono fintamente casuale.
"Sì" aveva risposto Sherlock, stringato, stringendo le braccia, le gambe e sparendo quasi del tutto inghiottito dalla sedia.
"Perché non me l'hai detto?" aveva domandato John, leggermente ferito.
"Non è una cosa semplice" aveva replicato Sherlock.
"Non è niente che io e te non possiamo risolvere" aveva risposto John con un sorriso incoraggiante, mentre dentro di lui lo stomaco faceva i salti mortali e gli balzava in gola, al solo pensiero di poter perdere Sherlock, che lo avrebbe abbandonato per una ragazza, o un ragazzo, o qualsiasi persona verso la quale fossero rivolti i suoi sentimenti. Aveva sperato tante volte di essere lui, soprattutto nell'ultimo periodo, dopo il divorzio da Mary.
Quella separazione era avvenuta in momento di estrema confusione per John: amava Mary, certo, ma amava anche Sherlock. A volte reprimeva l'impulso di accarezzarlo, di sfiorargli le labbra, o addirittura di baciarlo e farla finita con quella tensione chimica che c'era sempre tra di loro.
Aveva cercato di rassegnarsi, pensando che Sherlock fosse in qualche modo asessuato, indifferente alla sfera affettiva umana... ma adesso stava scoprendo che non era affatto così.
Sherlock era innamorato. E anche lui era innamorato. Come avrebbero potuto gestire le cose? Aveva sempre ribadito fermamente di non essere gay e di non essere in coppia con Sherlock, negando l'evidenza a tutti ma soprattutto a se stesso; la verità era che aveva una grande paura di dove l'avrebbe portato il vero amore. Il vero amore con un uomo.
Una persona del suo stampo non aveva mai immaginato di finire per innamorarsi del proprio coinquilino sociopatico ad alto rendimento, cinico e tagliente. Eppure era successo. John non sapeva come né perché, ma il suo cuore l'aveva guidato verso Sherlock dal primo attimo in cui si erano incontrati.
Mentre John rifletteva, Sherlock si era fermato ad osservare il suo viso pensieroso e a valutare se fosse davvero quella la situazione giusta per dichiararsi. Aveva pensato alle parole di Molly: la ragazza aveva ragione, prima avesse avuto una risposta, meglio sarebbe stato... quindi perché no?

Perché mi rifiuterà.
Perché non mi guarderà mai più con gli stessi occhi.
Perché cambierà casa.
Perché non risolverà più i crimini con me.
Perché lo perderò.
"John, io ti amo".

Sherlock sorrise leggermente cancellando la riga successiva: "5. Dire ti amo".
In quel momento si era sentito malissimo, aveva visto il viso di John contrarsi per la sorpresa e si era già immaginato tutte le sue profezie che si avveravano. Era stato arduo per lui mettersi in gioco in questo modo, mettersi a nudo davanti a John mostrandogli la sua più grande debolezza.
È difficile per tutti dichiarare i propri sentimenti senza alcuna base fondata, come gettarsi da un aereo senza paracadute; ma per Sherlock era stato come trovarsi nel peggiore dei suoi incubi, senza possibilità di svegliarsi in alcun modo.

"Sherlock, dove sei? È pronta la colazione! Non farmi aspettare o potrei accidentalmente far esplodere il tuo telefono nel microonde!"
La voce dolce e divertita di John raggiunse le sue orecchie e lui cominciò a togliersi la polvere di dosso come meglio poteva; prima di scendere, però, c'era un'ultima cosa fondamentale che doveva fare.
Chiuse gli occhi e fu invaso da ricordi felici, i ricordi della sua vita fino a quel momento: i primi baci incerti con John, la prima volta che avevano fatto l'amore, le loro mani sempre intrecciate, il loro matrimonio con Lestrade e Anderson che lanciavano proiettili invece del riso, i lunghi pomeriggi d'inverno passati a bere tè e a risolvere casi insieme, il respiro di John quando dormiva.
Sentì il petto riempirsi di calore pensando agli occhi brillanti di John, il suo John, alla sua risata contagiosa, alle parole di conforto che sapeva elargire in ogni occasione. L'aveva salvato, in tutti i modi in cui una persona poteva essere salvata, e sarebbe rimasto per sempre la sua luce. Sherlock osservò l'ultimo punto "6. Essere amato" e con un gran sorriso lo depennò.
Poi uscì dalla soffitta, chiuse la porta, scese le scale e andò a cominciare un'altra giornata della sua vita con John.



Note dell'autrice:
Ciao a tutti!
Probabilmente molti di voi mi leggeranno per la prima volta, essendo questo il mio debutto in questo Fandom, che amo alla follia ma sul quale ho aspettato a lungo prima di scrivere. Se siete nuovi, piacere di conoscervi. Per i vecchi, piacere di ritrovarvi anche qui :D
Prima di tutto, qualche nota sul testo:

In questa storia ci sono più o meno tre termini temporali: quello principale, scritto al passato remoto, si riferisce al presente di un Sherlock più o meno cinquantenne; i flash al trapassato remoto raccontano di circa vent'anni prima, mentre la lista è stata redatta da Sherlock durante la sua adolescenza. Brittany è il nome che ho voluto dare alla figlia di Mary e John (e quale nome migliore per la figlia di un inglese "tutto patria e regina"?). Le parti scritte "normali" durante i flashback in corsivo sono le parti che in un testo scritto "normale" andrebbero scritte in corsivo, cioè quelle riferite ai pensieri immediati, non descritti in discorso indiretto. È la prima volta che scrivo su questo fandom e su questi personaggi, oltretutto invecchiati, quindi spero di non aver fatto disastri troppo clamorosi. Probabilmente Sherlock aveva già detto "Ti amo" a Janine, ma non l'ho considerato perché stava recitando, invece il "Ti amo" detto a John ha tutto un altro significato... Alla fine non conta tanto dirlo, ma sentirlo, giusto? 
Ovviamente, la frase "l'aveva salvato, in tutti i modi in cui una persona può essere salvata" è tratta dal film Titanic, che amo e venero da anni e anni. Ci tengo tanto a ringraziare la giudicia BlackIceCrystal per indirre contest splendidi che mi spronano sempre a sperimentare e a scrivere su personaggi che amo ma che ho troppa paura di maneggiare. 
Un ringraziamento a Vittoria e Bea, a cui questa storia è dedicata, ma soprattutto... Tantissimi auguri, Fede! 
Grazie a tutti se siete arrivati fin qui, se vorrete lasciarmi un parere mi farete un enorme piacere, e vi ringrazio in anticipo, tutti quanti, anche chi si limiterà a leggere o a mettere la storia tra le seguite/ricordate/preferite. Come dico sempre, i miei scopi sono prevalentemente due: mantenere intatto l'IC dei personaggi e trasmettere emozioni a chi mi legge. Grazie.
A presto!
Herm

 
  
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