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Autore: FeraNoir    21/03/2016    2 recensioni
1 settembre 1987: Con la netta sensazione di camminare in un sogno, Fera si avvicinò alla barriera che separava il binario 9 dal binario 10 nella stazione di King’s Cross.
1 settembre 1988: Pioveva. Gli studenti del primo anno attraversavano Hogwarts in barca, guardando il castello per la prima volta, e pioveva. Di male in peggio, realizzò Med.
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Dal suo primo anno a Hogwarts, le avventure di Harry Potter sono diventate di dominio pubblico. Ma gli altri personaggi? Quelli che non lo accompagnavano a recuperare pietre filosofali e distruggere Basilischi, quelli che vengono solo menzionati di tanto in tanto, cosa stavano vivendo in quel periodo?
Il Prefetto Percy sta studiando febbrilmente per i G.U.F.O., Oliver si concentra nel Quidditch per non sentire la mancanza di Charlie e Tonks, Theodore deve sopportare un padre che ha già cacciato di casa il figlio maggiore... e Fera e Med, rispettivamente al quinto e quarto anno, si preparano a sperimentare i primi amori e le prime gelosie, amici fedeli e primini da ridicolizzare, finché il destino non le metterà sulla stessa strada.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio, Oliver Wood/Baston, Percy Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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Ormai dovreste sapere bene chi siamo. Nella remota ipotesi in cui non lo sappiate, ci dispiace per voi, perché ora dovrete sorbirvi una lunghissima introduzione sui perché e i percome della long che avete appena aperto.

 

LUNGHISSIMA INTRODUZIONE:

Anzitutto, il nome. FeraNoir è il mostro bicefalo generato dall’unione di due creature mitologiche: MedusaNoir (bravissima autrice di fanfiction e originali) e ferao (che si atteggia a fanwriter ma tanto lo sanno tutti che è solo una cazzara). MedusaNoir e ferao sono su EFP da anni, hanno scritto valanghe di roba, esplorato diversi generi in fandom di tutti i tipi e raccolto, ciascuna nel proprio ambito, un certo consenso; insomma, non le si potrebbe definire “fanwriter alle prime armi” neanche sotto l’effetto di roba pesante.

Orbene, nel lontano 2012 è accaduto qualcosa tra queste due autrici. Per farla breve, senza rivangare penose discussioni a base di “Fera puzza!” e “Med puzza di più!”, un giorno MedusaNoir vinse una scommessa con ferao: in virtù di ciò, fu “autorizzata” a pubblicare una fanfiction in cui detta ferao appariva come personaggio e interagiva con Percy Weasley, ossia l’essere più immondo tra quelli partoriti dalla penna di JK Rowling.

Era solo l’inizio, naturalmente: più avanti fu ferao a vincere una scommessa, e stavolta MedusaNoir dovette scrivere e pubblicare un’altra fanfiction in cui era lei stessa a interagire col succitato Percy (interagire a rating rosso, s’intende. Sia mai che chi perde una scommessa con ferao abbia una vita facile).

Da quel momento, le cose sono degenerate. Le due fanwriter si sono lasciate prendere un po’ la mano, e in men che non si dica hanno costruito un intero universo alternativo (il Ferusaverse) di cui entrambe fanno parte e in cui hanno una vera e propria esistenza, con tanto di trama e caratterizzazione. Hanno, insomma, scoperchiato quel vaso di Pandora chiamato self insertion.

Ebbene sì: dopo anni e anni trascorsi a perfezionarsi come autrici, MedusaNoir e ferao sono tornate allo stadio primordiale inserendo se stesse nelle loro fanfiction, come le più debosciate ficcynare alle prime armi.

Che disagio.

Ma ehi, ne sono nate alcune storie davvero fighe: le trovate tutte qui (https://www.facebook.com/notes/859338110830188/), ordinate secondo la cronologia interna del Ferusaverse; se volete leggerle nell’ordine in cui le abbiamo pubblicate, non temete, lo troverete alla fine di questo spiegone. Il consiglio è di leggere almeno “Atterrerò sulle tue spine” prima della long, tanto per cominciare a capirci qualcosa.

Noterete che i titoli non hanno senso: questo perché ciascuno di essi è un verso di “Laphroaig” (sì, bravi, come il whiskey), una canzone bellissima che è stata suonata per la prima volta la sera in cui MedusaNoir e ferao si sono conosciute. Che ci volete fare, siamo due romanticone.

La nostra serie “Laphroaig”, insomma, è nata come uno scherzo tra ragazzine ed è diventata sempre più grande, fino a farci decidere di scrivere la storia definitiva. Quella in cui raccontare, una volta per tutte, come ci immaginiamo il nostro universo: le famiglie di Med e Fera, i loro amici, la scuola e il lavoro, il tutto inserito all’interno del canon più rigoroso.

Quello che state per leggere è il risultato. Una fanfiction che nasce dallo svago più puro, scritta perché dopo anni di fanwriting serio abbiamo deciso che non ce ne frega niente, vai di self insertion, voglio proprio vedere come mi sta la divisa di Hogwarts. Ci abbiamo messo noi stesse, letteralmente, e speriamo che vi piaccia o che perlomeno vi intrattenga.

 

Bene, questa era l’introduzione per chi non ci conosceva. Per chi ci conosce e sa già in quale circolo vizioso siamo cadute: gente, eccovi la vera storia dietro tutte le Perao e le Pedusa che vi siete sciroppati finora. Abbiatene cura. È figlia nostra e le vogliamo bene, nonostante tutto.

 

Atterrerò sulle tue spine

E graffierò ogni mia cellula

Dipingerò di rosso la sabbia

Mentre i pennuti suoneranno da un cielo ametista

Laphroaig (dovevamo essere ubriache)

Canzoni angeliche ma prive di logica

Vatti a fidare del Bagno dei Prefetti

What happens in dreamland, stays in dreamland. Or not?

Breve storia di tre storie

Ed assaggerò un sorso di Laphroaig

E imparerò, sì imparerò

Aspetterò che il vento si calmi

In sospeso


LAPHROAIG

GLI ANNI DI HOGWARTS

PROLOGO


1 settembre 1987

 

Con la netta sensazione di camminare in un sogno, Fera si avvicinò alla barriera che separava il binario 9 dal binario 10 nella stazione di King’s Cross. Ancora non era sicura della realtà di quanto la circondava: poco più di un mese prima, un gufo aveva bussato alla sua finestra recandole una lettera dal contenuto semplicemente assurdo; qualche giorno dopo, una donna era venuta a casa sua, presentandosi come “professoressa”, a convincere i suoi genitori che no, non c’era nulla di assurdo, e che , esisteva un luogo chiamato Hogwarts in cui ragazzi e ragazze come Fera potevano conseguire l’istruzione più adatta a loro – ragazzi e ragazze che, come Fera, facevano scoppiare lampadine e levitare oggetti senza volerlo. Da quel momento in poi, erano successe così tante cose meravigliose e inspiegabili che Fera era convinta fossero parti di un lungo, splendido sogno.

«Bene, eccoci arrivati» sospirò suo padre. Non aveva parlato molto durante il viaggio fino a Londra: doveva essere molto più teso di quanto desse a vedere. «La professoressa McGranitt ha detto che potevamo accompagnarti solo fin qui…».

«Sì, lo so».

L’uomo sospirò di nuovo, poi si strinse nelle spalle. «Mi raccomando, comportati bene» disse poi. «E se hai problemi, telefona».

«Quanto sei sciocco: non ci sono telefoni nel posto in cui va, ricordi? Non funzionerebbero» intervenne la madre di Fera, roteando gli occhi. Quindi abbracciò la figlia e le schioccò un bacio su una guancia. «Mangia, mi raccomando. E studia. E non trasformare tutti in rospi solo perché ti fanno arrabbiare».

Fera ricambiò l’abbracciò, poi salutò anche suo padre. Stava iniziando a realizzare che nulla di quanto la circondava era un sogno: era davvero in procinto di partire per una meta sconosciuta, e avrebbe rivisto i suoi genitori solo di lì a qualche mese. Cercò di non mostrare apprensione mentre spingeva il suo bagaglio verso la barriera di mattoni.

“Procedi dritta senza esitazioni”, aveva detto la professoressa McGranitt. Mosse i piedi in direzione della barriera, cercando di non pensare a quante cose potevano andare storte in quel momento – magari il passaggio era chiuso, o non esisteva nessun passaggio, o il suo carrello si sarebbe rotto…

«E ricorda, se qualcuno ti tratta male gli facciamo causa!»

Fera fece per voltarsi e ridere alla battuta di sua madre, ma dietro di lei c’era solo un solido muro di mattoni rosso cupo. Ce l’aveva fatta: era passata, giusto in tempo per salire sul suo treno.

 

In tutta la sua brevissima vita, Fera non ricordava di aver mai visto così tanti ragazzi tutti assieme. Il paese da cui proveniva era piccolo e tutti si conoscevano tra di loro, perciò ritrovarsi in mezzo a una tale folla fu per lei un piccolo shock. Istintivamente strinse le spalle e abbassò il capo, come aveva fatto la prima volta che era entrata in Diagon Alley; una volta salita sul treno, camminò di vagone in vagone cercando uno scompartimento che non fosse già occupato, e quando lo trovò vi si lanciò dentro con un sospiro di sollievo.

“Fatti tanti amici”, aveva detto sua madre. “Fosse facile”, aveva pensato lei. La verità era che Fera era timida e non cercava di nasconderlo. Fosse dipeso da lei, si sarebbe chiusa in casa e avrebbe passato la vita a leggere, fine.

A proposito di leggere. Con un sorriso, Fera aprì lo zainetto che aveva portato con sé in treno e ne rimirò il contenuto: i suoi libri di scuola, nuovi e profumati di pergamena, che aspettavano solo di essere sfogliati.

Era indecisa se aprire prima quello sulla trasfigurazione, quello sulla storia della magia o quello sulla teoria degli incantesimi. Sembravano tutti interessanti, e lei aveva così tanto da imparare! Gli altri ragazzi, nati e cresciuti in famiglie magiche, sarebbero stati di sicuro molto più avanti rispetto a lei: doveva provare, se non a rimettersi al pari con loro, almeno a raggiungere un livello di conoscenza che non l’avrebbe fatta sembrare una completa ignorante al loro confronto.

Dopo averci riflettuto, optò per la trasfigurazione: il nome prometteva bene. Mancavano ormai pochi minuti alle undici, ora di partenza dell’Espresso per Hogwarts; Fera aveva appena iniziato a sfogliare il primo capitolo del libro, quando udì delle voci approssimarsi alla porta del suo scompartimento.

«… nel vagone dei Prefetti, Perce».

«Allora posso venire con te, Charlie?».

«No, mi vedo con quelli della squadra». La porta si aprì di colpo, facendo sobbalzare Fera: dal corridoio del treno si affacciarono tre ragazzi. «Ecco, puoi stare qua» proseguì l’ultimo che aveva parlato. «C’è anche una ragazza carina, cosa vuoi di più?».

Fera storse il naso. La consapevolezza di non essere neanche lontanamente carina le faceva cogliere una sgradevole ironia in ogni complimento. Non disse nulla, ma squadrò per bene i tre: quello che aveva appena parlato doveva avere sui quindici anni, era basso e ben piazzato; un altro, di sicuro il più grande, era il più bel ragazzo che Fera avesse mai visto, alto e con un sorriso che irradiava simpatia; il terzo indossava grossi occhiali, era scuro in volto e non dimostrava più di undici anni. Tutti e tre sfoggiavano la stessa capigliatura rosso fiamma.

«Ciao,» disse il più grande a Fera, «scusa il disturbo. Nostro fratello può sedersi qui con te?»

«Bill!» esclamò quello con gli occhiali. «Posso fare benissimo da solo!».

«Perfetto, allora ti lasciamo qui. Ci vediamo a scuola!» e dandogli una pacca sulla spalla, Bill si allontanò dallo scompartimento. Il ragazzo più basso scompigliò i capelli al fratello, poi guardò Fera e le sorrise. «Controlla che faccia il bravo» disse, prima di andarsene a sua volta.

Il ragazzino con gli occhiali lo seguì con lo sguardo, un’espressione tra il mesto e l’arrabbiato dipinta in volto. Dopo qualche secondo sospirò, si risistemò con cura i capelli e si rivolse per la prima volta a Fera.

«Posso sedermi? Il treno è quasi tutto pieno…».

Fera annuì e fece per spostare lo zaino, ma lui si accomodò nel sedile posto in diagonale rispetto a lei. «Scusa per… beh, loro» disse poi, alludendo agli altri ragazzi. «I miei fratelli amano prendermi in giro».

«Nessun problema». Fera gli rivolse un sorriso rassicurante, poi tornò a immergersi nel libro. Non amava chiacchierare, soprattutto con gli sconosciuti, e di solito l’essere presa dalla lettura la salvava dalle conversazioni. Quella volta non fu così: il ragazzo si sporse per vedere il titolo del libro e si illuminò.

«Sei del primo anno anche tu?».

Trattenendosi dallo sbuffare, Fera alzò gli occhi. «Sì».

«Anche io!» Il ragazzo fece un gran sorriso e le tese la mano. «Mi chiamo Percy».

Stavolta sbuffò davvero. «Fera» rispose, stringendogli la mano.

«Stai già studiando Trasfigurazione?» Senza attendere risposta, Percy aprì la propria borsa e ne estrasse una copia dello stesso libro di Fera, solo più consunta. «Ho provato anch’io a dare un’occhiata. Sembra una materia molto complicata, però è interessante, non trovi?».

«Non saprei. Sono arrivata solo a pagina cinque…».

«Non vedo l’ora di imparare a trasfigurare gli oggetti» la interruppe lui, ignorandola. «Bill dice che la professoressa McGranitt…».

«McGranitt?» Fera spalancò gli occhi. «È venuta a casa mia, un mese fa, dopo che ho ricevuto la mia lettera».

«A casa tua? Perché, tu…» Percy si sistemò gli occhiali e la osservò per un secondo. «Sei… sei figlia di Babbani, per caso?».

Fera annuì. Aveva imparato che “Babbani” indicava le persone normali, o meglio, quelle prive di poteri magici: i suoi genitori, avvocati irlandesi senza la minima traccia di magia nel sangue, rientravano perfettamente nella descrizione.

Percy la squadrò ancora per qualche istante, poi fece un enorme sorriso. «Caspita. Chissà com’è interessante la tua vita!».

«Eh?!».

«Sì, insomma… vivi coi Babbani!» Percy si piegò in avanti. «Mio padre ha un sacco di libri su di loro, dice che riescono a fare cose incredibili senza magia… È vero?»

Un po’ sconcertata, Fera si ritrovò a raccontare come fosse la giornata-tipo di una famiglia non magica, dal suono della sveglia a pile fino allo spegnimento della televisione la sera. Tutto ciò che aveva sempre considerato “normale” appariva straordinario agli occhi di quel ragazzo – e sì che lui proveniva da una famiglia di maghi!

«E voi, invece, come vivete?» chiese Fera, una volta finito il suo racconto. «Immagino che tu sappia già un sacco di incantesimi…».

«Beh, in realtà no». Percy ridacchiò. «Andiamo a scuola apposta per impararli. Inoltre, non possiamo fare magie fuori da Hogwarts fino alla maggiore età».

«Cosa?!».

«Sì. È una questione di sicurezza».

«Oh». Fera ci rimase male. Sperava, una volta tornata a casa, di mostrare qualche magia ai suoi. «Comunque,» riprese, «di sicuro la vita è più facile per voi maghi. Tipo, le faccende di casa…».

«Beh… sì, suppongo». Percy si grattò la testa. «Voglio dire, mia madre ci mette sempre un sacco a mettere in ordine casa nostra, ma forse dipende dal fatto che siamo in nove…».

«Nove? Siete in nove?».

Percy annuì. Il libro di Trasfigurazione giacque dimenticato accanto a Fera, mentre questa ascoltava rapita le vicende della famiglia Weasley: scoprì molte cose che la professoressa McGranitt non le aveva detto circa il mondo magico, quali l’esistenza di un Ministero della Magia e di alcuni villaggi abitati solo da maghi; imparò che nessun mago o strega nasceva già “conoscendo” la magia, ma che, proprio come per le materie scolastiche babbane, erano necessari mesi e anni di apprendimento, e che c’erano moltissime branche diverse di conoscenza; venne a sapere del Quidditch e, infine, della divisione in Case.

«Io spero di andare a Grifondoro» concluse Percy. «Bill e Charlie sono lì, e ci sono stati anche i miei genitori».

«Forte». Fera pensò che fosse stato un bene, una volta tanto, essere stata interrotta mentre leggeva: aveva ricevuto più informazioni di quante ne avrebbe potute trovare nei libri che aveva con sé. Anche Percy non sembrava antipatico; decise che avrebbe potuto andarci d’accordo. «Sai quanto manca all’arrivo?» domandò.

«Dunque…» Percy si affacciò al finestrino, e Fera lo vide illuminarsi. «Direi che ormai ci siamo». La ragazza guardò fuori a sua volta, e lo vide.

 

In tutta la sua breve vita, Fera non aveva mai trovato nulla di così bello, speciale, magico. La sagoma nera del castello si stagliava contro il cielo ormai scuro, svettando sul panorama circostante.

Era assolutamente meraviglioso. Fera tornò a provare la sensazione di trovarsi in un sogno, uno di quelli da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi. In un batter d’occhio si ritrovò sopra una barca non più grande di un guscio di noce, la tunica nera addosso e Percy seduto accanto a lei che diceva qualcosa.

«Come, scusa?» gli chiese, poiché non aveva udito nemmeno una parola.

«Ti ho chiesto se sai nuotare. Bill dice che a volte qualcuno cade nel Lago… No, Crosta, sta’ buono». Da una tasca del mantello di Percy sbucò un musetto rosa e grigio, la cui vista fece sobbalzare Fera. «Scusa, il mio topo è un po’ agitato».

«Santo cielo». Fera non aveva nulla contro gli animali, anzi, ma stabilì che quel topo doveva stare lontano da lei il più possibile.

La traversata in barca fu curiosamente tranquilla: nessuno cadde in acqua, anche se una ragazzina si era sporta troppo e il traghettatore, un uomo gigantesco, l’aveva dovuta acchiappare prima che fosse troppo tardi. Tutti gli studenti di primo anno, compreso Percy, ammutolirono al momento di attraversare l’enorme portone di quercia; quando poi apparve la professoressa McGranitt dietro di esso, il cuore di Fera fece un piccolo balzo. Era il primo volto familiare che incrociava da ore.

La professoressa lasciò correre lo sguardo su tutti loro, soffermandosi un secondo quando arrivò a Fera – doveva essere un cenno di saluto, e la ragazza lo interpretò come tale. La professoressa disse alcune parole di benvenuto, spiegò la divisione in Case e la cerimonia dello Smistamento (tutte cose che Fera aveva già imparato poco prima) e, dopo qualche minuto, li introdusse nella Sala Grande.

Se l’esterno del castello era meraviglioso, l’interno non aveva paragoni. Ma la sensazione di stupore che provò Fera fu presto soppiantata da un’altra, più potente: la consapevolezza di essere a casa. I suoi genitori potevano essere Babbani, così come tutta la sua stirpe, ma lei apparteneva a un altro mondo, quel mondo, e finalmente lo vedeva con chiarezza.

Si riscosse. Uno sgabello era stato portato davanti al tavolo dei professori, e sopra di esso stava un orrido cappello rappezzato. Di lì a pochi istanti, sarebbe iniziato lo Smistamento.

 

I cognomi degli studenti venivano snocciolati senza posa: il Cappello Parlante non impiegava mai più di qualche secondo a decidere in quale Casa mandarli. In treno, Percy le aveva spiegato brevemente che l’appartenenza all’una o all’altra Casa dipendeva da diversi criteri, e Fera bruciava di curiosità.

Cosa avrebbe visto in lei il Cappello? Coraggio, lealtà, astuzia, intelligenza? Nemmeno lei lo sapeva. All’improvviso, si sentì priva di qualsiasi virtù. Cos’era lei, se non una ragazzina timida che non aveva mai nemmeno visto una magia in vita sua? Un senso di malessere la colse.

Proprio in quel momento, la voce stentorea della professoressa McGranitt chiamò il suo nome: Fera lo sentì risuonare nella Sala, e impallidì. Si girò verso Percy, che per tutto il tempo era rimasto al suo fianco – e che, ora lo vedeva per la prima volta, era leggermente più basso di lei. «In bocca al lupo» disse lui in un soffio. Deglutendo, Fera annuì e si avvicinò allo sgabello. Un secondo dopo, era avvolta dall’oscurità.

Ci furono un paio di secondi di silenzio, durante i quali Fera sentì il sangue ronzarle nelle orecchie: se la tensione l’avesse fatta svenire lì, davanti a tutti, cosa sarebbe successo?

«Oh, molto bene», disse poi una vocina, «molto interessante. Sveglia, arguta e creativa. È fin troppo facile capire dove mandarti. CORVONERO» gridò infine il Cappello.

Fera sentì l’intera Sala applaudire; quando si tolse il Cappello, vide che ad esultare con maggior forza erano proprio i Corvonero, dal secondo tavolo a sinistra. Sorridendo di sollievo ed emozione, Fera li raggiunse. Se è un sogno, per favore, non farmi svegliare mai più.

Strinse le mani ai Prefetti e si sedette accanto a un certo Paul, del primo anno; d’istinto cercò con lo sguardo Percy, ancora tra quelli da Smistare: lui sembrava dispiaciuto, ma un secondo dopo le sorrise.

“Chissà se il Cappello lo accontenterà?” si domandò Fera. Si guardò attorno e considerò ancora una volta dov’era, le persone con cui era, e chi era.

Sveglia, arguta e creativa. E una strega.

 

*****

 

1 settembre 1988

 

Pioveva.

Gli studenti del primo anno attraversavano Hogwarts in barca, guardando il castello per la prima volta, e pioveva.

Di male in peggio, realizzò Med.

La sua bagnarola ondeggiava sul lago – si era mai visto un lago mosso? Forse tutti i laghi avevano finto di essere un lucido specchio d'acqua in vista di quel giorno, per prenderla in giro e dimostrarle che il suo arrivo a Hogwarts sarebbe stato il preludio di qualcosa di molto, molto brutto. Accanto a lei, Lobelia ciarlava entusiasta dei bei ragazzi che aveva incontrato sul treno mentre Grace si ingozzava di Gelatine Tuttigusti +1.

«Non le hai ancora finite?» le chiese Med con una smorfia di disgusto.

«Ne ho comprati tre pacchetti!». Grace mostrò il numero con le dita della mano sinistra, come se volesse fieramente far sapere al mondo che era in grado di contare fino a tre. «Vuoi?».

Tanto so che beccherei la peggiore. Lo so, perché oggi non può che peggiorare.

Tuttavia lo stomaco gorgogliante di Med la spinse ad accettare una caramella. Una e solo una, perché prenderne di più avrebbe significato maggiori probabilità di insuccesso. Masticò piano, sperando con tutto il cuore che fosse mela verde, o kiwi, o erba fresca, ma quel giorno niente era dalla sua parte: broccoli.

Si trattenne dallo spingere quella grassona di Grace in acqua – Come se questo potesse risolvere qualcosa... – solo perché avevano attraccato in quel momento ai piedi del castello, sugli scogli su cui, sapeva bene, sarebbe inciampata: non importava quanto tempo avesse speso in quegli undici anni di vita ad arrampicarsi sulle scogliere vicino casa, non importavano i lividi e le sbucciature che, dopo un durissimo allenamento, l'avevano resa una scalatrice professionista; no, non importavano, perché sarebbe finita dritta nel lago se la manona di quel mezzo gigante non fosse intervenuta a salvarla. Alle sue spalle sentì ridacchiare.

Io me ne vado. Finisco questa stupida farsa e me ne vado.

Ci aveva riflettuto per gran parte del viaggio sull'Espresso per Hogwarts e per tutta la traversata del lago, ma alla fine era giunta a quella conclusione – perché, di altre, non ce n'erano proprio. Certo, tutto sarebbe stato diverso se al termine di quella giornata devastante lei fosse stata Smistata nella Casa in cui la sua famiglia materna era stata per generazioni, ma le possibilità sembravano ridotte a zero, ora che aveva scoperto che proprio a causa dell'egoismo di sua madre avrebbe reso vergogna all'intera famiglia.

 

 

Era andato tutto bene fino a quando non avevano lasciato l'Inghilterra. La notte precedente aveva dormito solo un paio d'ore, talmente era eccitata all'idea di frequentare Hogwarts; alla fine si era arresa e, per distrarsi, aveva cominciato a sfogliare uno dei tanti romanzi babbani che suo padre teneva in casa. Per questo, una volta preso posto nel suo scompartimento, aveva sentito il sonno crollare pesantemente su di lei. Non si era arresa, però, perché voleva gustarsi l'Espresso per Hogwarts, voleva salutare le figlie delle amiche di sua madre – molto più grandi di lei, perché quella non le aveva neanche fatto il favore di partorirla prima dei trent'anni – e conoscere le future compagne di scuola. Grazie al Prefetto Louis Nott, che conosceva da quando le erano spuntati i primi dentini, era stata presentata alle ragazze del primo anno con cui avrebbe volentieri condiviso lo scompartimento, Lobelia Parkinson e Grace Pucey. L'unica cosa che le due avevano in comune erano dei fratelli minori che avrebbero iniziato Hogwarts entro tre anni. A parte quello, non avrebbero potuto essere più diverse: Lobelia era alta e snella e sembrava molto più grande della sua età – tanto da attirare lo sguardo di ragazzi del terzo anno nonostante la sua faccia schiacciata; Grace era invece rotondetta e avrebbe continuato a esserlo, se davvero aveva intenzione di mangiare a ogni pasto come aveva fatto per tutta la durata del viaggio. Caratterialmente erano simili sul piano della conversazione, perché non la finivano di scambiarsi pettegolezzi e informazioni sull'estate appena passata, ma Grace rispetto a Lobelia sembrava non avere alcuna intenzione di far colpo sull'altro sesso – se questo significava dover rinunciare alle dieci Cioccorane che non aveva offerto a nessuna di loro due.

Era rimasta ad ascoltarle nonostante le palpebre pesanti finché Lobelia non aveva intrapreso il discorso dello Smistamento.

«Melissa Baker, la mia vicina di casa, due anni fa è finita a Tassorosso. Nessuno in famiglia voleva crederci, per un po' i suoi non le hanno nemmeno scritto... Sai, erano tutti Serpeverde, la famiglia del padre e quella della madre, non si aspettavano niente del genere... Ma poi è venuto fuori che il nonno paterno era un Babbano. Ti rendi conto? È morto quando il padre era un bambino, così la nonna lo ha tenuto nascosto e nessuno sapeva di avere una feccia in famiglia! Ha dovuto raccontarlo solo quando ha visto come stavano trattando Melissa».

Grace aggrottò le sopracciglia. «A me non pare di avere Babbani in famiglia».

«Certo che no, Grace! Altrimenti non sarei qui a parlarti, non credi? Non saremo imparentate direttamente con i Black, ma Malfoy – l'amichetto di mia sorella, il figlio di Lucius e Narcissa – mi ha raccontato che nello stemma della casata ha visto almeno un Parkinson e un Pucey. E sua madre è una Black, non gli avrebbe permesso di frequentare la nostra famiglia se non avessimo del sangue puro nelle vene».

«Quindi sarò a Serpeverde». Grace alzò le spalle e scartò un'altra Cioccorana, rompendola in due prima che potesse saltare via.

Lobelia annuì. «Non ci sono dubbi. E tu, Med? Sicura di non avere Babbani in famiglia?»

Med non rispose. Aveva chiuso gli occhi, fingendo di essersi addormentata per non dover rispondere alla domanda che aveva intuito sarebbe giunta presto. Si stava sentendo male. Perché i suoi non le avevano mai detto niente sui Mezzosangue? Tanti discorsi sulla Casa migliore di Hogwarts... e alla fine avevano eluso la parte più importante.

Cedette al sonno con quei pensieri nella testa, così si ritrovò a sognare lo Smistamento e il Capello Parlante che le aveva descritto sua madre la guardava e rideva di lei. «Serpeverde, eh? Una come te non può stare fra di loro... Sono i migliori, i più astuti, mentre tu non saprai mai fare neanche gli incantesimi più semplici. I Mezzosangue non sono capaci, non lo sapevi? Meglio metterti a Tassorosso, è la Casa adatta ai perdenti come te».

Nel sogno tutta la scuola l'additavamentre lei tentava di correre via, ma tra le risate generali i suoi piedi si fusero con il pavimento e due serpenti cominciarono a salirle sulle gambe, minacciandola di morte sicura finché non scoppiarono a ridere anche loro, per poi trasformarsi nei nonni che stracciavano le sue lettere e dimenticavano di averla mai avuta come nipote...

 

Da quando si era svegliata con la fronte sudata, Med continuava a riflettere, ma nessuno di quei cupi pensieri era riuscita a calmarla; al contrario, il panico le cresceva dentro a ogni minuto, a ogni cosa che andava male in quello che avrebbe dovuto essere il suo giorno, il momento più importante della sua vita.

Seguì Lobelia, Grace e gli altri primini fino a una saletta dove una professoressa con un alto chignon nero aveva pregato loro di aspettare – Med non aveva sentito il suo nome, era troppo impegnata a immaginare la propria vita da esule. Ormai aveva deciso: se il Capello non l'avesse Smistata a Serpeverde, lei sarebbe fuggita. Doveva esserci una corsa verso King's Cross, l'Espresso non sarebbe di certo rimasto lì fino a giugno; tutto ciò che Med doveva fare era declinare gentilmente l'offerta di andare a Tassorosso e uscire dal castello. Era sicura che anche altri lo avessero fatto in passato.

«Hai sentito cos'ha detto la professoressa McGranitt?» esclamò euforica Lobelia. «Fra poco tocca a noi!».

«Falle pulire la bocca» si limitò a rispondere Med, indicando con un cenno del capo Grace. Finalmente la ragazza aveva smesso di mangiare, ma aveva ancora residui di cioccolata sulle labbra e sul mento.

Med si stupì della quantità di nervosismo in quella stanza: pochi ragazzi sprizzavano felicità come Lobelia; la maggior parte si torceva le mani, ripeteva a bassa voce alcune formule magiche, controllava di avere indossato tutta la divisa. Forse, tra loro, c'era qualcuno in preda al panico all'idea di essere Smistato in una Casa diversa da quella dei suoi genitori e forse aveva scoperto da poco che non bastavano generazioni di maghi ad assicurarlo a Grifondoro o Corvonero. Forse anche loro avrebbero rifiutato e sarebbero usciti di scena, e allora Med non avrebbe dovuto andarsene da sola.

«Siete pronti?». La professoressa McGranitt era appena tornata e reggeva una pergamena fra le lunghe dita sottili. «Seguitemi».

Med si diede un'occhiata veloce: niente cioccolata, divisa a posto, capelli fradici. Era così intenta a controllarsi che non si accorse di nulla finché i ragazzi intorno a lei non esplosero in un ammirato: «Oooh!».

Solo allora si rese conto dello spettacolo che aveva di fronte: su quattro tavoli sedevano gli studenti già Smistati e sopra di loro splendevano gli stemmi delle Case: Grifondoro, Corvonero, Tassorosso e Serpeverde. Med non ebbe il tempo di sentire un nodo alla gola, perché seguendo gli arazzi con lo sguardo scoprì il soffitto stellato che si stendeva sopra la sua testa. Sembrava che avesse smesso di piovere, perché altrimenti si sarebbero bagnati tutti, però c'erano ancora nuvole grigie nel cielo. Si chiese come mai quella sala non avesse una copertura, ma sembrava che nessuno a parte lei si stesse ponendo quella domanda. Quando furono giunti all'altra estremità della Sala Grande, la professoressa McGranitt posizionò uno sgabello di fronte a loro e vi posizionò sopra l'oggetto che, da qualche ora, era diventata l'incubo di Med. Il Cappello Parlante incominciò a dire una filastrocca, ma lei non lo sentiva: ora il suo sguardo era puntato sul tavolo dei Tassorosso, sull'orrendo abbinamento giallo e nero, sulle stupide facce che ciascuno degli studenti lì seduti sembrava avere. Udì solo le ultime strofe della filastrocca, improvvisamente colta da un dubbio: e se Melissa Baker fosse stata Smistata a Tassorosso perché non aveva ascoltato il Capello Parlante? Se quella fosse stata la vendetta di quell'orrenda creatura sbrindellata e rattoppata?

«Ora chiamerò i vostri nomi» annunciò la McGranitt «e voi indosserete il Cappello. Ackerley, Ross?».

Il ragazzo mingherlino accanto a lei sussultò: forse neanche lui stava ascoltando. Si diresse tremante verso lo sgabello, si sedette e aspettò che la McGranitt gli posasse il Cappello Parlante sulla testa. Dopo qualche secondo di riflessione, quello urlò: «TASSOROSSO!».

Il cuore di Med mancò un battito. Aveva solo ipotizzato che Ross non stesse ascoltando... e il Cappello, indispettito, l'aveva messo a Tassorosso.

«Caldwell, Miriam?».

Miriam non ebbe neanche il tempo di sedersi, perché il Cappello urlò immediatamente: «CORVONERO!».

«Diggory, Cedric?».

Lobelia le diede una gomitata nel fianco. Anche senza essere richiamata da lei, Med avrebbe osservato il bel ragazzo che si stava avvicinando allo sgabello perché non poteva fare a meno di tenere gli occhi su ciascuno dei nuovi studenti. Cedric sembrava sicuro di sé, proprio come Miriam, e forse era così che lei doveva apparire: tranquilla, priva di dubbi, e tutto sarebbe andato bene.

«TASSOROSSO!».

Non riusciva a crederci. E, cosa ancora più incredibile, Cedric sembrava felicissimo della sua assegnazione! Sentì Lobelia bofonchiare accanto a lei: «Non era neanche tanto carino...». Ma non la stava ascoltando. Ora non ascoltava più niente. C'erano solo il suo cuore e le urla del Cappello.

Furono Smistati tre Grifondoro di fila, poi finalmente iniziò il turno dei Serpeverde; due Corvonero, un Serpeverde, un Grifondoro, un altro Corvonero, Tassorosso...

Quando l'ennesimo Grifondoro ebbe preso posto nella tavola della propria Casa, Grace cominciò ad agitarsi. «Ha chiamato Johnson. Fra poco tocca a noi... Oh, Lobelia...».

«State tranquille, ragazze: vi terrò un posto».

Lobelia rimase calma anche mentre la McGranitt posava il Cappello sulla sua testa. Med la vide aggrottare le sopracciglia, forse perché ci stava mettendo più del previsto, ma alla fine l'urlo fu: «SERPEVERDE!».

«Pucey, Grace?».

Nel suo caso, il Cappello si limitò a sfiorarle i folti capelli biondi. «SERPEVERDE!».

Toccava a lei, c'erano quasi. Alicia Spinnet fu assegnata a Grifondoro, poi la McGranitt chiamò il suo nome.

Sembrava che il mondo si fosse spento attorno a lei: non si udiva più il chiacchiericcio basso degli studenti, c'era solo il battito del suo cuore. Si sedette sullo sgabello, realizzando che finora nessuno si era opposto al volere del Cappello Parlante, nessuno era uscito dalla Sala Grande per tornare a casa, in una scuola babbana o in un'altra scuola di magia: lei sarebbe stata la prima. Si sentiva osservata mentre il copricapo pieno di strappi veniva posto sui suoi capelli bagnati.

«C'è astuzia qui...». Med sobbalzò, aspettandosi tutto tranne che il Cappello dicesse altro oltre al nome della Casa; guardando davanti a sé, tuttavia, notò che nessuno sembrava farci caso. Forse poteva sentirlo solo lei. «Fierezza, orgoglio e una buona dose di coraggio... Lealtà? Lo scopriremo nel tempo. Hai desiderio di imparare, lo vedo... La tua Casa potrebbe guadagnare da te...».

Serpeverde, Serpeverde...

Non sapeva se il Cappello potesse leggerle nei pensieri, le bastava continuare a sperare con tutto il cuore.

Serpeverde, anche se sono una Mezzosangue... Serpeverde...

«Ti accontenterò: SERPEVERDE!»

La sala riprese vita dopo quelle parole. Med sgranò gli occhi, li puntò sul tavolo di Serpeverde e vide Lobelia e Grace applaudire felici, e Louis che applaudiva più di tutti gli altri. Saltò giù dallo sgabello e corse a prendere posto nel suo tavolo, nella sua Casa, all'inizio della sua grande avventura.

Il sorriso non accennò a lasciarla per il resto della serata.


  
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