Ormai dovreste sapere bene chi siamo. Nella remota ipotesi in cui non lo sappiate, ci dispiace per voi, perché ora dovrete sorbirvi una lunghissima introduzione sui perché e i percome della long che avete appena aperto.
LUNGHISSIMA INTRODUZIONE:
Anzitutto, il nome. FeraNoir è il mostro bicefalo generato dall’unione di due creature mitologiche: MedusaNoir (bravissima autrice di fanfiction e originali) e ferao (che si atteggia a fanwriter ma tanto lo sanno tutti che è solo una cazzara). MedusaNoir e ferao sono su EFP da anni, hanno scritto valanghe di roba, esplorato diversi generi in fandom di tutti i tipi e raccolto, ciascuna nel proprio ambito, un certo consenso; insomma, non le si potrebbe definire “fanwriter alle prime armi” neanche sotto l’effetto di roba pesante.
Orbene, nel lontano 2012 è accaduto qualcosa tra queste due autrici. Per farla breve, senza rivangare penose discussioni a base di “Fera puzza!” e “Med puzza di più!”, un giorno MedusaNoir vinse una scommessa con ferao: in virtù di ciò, fu “autorizzata” a pubblicare una fanfiction in cui detta ferao appariva come personaggio e interagiva con Percy Weasley, ossia l’essere più immondo tra quelli partoriti dalla penna di JK Rowling.
Era solo l’inizio, naturalmente: più avanti fu ferao a vincere una scommessa, e stavolta MedusaNoir dovette scrivere e pubblicare un’altra fanfiction in cui era lei stessa a interagire col succitato Percy (interagire a rating rosso, s’intende. Sia mai che chi perde una scommessa con ferao abbia una vita facile).
Da
quel momento, le cose sono degenerate. Le due
fanwriter si sono lasciate prendere un po’ la mano, e in men
che non si dica
hanno costruito un intero universo alternativo (il Ferusaverse) di cui
entrambe
fanno parte e in cui hanno una vera e propria esistenza, con tanto di
trama e
caratterizzazione. Hanno, insomma, scoperchiato quel vaso di Pandora
chiamato self insertion.
Ebbene sì: dopo anni e anni trascorsi a perfezionarsi come autrici, MedusaNoir e ferao sono tornate allo stadio primordiale inserendo se stesse nelle loro fanfiction, come le più debosciate ficcynare alle prime armi.
Che disagio.
Ma ehi, ne sono nate alcune storie davvero fighe: le trovate tutte qui (https://www.facebook.com/notes/859338110830188/), ordinate secondo la cronologia interna del Ferusaverse; se volete leggerle nell’ordine in cui le abbiamo pubblicate, non temete, lo troverete alla fine di questo spiegone. Il consiglio è di leggere almeno “Atterrerò sulle tue spine” prima della long, tanto per cominciare a capirci qualcosa.
Noterete che i titoli non hanno senso: questo perché ciascuno di essi è un verso di “Laphroaig” (sì, bravi, come il whiskey), una canzone bellissima che è stata suonata per la prima volta la sera in cui MedusaNoir e ferao si sono conosciute. Che ci volete fare, siamo due romanticone.
La nostra serie “Laphroaig”, insomma, è nata come uno scherzo tra ragazzine ed è diventata sempre più grande, fino a farci decidere di scrivere la storia definitiva. Quella in cui raccontare, una volta per tutte, come ci immaginiamo il nostro universo: le famiglie di Med e Fera, i loro amici, la scuola e il lavoro, il tutto inserito all’interno del canon più rigoroso.
Quello che state per leggere è il risultato. Una fanfiction che nasce dallo svago più puro, scritta perché dopo anni di fanwriting serio abbiamo deciso che non ce ne frega niente, vai di self insertion, voglio proprio vedere come mi sta la divisa di Hogwarts. Ci abbiamo messo noi stesse, letteralmente, e speriamo che vi piaccia o che perlomeno vi intrattenga.
Bene, questa era l’introduzione per chi non ci conosceva. Per chi ci conosce e sa già in quale circolo vizioso siamo cadute: gente, eccovi la vera storia dietro tutte le Perao e le Pedusa che vi siete sciroppati finora. Abbiatene cura. È figlia nostra e le vogliamo bene, nonostante tutto.
Mentre i pennuti suoneranno da un cielo ametista
Laphroaig (dovevamo essere ubriache)
Canzoni angeliche ma prive di logica
Vatti a fidare del Bagno dei Prefetti
What
happens in dreamland, stays in dreamland. Or not?
Ed assaggerò un sorso di Laphroaig
Aspetterò che il vento si calmi
LAPHROAIG
GLI ANNI DI HOGWARTS
PROLOGO
1 settembre 1987
Con la netta
sensazione di camminare in un sogno, Fera si avvicinò alla
barriera che
separava il binario 9 dal binario 10 nella stazione di King’s
Cross. Ancora non
era sicura della realtà
di quanto la
circondava: poco più di un mese prima, un gufo aveva bussato
alla sua finestra
recandole una lettera dal contenuto semplicemente assurdo; qualche
giorno dopo,
una donna era venuta a casa sua, presentandosi come
“professoressa”, a
convincere i suoi genitori che no,
non c’era nulla di assurdo, e che sì,
esisteva un luogo chiamato Hogwarts in cui ragazzi e ragazze come Fera
potevano
conseguire l’istruzione più adatta a loro
– ragazzi e ragazze che, come Fera,
facevano scoppiare lampadine e levitare oggetti senza volerlo. Da quel
momento
in poi, erano successe così tante cose meravigliose e
inspiegabili che Fera era
convinta fossero parti di un lungo, splendido sogno.
«Bene, eccoci
arrivati» sospirò suo padre. Non aveva parlato
molto durante il viaggio fino a
Londra: doveva essere molto più teso di quanto desse a
vedere. «La
professoressa McGranitt ha detto che potevamo accompagnarti solo fin
qui…».
«Sì, lo
so».
L’uomo sospirò
di nuovo, poi si strinse nelle spalle. «Mi raccomando,
comportati bene» disse
poi. «E se hai problemi, telefona».
«Quanto sei
sciocco: non ci sono telefoni nel posto in cui va, ricordi? Non
funzionerebbero» intervenne la madre di Fera, roteando gli
occhi. Quindi
abbracciò la figlia e le schioccò un bacio su una
guancia. «Mangia, mi
raccomando. E studia. E non trasformare tutti in rospi solo
perché ti fanno
arrabbiare».
Fera ricambiò
l’abbracciò, poi salutò anche suo
padre. Stava iniziando a realizzare che nulla
di quanto la circondava era un
sogno: era davvero in procinto di partire per una meta sconosciuta, e
avrebbe
rivisto i suoi genitori solo di lì a qualche mese.
Cercò di non mostrare
apprensione mentre spingeva il suo bagaglio verso la barriera di
mattoni.
“Procedi dritta
senza esitazioni”, aveva detto la professoressa McGranitt.
Mosse i piedi in
direzione della barriera, cercando di non pensare a quante cose
potevano andare
storte in quel momento – magari il passaggio era chiuso, o
non esisteva nessun passaggio, o il
suo carrello si
sarebbe rotto…
«E ricorda, se
qualcuno ti tratta male gli facciamo causa!»
Fera fece per
voltarsi e ridere alla battuta di sua madre, ma dietro di lei
c’era solo un
solido muro di mattoni rosso cupo. Ce l’aveva fatta: era
passata, giusto in
tempo per salire sul suo treno.
In tutta la sua
brevissima vita, Fera non ricordava di aver mai visto così
tanti ragazzi tutti
assieme. Il paese da cui proveniva era piccolo e tutti si conoscevano
tra di
loro, perciò ritrovarsi in mezzo a una tale folla fu per lei
un piccolo shock.
Istintivamente strinse le spalle e abbassò il capo, come
aveva fatto la prima
volta che era entrata in Diagon Alley; una volta salita sul treno,
camminò di
vagone in vagone cercando uno scompartimento che non fosse
già occupato, e
quando lo trovò vi si lanciò dentro con un
sospiro di sollievo.
“Fatti tanti
amici”, aveva detto sua madre. “Fosse
facile”, aveva pensato lei. La verità era
che Fera era timida e non cercava di nasconderlo. Fosse dipeso da lei,
si
sarebbe chiusa in casa e avrebbe passato la vita a leggere, fine.
A
proposito di leggere.
Con un sorriso, Fera aprì lo zainetto che aveva portato con
sé in treno e ne
rimirò il contenuto: i suoi libri di scuola, nuovi e
profumati di pergamena,
che aspettavano solo di essere sfogliati.
Era indecisa se
aprire prima quello sulla trasfigurazione, quello sulla storia della
magia o
quello sulla teoria degli incantesimi. Sembravano tutti interessanti, e
lei
aveva così tanto da imparare! Gli altri ragazzi, nati e
cresciuti in famiglie
magiche, sarebbero stati di sicuro molto più avanti rispetto
a lei: doveva
provare, se non a rimettersi al pari con loro, almeno a raggiungere un
livello
di conoscenza che non l’avrebbe fatta sembrare una completa
ignorante al loro
confronto.
Dopo averci
riflettuto, optò per la trasfigurazione: il nome prometteva
bene. Mancavano
ormai pochi minuti alle undici, ora di partenza dell’Espresso
per Hogwarts;
Fera aveva appena iniziato a sfogliare il primo capitolo del libro,
quando udì
delle voci approssimarsi alla porta del suo scompartimento.
«… nel vagone
dei Prefetti, Perce».
«Allora posso
venire con te, Charlie?».
«No, mi vedo con
quelli della squadra». La porta si aprì di colpo,
facendo sobbalzare Fera: dal
corridoio del treno si affacciarono tre ragazzi. «Ecco, puoi
stare qua»
proseguì l’ultimo che aveva parlato.
«C’è anche una ragazza carina, cosa vuoi
di più?».
Fera storse il
naso. La consapevolezza di non essere neanche lontanamente carina le faceva cogliere una sgradevole
ironia in ogni
complimento. Non disse nulla, ma squadrò per bene i tre:
quello che aveva
appena parlato doveva avere sui quindici anni, era basso e ben
piazzato; un
altro, di sicuro il più grande, era il più bel
ragazzo che Fera avesse mai
visto, alto e con un sorriso che irradiava simpatia; il terzo indossava
grossi
occhiali, era scuro in volto e non dimostrava più di undici
anni. Tutti e tre
sfoggiavano la stessa capigliatura rosso fiamma.
«Ciao,» disse
il
più grande a Fera, «scusa il disturbo. Nostro
fratello può sedersi qui con te?»
«Bill!»
esclamò
quello con gli occhiali. «Posso fare benissimo da
solo!».
«Perfetto,
allora ti lasciamo qui. Ci vediamo a scuola!» e dandogli una
pacca sulla
spalla, Bill si allontanò dallo scompartimento. Il ragazzo
più basso scompigliò
i capelli al fratello, poi guardò Fera e le sorrise.
«Controlla che faccia il
bravo» disse, prima di andarsene a sua volta.
Il ragazzino con
gli occhiali lo seguì con lo sguardo,
un’espressione tra il mesto e
l’arrabbiato dipinta in volto. Dopo qualche
secondo sospirò, si risistemò con
cura i capelli e si rivolse per la prima volta a Fera.
«Posso sedermi?
Il treno è quasi tutto pieno…».
Fera annuì e
fece per spostare lo zaino, ma lui si accomodò nel sedile
posto in diagonale
rispetto a lei. «Scusa per… beh, loro»
disse poi, alludendo agli altri ragazzi. «I miei fratelli
amano prendermi in
giro».
«Nessun
problema». Fera gli rivolse un sorriso rassicurante, poi
tornò a immergersi nel
libro. Non amava chiacchierare, soprattutto con gli sconosciuti, e di
solito
l’essere presa dalla lettura la salvava dalle conversazioni.
Quella volta non
fu così: il ragazzo si sporse per vedere il titolo del libro
e si illuminò.
«Sei del primo
anno anche tu?».
Trattenendosi
dallo sbuffare, Fera alzò gli occhi.
«Sì».
«Anche io!» Il
ragazzo fece un gran sorriso e le tese la mano. «Mi chiamo
Percy».
Stavolta sbuffò
davvero. «Fera» rispose, stringendogli la mano.
«Stai già
studiando Trasfigurazione?» Senza attendere risposta, Percy
aprì la propria
borsa e ne estrasse una copia dello stesso libro di Fera, solo
più consunta.
«Ho provato anch’io a dare un’occhiata.
Sembra una materia molto complicata,
però è interessante, non trovi?».
«Non saprei.
Sono arrivata solo a pagina cinque…».
«Non vedo l’ora
di imparare a trasfigurare gli oggetti» la interruppe lui,
ignorandola. «Bill
dice che la professoressa McGranitt…».
«McGranitt?»
Fera
spalancò gli occhi. «È venuta a casa
mia, un mese fa, dopo che ho ricevuto la
mia lettera».
«A casa tua?
Perché, tu…» Percy si sistemò
gli occhiali e la osservò per un secondo.
«Sei…
sei figlia di Babbani, per caso?».
Fera annuì. Aveva
imparato che “Babbani” indicava le persone normali,
o meglio, quelle prive di
poteri magici: i suoi genitori, avvocati irlandesi senza la minima
traccia di
magia nel sangue, rientravano perfettamente nella descrizione.
Percy la squadrò
ancora per qualche istante, poi fece un enorme sorriso.
«Caspita. Chissà com’è
interessante la tua vita!».
«Eh?!».
«Sì,
insomma…
vivi coi Babbani!» Percy
si piegò in
avanti. «Mio padre ha un sacco di libri su di loro, dice che
riescono a fare
cose incredibili senza magia… È vero?»
Un po’
sconcertata, Fera si ritrovò a raccontare come fosse la
giornata-tipo di una
famiglia non magica, dal suono della sveglia a pile fino allo
spegnimento della
televisione la sera. Tutto ciò che aveva sempre considerato
“normale” appariva
straordinario agli occhi di quel ragazzo – e sì
che lui proveniva da una
famiglia di maghi!
«E voi, invece,
come vivete?» chiese Fera, una volta finito il suo racconto.
«Immagino che tu
sappia già un sacco di incantesimi…».
«Beh, in
realtà
no». Percy ridacchiò. «Andiamo a scuola
apposta per impararli. Inoltre, non
possiamo fare magie fuori da Hogwarts fino alla maggiore
età».
«Cosa?!».
«Sì.
È una
questione di sicurezza».
«Oh». Fera ci
rimase male. Sperava, una volta tornata a casa, di mostrare qualche
magia ai
suoi. «Comunque,» riprese, «di sicuro la
vita è più facile per voi maghi. Tipo,
le faccende di casa…».
«Beh…
sì,
suppongo». Percy si grattò la testa.
«Voglio dire, mia madre ci mette sempre un
sacco a mettere in ordine casa nostra, ma forse dipende dal fatto che
siamo in
nove…».
«Nove? Siete in nove?».
Percy annuì. Il
libro di Trasfigurazione giacque dimenticato accanto a Fera, mentre
questa
ascoltava rapita le vicende della famiglia Weasley: scoprì
molte cose che la
professoressa McGranitt non le aveva detto circa il mondo magico, quali
l’esistenza di un Ministero della Magia e di alcuni villaggi
abitati solo da
maghi; imparò che nessun mago o strega nasceva
già “conoscendo” la magia, ma
che, proprio come per le materie scolastiche babbane, erano necessari
mesi e
anni di apprendimento, e che c’erano moltissime branche
diverse di conoscenza;
venne a sapere del Quidditch e, infine, della divisione in Case.
«Io spero di
andare a Grifondoro» concluse Percy. «Bill e
Charlie sono lì, e ci sono stati
anche i miei genitori».
«Forte». Fera
pensò che fosse stato un bene, una volta tanto, essere stata
interrotta mentre
leggeva: aveva ricevuto più informazioni di quante ne
avrebbe potute trovare
nei libri che aveva con sé. Anche Percy non sembrava
antipatico; decise che
avrebbe potuto andarci d’accordo. «Sai quanto manca
all’arrivo?» domandò.
«Dunque…»
Percy
si affacciò al finestrino, e Fera lo vide illuminarsi.
«Direi che ormai ci
siamo». La ragazza guardò fuori a sua volta, e lo vide.
In tutta la sua
breve vita, Fera non aveva mai trovato nulla di così bello,
speciale, magico. La sagoma nera
del castello si
stagliava contro il cielo ormai scuro, svettando sul panorama
circostante.
Era
assolutamente meraviglioso. Fera tornò a provare la
sensazione di trovarsi in
un sogno, uno di quelli da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi. In un
batter
d’occhio si ritrovò sopra una barca non
più grande di un guscio di noce, la
tunica nera addosso e Percy seduto accanto a lei che diceva qualcosa.
«Come, scusa?»
gli chiese, poiché non aveva udito nemmeno una parola.
«Ti ho chiesto
se sai nuotare. Bill dice che a volte qualcuno cade nel
Lago… No, Crosta, sta’
buono». Da una tasca del mantello di Percy sbucò
un musetto rosa e grigio, la
cui vista fece sobbalzare Fera. «Scusa, il mio topo
è un po’ agitato».
«Santo cielo».
Fera non aveva nulla contro gli animali, anzi, ma stabilì
che quel topo doveva stare lontano
da lei il più
possibile.
La traversata in
barca fu curiosamente tranquilla: nessuno cadde in acqua, anche se una
ragazzina
si era sporta troppo e il traghettatore, un uomo gigantesco,
l’aveva dovuta
acchiappare prima che fosse troppo tardi. Tutti gli studenti di primo
anno,
compreso Percy, ammutolirono al momento di attraversare
l’enorme portone di
quercia; quando poi apparve la professoressa McGranitt dietro di esso,
il cuore
di Fera fece un piccolo balzo. Era il primo volto familiare che
incrociava da
ore.
La professoressa
lasciò correre lo sguardo su tutti loro, soffermandosi un
secondo quando arrivò
a Fera – doveva essere un cenno di saluto, e la ragazza lo
interpretò come
tale. La professoressa disse alcune parole di benvenuto,
spiegò la divisione in
Case e la cerimonia dello Smistamento (tutte cose che Fera aveva
già imparato
poco prima) e, dopo qualche minuto, li introdusse nella Sala Grande.
Se l’esterno del
castello era meraviglioso, l’interno non aveva paragoni. Ma
la sensazione di
stupore che provò Fera fu presto soppiantata da
un’altra, più potente: la
consapevolezza di essere a casa. I
suoi genitori potevano essere Babbani, così come tutta la
sua stirpe, ma lei
apparteneva a un altro mondo, quel
mondo, e finalmente lo vedeva con chiarezza.
Si riscosse. Uno
sgabello era stato portato davanti al tavolo dei professori, e sopra di
esso
stava un orrido cappello rappezzato. Di lì a pochi istanti,
sarebbe iniziato lo
Smistamento.
I cognomi degli
studenti venivano snocciolati senza posa: il Cappello Parlante non
impiegava
mai più di qualche secondo a decidere in quale Casa
mandarli. In treno, Percy
le aveva spiegato brevemente che l’appartenenza
all’una o all’altra Casa
dipendeva da diversi criteri, e Fera bruciava di curiosità.
Cosa avrebbe
visto in lei il Cappello? Coraggio, lealtà, astuzia,
intelligenza? Nemmeno lei
lo sapeva. All’improvviso, si sentì priva di
qualsiasi virtù. Cos’era lei, se
non una ragazzina timida che non aveva mai nemmeno visto
una magia in vita sua? Un senso di malessere la colse.
Proprio in quel
momento, la voce stentorea della professoressa McGranitt
chiamò il suo nome:
Fera lo sentì risuonare nella Sala, e impallidì.
Si girò verso Percy, che per
tutto il tempo era rimasto al suo fianco – e che, ora lo
vedeva per la prima
volta, era leggermente più basso di lei. «In bocca
al lupo» disse lui in un
soffio. Deglutendo, Fera annuì e si avvicinò allo
sgabello. Un secondo dopo,
era avvolta dall’oscurità.
Ci furono un
paio di secondi di silenzio, durante i quali Fera sentì il
sangue ronzarle
nelle orecchie: se la tensione l’avesse fatta svenire
lì, davanti a tutti, cosa
sarebbe successo?
«Oh, molto
bene», disse poi una vocina, «molto interessante.
Sveglia, arguta e creativa. È
fin troppo facile capire dove mandarti. CORVONERO»
gridò infine il Cappello.
Fera sentì
l’intera Sala applaudire; quando si tolse il Cappello, vide
che ad esultare con
maggior forza erano proprio i Corvonero, dal secondo tavolo a sinistra.
Sorridendo di sollievo ed emozione, Fera li raggiunse. Se
è un sogno, per favore, non farmi svegliare mai
più.
Strinse le mani
ai Prefetti e si sedette accanto a un certo Paul, del primo anno;
d’istinto
cercò con lo sguardo Percy, ancora tra quelli da Smistare:
lui sembrava
dispiaciuto, ma un secondo dopo le sorrise.
“Chissà se il
Cappello lo accontenterà?” si domandò
Fera. Si guardò attorno e considerò
ancora una volta dov’era, le persone con cui era, e chi era.
Sveglia, arguta e creativa. E una strega.
*****
1 settembre 1988
Pioveva.
Gli studenti del
primo anno attraversavano Hogwarts in barca, guardando il castello per
la prima
volta, e pioveva.
Di
male in peggio,
realizzò Med.
La sua bagnarola
ondeggiava sul lago – si era mai visto un lago mosso? Forse
tutti i laghi
avevano finto di essere un lucido specchio d'acqua in vista di quel
giorno, per
prenderla in giro e dimostrarle che il suo arrivo a Hogwarts sarebbe
stato il
preludio di qualcosa di molto, molto brutto. Accanto a lei, Lobelia
ciarlava
entusiasta dei bei ragazzi che aveva incontrato sul treno mentre Grace
si
ingozzava di Gelatine Tuttigusti +1.
«Non le hai
ancora finite?» le chiese Med con una smorfia di disgusto.
«Ne ho comprati
tre pacchetti!». Grace mostrò il numero con le
dita della mano sinistra, come
se volesse fieramente far sapere al mondo che era in grado di contare
fino a
tre. «Vuoi?».
Tanto
so che beccherei la peggiore. Lo so, perché oggi non
può che peggiorare.
Tuttavia lo stomaco
gorgogliante di Med la spinse ad accettare una caramella. Una e solo
una,
perché prenderne di più avrebbe significato
maggiori probabilità di insuccesso.
Masticò piano, sperando con tutto il cuore che fosse mela
verde, o kiwi, o erba
fresca, ma quel giorno niente era
dalla sua parte: broccoli.
Si trattenne
dallo spingere quella grassona di Grace in acqua – Come se questo potesse risolvere qualcosa...
– solo perché avevano
attraccato in quel momento ai piedi del castello, sugli scogli su cui,
sapeva bene,
sarebbe inciampata: non importava quanto tempo avesse speso in quegli
undici
anni di vita ad arrampicarsi sulle scogliere vicino casa, non
importavano i
lividi e le sbucciature che, dopo un durissimo allenamento, l'avevano
resa una
scalatrice professionista; no, non importavano, perché
sarebbe finita dritta
nel lago se la manona di quel mezzo gigante non fosse intervenuta a
salvarla.
Alle sue spalle sentì ridacchiare.
Io
me ne vado. Finisco questa stupida farsa e me ne vado.
Ci aveva
riflettuto per gran parte del viaggio sull'Espresso per Hogwarts e per
tutta la
traversata del lago, ma alla fine era giunta a quella conclusione
– perché, di
altre, non ce n'erano proprio. Certo, tutto sarebbe stato diverso se al
termine
di quella giornata devastante lei fosse stata Smistata nella Casa in
cui la sua
famiglia materna era stata per generazioni, ma le
possibilità sembravano
ridotte a zero, ora che aveva scoperto che proprio a causa dell'egoismo
di sua
madre avrebbe reso vergogna all'intera famiglia.
Era andato tutto
bene fino a quando non avevano lasciato l'Inghilterra. La notte
precedente
aveva dormito solo un paio d'ore, talmente era eccitata all'idea di
frequentare
Hogwarts; alla fine si era arresa e, per distrarsi, aveva cominciato a
sfogliare
uno dei tanti romanzi babbani che suo padre teneva in casa. Per questo,
una
volta preso posto nel suo scompartimento, aveva sentito il sonno
crollare
pesantemente su di lei. Non si era arresa, però,
perché voleva gustarsi
l'Espresso per Hogwarts, voleva salutare le figlie delle amiche di sua
madre –
molto più grandi di lei, perché quella
non le aveva neanche fatto il favore di partorirla prima dei trent'anni
– e
conoscere le future compagne di scuola. Grazie al Prefetto Louis Nott,
che
conosceva da quando le erano spuntati i primi dentini, era stata
presentata
alle ragazze del primo anno con cui avrebbe volentieri condiviso lo
scompartimento, Lobelia Parkinson e Grace Pucey. L'unica cosa che le
due
avevano in comune erano dei fratelli minori che avrebbero iniziato
Hogwarts
entro tre anni. A parte quello, non avrebbero potuto essere
più diverse:
Lobelia era alta e snella e sembrava molto più grande della
sua età – tanto da
attirare lo sguardo di ragazzi del terzo anno nonostante la sua faccia
schiacciata; Grace era invece rotondetta e avrebbe continuato a
esserlo, se
davvero aveva intenzione di mangiare a ogni pasto come aveva fatto per
tutta la
durata del viaggio. Caratterialmente erano simili sul piano della
conversazione, perché non la finivano di scambiarsi
pettegolezzi e informazioni
sull'estate appena passata, ma Grace rispetto a Lobelia sembrava non
avere
alcuna intenzione di far colpo sull'altro sesso – se questo
significava dover
rinunciare alle dieci Cioccorane che non aveva offerto a nessuna di
loro due.
Era rimasta ad
ascoltarle nonostante le palpebre pesanti finché Lobelia non
aveva intrapreso
il discorso dello Smistamento.
«Melissa Baker,
la mia vicina di casa, due anni fa è finita a Tassorosso.
Nessuno in famiglia
voleva crederci, per un po' i suoi non le hanno nemmeno scritto... Sai,
erano
tutti Serpeverde, la famiglia del padre e quella della madre, non si
aspettavano niente del genere... Ma poi è venuto fuori che
il nonno paterno era
un Babbano. Ti rendi conto? È morto quando il padre era un
bambino, così la
nonna lo ha tenuto nascosto e nessuno
sapeva di avere una feccia in famiglia! Ha dovuto raccontarlo solo
quando ha
visto come stavano trattando Melissa».
Grace aggrottò
le sopracciglia. «A me non pare di avere Babbani in
famiglia».
«Certo che no,
Grace! Altrimenti non sarei qui a parlarti, non credi? Non saremo
imparentate
direttamente con i Black, ma Malfoy – l'amichetto di mia
sorella, il figlio di
Lucius e Narcissa – mi ha raccontato che nello stemma della
casata ha visto
almeno un Parkinson e un Pucey. E sua madre è una Black, non
gli avrebbe
permesso di frequentare la nostra famiglia se non avessimo del sangue
puro
nelle vene».
«Quindi sarò a
Serpeverde». Grace alzò le spalle e
scartò un'altra Cioccorana, rompendola in
due prima che potesse saltare via.
Lobelia annuì.
«Non ci sono dubbi. E tu, Med? Sicura di non avere Babbani in
famiglia?»
Med non rispose.
Aveva chiuso gli occhi, fingendo di essersi addormentata per non dover
rispondere alla domanda che aveva intuito sarebbe giunta presto. Si
stava sentendo
male. Perché i suoi non le avevano mai detto niente sui
Mezzosangue? Tanti
discorsi sulla Casa migliore di Hogwarts... e alla fine avevano eluso
la parte
più importante.
Cedette al sonno
con quei pensieri nella testa, così si ritrovò a
sognare lo Smistamento e il
Capello Parlante che le aveva descritto sua madre la guardava e rideva
di lei.
«Serpeverde, eh? Una come te non può stare fra di
loro... Sono i migliori, i
più astuti, mentre tu non saprai mai fare neanche gli
incantesimi più semplici.
I Mezzosangue non sono capaci, non lo sapevi? Meglio metterti a
Tassorosso, è
la Casa adatta ai perdenti come te».
Nel sogno tutta
la scuola l'additavamentre lei tentava di correre via, ma tra le risate
generali i suoi piedi si fusero con il pavimento e due serpenti
cominciarono a
salirle sulle gambe, minacciandola di morte sicura finché
non scoppiarono a
ridere anche loro, per poi trasformarsi nei nonni che stracciavano le
sue
lettere e dimenticavano di averla mai avuta come nipote...
Da quando si era
svegliata con la fronte sudata, Med continuava a riflettere, ma nessuno
di quei
cupi pensieri era riuscita a calmarla; al contrario, il panico le
cresceva
dentro a ogni minuto, a ogni cosa che andava male in quello che avrebbe
dovuto
essere il suo giorno, il momento
più
importante della sua vita.
Seguì Lobelia,
Grace e gli altri primini fino a una saletta dove una professoressa con
un alto
chignon nero aveva pregato loro di aspettare – Med non aveva
sentito il suo
nome, era troppo impegnata a immaginare la propria vita da esule. Ormai
aveva
deciso: se il Capello non l'avesse Smistata a Serpeverde, lei sarebbe
fuggita.
Doveva esserci una corsa verso King's Cross, l'Espresso non sarebbe di
certo
rimasto lì fino a giugno; tutto ciò che Med
doveva fare era declinare
gentilmente l'offerta di andare a Tassorosso e uscire dal castello. Era
sicura
che anche altri lo avessero fatto in passato.
«Hai sentito
cos'ha detto la professoressa McGranitt?» esclamò
euforica Lobelia. «Fra poco
tocca a noi!».
«Falle pulire la
bocca» si limitò a rispondere Med, indicando con
un cenno del capo Grace.
Finalmente la ragazza aveva smesso di mangiare, ma aveva ancora residui
di
cioccolata sulle labbra e sul mento.
Med si stupì
della quantità di nervosismo in quella stanza: pochi ragazzi
sprizzavano
felicità come Lobelia; la maggior parte si torceva le mani,
ripeteva a bassa
voce alcune formule magiche, controllava di avere indossato tutta la
divisa.
Forse, tra loro, c'era qualcuno in preda al panico all'idea di essere
Smistato
in una Casa diversa da quella dei suoi genitori e forse aveva scoperto
da poco
che non bastavano generazioni di maghi ad assicurarlo a Grifondoro o
Corvonero.
Forse anche loro avrebbero rifiutato e sarebbero usciti di scena, e
allora Med
non avrebbe dovuto andarsene da sola.
«Siete
pronti?».
La professoressa McGranitt era appena tornata e reggeva una pergamena
fra le lunghe
dita sottili. «Seguitemi».
Med si diede
un'occhiata veloce: niente cioccolata, divisa a posto, capelli fradici.
Era
così intenta a controllarsi che non si accorse di nulla
finché i ragazzi
intorno a lei non esplosero in un ammirato: «Oooh!».
Solo allora si
rese conto dello spettacolo che aveva di fronte: su quattro tavoli
sedevano gli
studenti già Smistati e sopra di loro splendevano gli stemmi
delle Case:
Grifondoro, Corvonero, Tassorosso e Serpeverde. Med non ebbe il tempo
di
sentire un nodo alla gola, perché seguendo gli arazzi con lo
sguardo scoprì il
soffitto stellato che si stendeva sopra la sua testa. Sembrava che
avesse
smesso di piovere, perché altrimenti si sarebbero bagnati
tutti, però c'erano
ancora nuvole grigie nel cielo. Si chiese come mai quella sala non
avesse una
copertura, ma sembrava che nessuno a parte lei si stesse ponendo quella
domanda. Quando furono giunti all'altra estremità della Sala
Grande, la
professoressa McGranitt posizionò uno sgabello di fronte a
loro e vi posizionò
sopra l'oggetto che, da qualche ora, era diventata l'incubo di Med. Il
Cappello
Parlante incominciò a dire una filastrocca, ma lei non lo
sentiva: ora il suo
sguardo era puntato sul tavolo dei Tassorosso, sull'orrendo abbinamento
giallo
e nero, sulle stupide facce che ciascuno degli studenti lì
seduti sembrava
avere. Udì solo le ultime strofe della filastrocca,
improvvisamente colta da un
dubbio: e se Melissa Baker fosse stata Smistata a Tassorosso
perché non aveva
ascoltato il Capello Parlante? Se quella fosse stata la vendetta di
quell'orrenda creatura sbrindellata e rattoppata?
«Ora chiamerò
i
vostri nomi» annunciò la McGranitt «e
voi indosserete il Cappello. Ackerley,
Ross?».
Il ragazzo
mingherlino accanto a lei sussultò: forse neanche lui stava
ascoltando. Si
diresse tremante verso lo sgabello, si sedette e aspettò che
la McGranitt gli
posasse il Cappello Parlante sulla testa. Dopo qualche secondo di
riflessione,
quello urlò: «TASSOROSSO!».
Il cuore di Med
mancò un battito. Aveva solo ipotizzato
che Ross non stesse ascoltando... e il Cappello, indispettito, l'aveva
messo a
Tassorosso.
«Caldwell,
Miriam?».
Miriam non ebbe
neanche il tempo di sedersi, perché il Cappello
urlò immediatamente:
«CORVONERO!».
«Diggory,
Cedric?».
Lobelia le diede
una gomitata nel fianco. Anche senza essere richiamata da lei, Med
avrebbe
osservato il bel ragazzo che si stava avvicinando allo sgabello
perché non
poteva fare a meno di tenere gli occhi su ciascuno dei nuovi studenti.
Cedric
sembrava sicuro di sé, proprio come Miriam, e forse era
così che lei doveva
apparire: tranquilla, priva di dubbi, e tutto sarebbe andato bene.
«TASSOROSSO!».
Non riusciva a
crederci. E, cosa ancora più incredibile, Cedric sembrava
felicissimo della sua
assegnazione! Sentì Lobelia bofonchiare accanto a lei:
«Non era neanche tanto
carino...». Ma non la stava ascoltando. Ora non ascoltava
più niente. C'erano
solo il suo cuore e le urla del Cappello.
Furono Smistati
tre Grifondoro di fila, poi finalmente iniziò il turno dei
Serpeverde; due
Corvonero, un Serpeverde, un Grifondoro, un altro Corvonero,
Tassorosso...
Quando
l'ennesimo Grifondoro ebbe preso posto nella tavola della propria Casa,
Grace
cominciò ad agitarsi. «Ha chiamato Johnson. Fra
poco tocca a noi... Oh,
Lobelia...».
«State
tranquille, ragazze: vi terrò un posto».
Lobelia rimase
calma anche mentre la McGranitt posava il Cappello sulla sua testa. Med
la vide
aggrottare le sopracciglia, forse perché ci stava mettendo
più del previsto, ma
alla fine l'urlo fu: «SERPEVERDE!».
«Pucey, Grace?».
Nel suo caso, il
Cappello si limitò a sfiorarle i folti capelli biondi.
«SERPEVERDE!».
Toccava a lei,
c'erano quasi. Alicia Spinnet fu assegnata a Grifondoro, poi la
McGranitt
chiamò il suo nome.
Sembrava che il
mondo si fosse spento attorno a lei: non si udiva più il
chiacchiericcio basso
degli studenti, c'era solo il battito del suo cuore. Si sedette sullo
sgabello,
realizzando che finora nessuno si era opposto al volere del Cappello
Parlante,
nessuno era uscito dalla Sala Grande per tornare a casa, in una scuola
babbana
o in un'altra scuola di magia: lei sarebbe stata la prima. Si sentiva
osservata
mentre il copricapo pieno di strappi veniva posto sui suoi capelli
bagnati.
«C'è astuzia
qui...». Med sobbalzò, aspettandosi tutto tranne
che il Cappello dicesse altro
oltre al nome della Casa; guardando davanti a sé, tuttavia,
notò che nessuno
sembrava farci caso. Forse poteva sentirlo solo lei.
«Fierezza, orgoglio e una
buona dose di coraggio... Lealtà? Lo scopriremo nel tempo.
Hai desiderio di
imparare, lo vedo... La tua Casa potrebbe guadagnare da
te...».
Serpeverde,
Serpeverde...
Non sapeva se il
Cappello potesse leggerle nei pensieri, le bastava continuare a sperare
con
tutto il cuore.
Serpeverde,
anche se sono una Mezzosangue... Serpeverde...
«Ti
accontenterò: SERPEVERDE!»
La sala riprese
vita dopo quelle parole. Med sgranò gli occhi, li
puntò sul tavolo di
Serpeverde e vide Lobelia e Grace applaudire felici, e Louis che
applaudiva più
di tutti gli altri. Saltò giù dallo sgabello e
corse a prendere posto nel suo
tavolo, nella sua Casa, all'inizio
della sua
grande avventura.
Il sorriso non
accennò a lasciarla per il resto della serata.