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Autore: Suzerain    23/03/2016    3 recensioni
Non sopporta nemmeno lo sgargiante rosso della propria felpa, il rubino di cui sempre ha fatto vanto.
Non sopporta d’indossare quel colore, se intorno non ve n’è nessun altro.
«E’ meglio così.» ripete.

Bugiardo.
{osomatsu!centric | post!episodio 24}
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Osomatsu Matsuno
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: The blooming sadness of the flower.
Autrice: Suzerain
Fandom: Osomatsu-san! (おそ松さん)
Pairing: //
Personaggi: Osomatsu Matsuno.
Desclaimer: Osomatsu-san e i suoi personaggi non mi appartengono, e sono sotto il copyright di Fujio Akatsuka. L'icon utilizzata e le situazioni narrate sono invece di mia proprietà.
Ambientazione: Post episodio 24.
Note dell'autrice : Osomatsu Matsuno è uno dei personaggi che mi ha maggiormente sorpresa, nel senso che benché mi sia sentita affine a lui sin dal primo istante perché di me condivideva e condivide alcuni dei più assurdi difetti, mai mi sarei aspettata che avesse in comune con me persino questo.
Volevo rendergli giustizia in qualche modo. Volevo scrivere delle parole che parlassero di lui. Spero d’essere riuscita nel mio intento.
La narrazione è pesante, me ne rendo conto. Contrariamente a quanto faccio di solito non ho riletto molto. Ho lasciato che le parole scorressero e basta. Ho pensato che fosse meglio così.
Come al solito il titolo non rende per niente, ma va be’.

 

Brilla la luna, sovrana in un cielo privo di stelle. S’eleva al di sopra di ogni cosa indossando un abito fatto di luce e che nel suo candore acceca, così che quasi tentato dal rifuggirvi è lo sguardo; non parla, non emette sentenze alcune. Amorevole madre del mondo, silenziosa osserva con occhi stanchi ciò che sulla superficie del suo frutto accade; osserva ciò ch’un tempo è stato attendendo che muti la sua natura e divenga altro, lasciandosi alle spalle il proprio passato senza commettere d’Orfeo l’errore di guardarsi indietro.
Prima di quel momento non si è mai soffermato a guardarla, Osomatsu. Seduto in una stanza che della nostalgia ha il profumo e che in ogni sua singola parte lo ferisce più di quanto le carni lacererebbe una lama, quasi se ne domanda il motivo; ma alla fine quell’interrogativo sfuma come ogni altra cosa – nemmeno prova a trattenerlo. Non è da lui.
Dolce. Dolce è l’odore che riempie le sottili pareti che per anni ha considerato rifugio, come quelll’infante di cui si è cucito addosso il ruolo. Rifugio da un mondo che non era pronto ad affrontare e da ciò che al di là delle stesse l’avrebbe atteso, rifugio dai rifiuti che l’han ferito ogni qual volta ne ha fatto collezione; pareti di cartapesta che dal dolore l’avrebbero protetto e dalla solitudine tenuto lontano. Mura ch’avrebbero a quei demoni che nel sonno l’hanno talvolta agitato impedito di raggiungerlo e quanto aveva di più caro portargli via.
E’ una dolcezza asfissiante che gli riempie i polmoni e a poco a poco lo soffoca, rendendo difficoltoso un atto naturale come il respiro. Gli danza intorno assieme al vuoto e lui non ha la forza di ribattere. Lascia che si beffi di lui. Le permette di beffarsi del dolore che il guscio vuoto che nel petto gli batte attanaglia.

I vetri della finestra sembrano per la prima volta troppo grandi. Tremano, quando fuori si alza il vento e degli alberi le chiome si agitano, come ad unirsi al sussurro di quella voce distante che poco dopo s’insinua attraverso i piccoli spiragli nel legno lasciati lì dal tempo. Ne sente l’abbraccio, il gelido tocco contro la pelle; lo fa tremare, mentre al centro del nulla ancora siede, gli occhi carmini dalla luna ancora attirati. Intorno non osa guardarsi, altri suoni seguita ad evitare; solo a quella voce permette di guidarlo, a quell’invisibile carezza di sfiorare una guancia umida e da una singola lacrima solcata.
Si rimprovera d’essere sciocco, d’essere debole. Si rimprovera d’essere stato dall’egoismo divorato e da quell’insieme d’emozioni negative assorbito sino a ritrovarsi alle stesse unito, entità unica e di purezza priva.
Trova in quel tocco gelido il conforto che in passato a dargli era un sorriso identico al suo e che ora, mentre i denti mordono con forza il labbro inferiore, sente di non aver il diritto nemmeno di ricordare.  
«E’ meglio così.» sussurra.
La bocca sa ancora di menzogna.

Quando si mette in piedi le gambe formicolano ed è vertigine ciò che lo coglie, il vuoto. E’ un tronco marcio e dagli animali divorato che si regge su convinzioni fasulle – è vuoto come mai in vent’anni di vita è stato, nemmeno negli attimi più bui di un’esistenza priva di significato.
Al suono dei suoi passi scricchiola il legno, producendo un rumore sordo e che gli dà l’impressione di riecheggiare per la prima volta. Lo odia perché s’appropria di qualcosa non suo, di un ambiente che da altro dovrebbe essere occupato – altri erano suoni che sempre avevano fatto da padrone, quella strana mescolanza di voci che nell’aria si diffondeva e andava a tingerla di colori vivaci che davano un senso a giornate altresì marcate dalla monotonia.
Guardandosi intorno adesso, trovando in sé il coraggio di concedere al vermiglio di posarsi su mobili vuoti e dalle ombre insolitamente cupe, nulla di quei colori resta se non l’immagine sbiadita della memoria; brucia la gola quando deglutisce, il nodo alla stessa che duole e rende difficile il respirare. Grigio. Grigio è ciò che lo circonda, un grigio opaco che come fumo all’interno di lui s’insinua e d’ogni cosa prende possesso e marca della propria essenza.
Non sopporta nemmeno lo sgargiante rosso della propria felpa, il rubino di cui sempre ha fatto vanto.
Non sopporta d’indossare quel colore, se intorno non ve n’è nessun altro.
«E’ meglio così.» ripete.
Bugiardo.

Brilla la luna, sovrana d’un cielo buio e di stelle privo.
Osomatsu la guarda. Le concede di vedere la sua debolezza più grande, mentre alla finestra s’accascia e le lacrime gli solcano il viso.
Gli sembra che sorrida crudele, percepisce la sua accusa.
Bugiardo.


 
   
 
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