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Autore: lisitella    26/03/2016    9 recensioni
Ha telefonato e ha detto di mandare questi fiori tutte le mattine al vostro indirizzo per venti giorni di seguito a partire dal primo mese.
Genere: Comico, Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se sono rose fioriranno



 
Otto e quaranta. Otto e quarantacinque. Fremevo di fronte alla porta dell’ascensore che continuava ad andare su e giù, senza fermarsi mai al piano.

Ero ormai decisa a fare semivolando i sei piani in discesa, quando la porta di quell’aggeggio infernale finalmente si spalancò di fronte a me. Ne uscì un ragazzo con dei fiori in mano: “E’ qui l’interno 18?”, chiese.

Indicai instintivamente la porta alla sua destra e feci per andare via. Poi mi ricordai che l’interno 18 era il mio.

Fiori? Fiori per me a quell’ora? Dissi in fretta: “Devono essere per me. Dia qui”. E più in fretta ancora riaprii la porta, afferrai i fiori, li posai sul puff dell’ingresso, richiusi, con cinque mandate. M’infilai nell’ascensore, cercai di furia la mancia per il ragazzo, uscii correndo e dopo otto isolati imbucai sempre correndo, la porta dell’ascensore dell’ufficio. Alle nove meno un minuto, dopo aver ritrovato il fiato, ero già concentrata su un  mucchio di pratiche che sembravano moltiplicarsi come zizzania e il pensiero dei fiori mi scivolò dalla mente.

Fu il pomeriggio, rientrando, che ritrovai sul puff i fiori. O meglio, ciò che rimaneva di quelle che dovevano essere state tre solendide rose bianche. Ora erano solo tre mucchietti di petali molli e sfatti, con un profumo intenso e triste. Tre rose bianche: Chi poteva mandarle?
Sotto il fiocco, c’era una bustina intestata semplicemente a “Via Toscana, 66, interno 18”. Dentro un biglietto. Ma bianco. Più bianco delle rose. Lo rigirai, riguardai la busta, esaminai la carta che avvolgeva i fiori, ma si trattava di una semplice velina senza intestazione del negozio. Allora feci una smorfia stupita e desisi che si era trattato di uno sbaglio.

Ma che sbaglio è, uno sbaglio che continuò puntualmente pre tre giorni di seguito? La quarta mattina era sabato ed era il mio giorno libero. Quando il campanello suonò, poco prima delle nove, io  ero ben decisa a saperne di più su questo improvviso interesse per i roseti e per me da parte di uno sconosciuto.

La risposta del ragazzo, quando io gli chiesi se mai sapesse chi inviava quei fiori, fu banale e stupida: “Chi li manda? E che ne so io? Se non lo sa lei…”.

Lo guardai spazientita: “Se lo avessi saputo, non te lo avrei chiesto, no? Ma chi ha fatto quest’ordine?”.

Il ragazzo alzò le spalle: “Veramente, l’ordine l’ho preso proprio io. Ha telefonato uno e ha detto di mandare tutte le mattine tre rose bianche a questo indirizzo per venti giorni, a partire dal primo del mese. E così ho fatto”.

Mi morsi un labbro: E così non l’hai visto di persona questo signore?”.

Il ragazzo scosse la testa.

“Scusa eh, ma voi vi siete fidati di una telefonata? Ma questo signore sarà poi almenio venuto a pagare, no?”.

Il fattorino scosse ancora la testa: “No, no: Lui ha telefonato circa dieci giorni fa e poi è arrivato un assegno che pagava tutto”.

Mi fissò, mi vide perplessa, sorrise: “Ah! Ha detto che era una cosa roservatissima e che perciò non voleva da re neppure il nome della destinataria... Tanto lei avrebbe capito… Di matti ce ne sono tanti al giorno d’oggi! Beh, buongiorno”. E se ne andò fischiettando. Chiusi la porta lentamente, poi sedetti al tavolo a guardare le rose. Erano bellissime, fresche e profumate. Proprio un messaggio d’amore. Cero non potevano voler dire che questo. Sospirai, dopotutto ero una romantica  e una corte del genere mi sarebbe piaciuta. Ma la corte di chi?

Mi alzai, girai per la stanza, mi fermai davanti allo specchio. Quando avevo un problema grosso, me ne andavo senpre davanti allo specchio e parlavo con me stessa, a voce alta. Da bambina  era un gioco, parlavo e mi facevo le smorfie. Diventava una necessità per non impazzire di solitudine. Vivere da sola in una grande città, discutere giorno e notte quasi sempre e soltanto con la propria ombra non era mica piacevole. Ma in famiglia c’era bisogno del mio lavoro e così avevo dovuto accettare questo impiego. Ripensai ai miei cinque fratelli, alle chiacchiere di mia madre, al brontolare di mio padre, e mi sembrò di trovarmi su un pianeta sconosciuto. La casa allegra, la sua piazza, i suoi vicoli, il mondo a portata di mano di un paese non troppo piccolo ma in cui si conoscono quasi tutti.

All’improvviso i miei diciannove anni mi si sgretolarono sulle spalle e mi risentii bambina, come quella volta che giocando a nascondino, ero finita in soffitta e poi il gioco non era più eccitante e nuovo ma stupido e inutile perché c’era qualche ragno e odor di legno vecchio e un tarlo affamato e invisibile.

Vedevo correre le lacrime sul viso e avrei pianto fino alla sera se lo  specchio non mi avesse ricordato che così diventavo brutta e il buon senso non avesse suggerito che piangere era proprio una fatica sprecata. Allora mi riavviai i capelli, mi preparai e scesi a fare la spesa.

Quando entrai nel negozio, il figlio del droghiere mi sorrise, come e più del solito: “Buongiorno. Cosa prendiamo oggi?”.

Lo guardai: e se… ci pensai un attino poi mormorai: “Dunque… vediamo…Rose!”

Il giovanotto mi guardò con il sorriso un po’ ebete: “Scusi, come? Cosa desidera?”

Una risata allegra si preparò nella mia gola, ma riuscì a frenarla: “Volevo tre panini e due etti di salame”.

Lo guardavo mentre mi serviva: Sì era un ragazzo buono e pieno di salute, ma ero stata stupida a pensare, pur se per un attimo, che quelle rose erano sue. Colui che mi mandava  quel pensiero d’amore non poteva essere alto un metro e sessanta e pesare ottanta chili. O almeno non volevo che fosse così.

Tornando a casa contavo nella mente tutti gli uomini che conoscevo: il capoufficio dottor Fanti, l’usciere del secondo piano, il farmacista.

Tutto qui. In due mesi di vita in città avevo sempre lavorato e poi ero rimasta a casa, a leggere e a occuparmi di piccole cose. La sera non uscivo mai, neppure con qualche mio collega. Continuavo a sentirmi una provinciale, con un certo timore per la vita cittadina caotica, arida e smaliziata.


Certo, come materiale umano maschile non che ne avessi molto su cui indagare! Ero così assorta nelle mie riflessioni che l’ascensore arrivò al piano terra, entrai senza guardare, finendo contro un signore che usciva. Alzai gli occhi, mormorai: “Scusi”, poi rimasi a guardare stupita  una barba colore miele e due occhi azzurri. La voce che uscì dalla barba era sorridente: “Di nulla. Felice di questo scontro!” Accennai col capo e chiusi l’ascensore. Quello si che mi sarebbe piaciuto come mittente delle mie rose bianche! Dissi stupita e in fondo al cuore, come uno spillo. Mi punse la nostalgia acuta di una storia d’amore tutta mia.

Mentre mangiavo il mio panino riflettevo: essenziale era l’elemento sorpresa. Per scoprire il mio ammiratore segreto dovevo agire d’astuzia e in modo da poter poi far finta di niente se quello si rivelava l’uomo sbagliato.

Verso le otto aprì la farmacia notturna, mi diressi con passo deciso ed entrai facendo tintinnare il campanello. Da dietro gli scaffali uscì il dottore: alto, magro, con gli occhi gentili dietro gli occhiali, aveva un aspetto rassicurante. Mi riconobbe, mi sorrise: “Prego”.

“Vorrei… dell’acqua di rose”.

Il dottore, imperturbabile, si girò e scelse una bottiglia tra i cosmetici. Lo scrutai.  Quella richiesta non lo aveva scosso affatto nè tantomeno il sentire quel nome famigerato.  Presi la bottiglia, la esaminai, fissai bene il dottore, chiesi decisa: “Ma questa è acqua di rose bianche?”.

L’uomo piegò il capo: “Come, scusi? Acqua di rose bianche? Mah, non so. Che c’entra poi?”

Era comico. E doveva di certo pensare che le donne, specie per certe cose, sono un po’ matte. Sospirai. Non poteva essere lui. Altrimenti preso così alla sprovvista, si sarebbe confuso o mi avrebbe guardata con un sorriso complice. Invece il suo sguardo sembrava solo leggermente e professionalmente preoccupato per la mia salute mentale.

“Grazie. Non importa: Buonasera”.

Uscii un po’ delusa e un po’ contenta. Il farmacista era alto, magro e gentile, ma poteva avere quarant’anni e forse era pure sposato, anche se senza anello al dito. E a me i quarantenni , forse anche sposati, non piacevano proprio.

Mentre infilavo l’atrio del portone, una voce allegra mormorò alle mie spalle: “Buonasera. Tutta sola?”

Sussultai, mi girai e me lo ritrovai davanti, biondo e forte come al mattino, anzi quasi più simpatico ancora. Mi pentii dei mie Jeans vecchi e dei capelli un po’ scomposti. Risposi solo: “Buonasera”.

Che ci stava a fare quello ancora lì? Premetti il bottone dell’ascensore, mi si fermò accanto. Quel coso di ferraglie ci metteva un secolo ad arrivare e mi sentivo sulle spine, con lui che continuava a fissarmi, non tanto villanamente da farsi mandare  a quel paese ma abbastanza insistentemente da farmi ritenere che i miei vestiti fossero invisibili. Tentennai un poco, poi mormorai: “Beh, io vado a piedi. Ciao”.

Con un sorriso contenuto, mi sentii rispondere: “Buona idea, vengo su anch’io!”.

Mi fermai di scatto: “Vieni su anche tu?”.

Lui mi fissò, poi scoppiò a ridere ci cuore: “Ma certo! Dove vuoi che vada? Abito qui!”.

Io arrissii, mi ripresi: “Cioè… volevo dire… Non mi pare di averti mai visto”.

“Ci credo bene!”, esclamò lui. “Cammini sempre a testa bassa e fili via come un rapido tra la gente!  Sai, quasi tutte le mattine ti vedo dal balcone. Abito sotto di te”.

Continuavamo a salire e a me sembravano le scale eterne del purgatorio. Trovavo difficile parlare con uno sconosciuto in una città semisconosciuta. Dov’era la mia cittadina ridente, le amiche pettegole ma in fondo affettuose, i ragazzi che erano miei compagni sin dall’asilo e con cui era facile parlare sulla piazza indossando l’eterna maglietta unisex? A questo qui, invece, camminargli a fianco dava una strana sensazione, faceva venir voglia di essere bellissima in un lungo vestito provocante.

Finalmente raggiungemmo il quinto piano. Lui si fermò: “Bene, ora che ci siamo parlati, non scapperai più così di fretta, no?”.
“Ma io non scappo mica!”, mi risentii.

“Ah no?”, chiese ironico lui, piegando la testa.

Io arrossii e infilai l’ultima rampa di scale. La voce mi raggiunse al decimo scalino: “Io mi chiamo Matteo Rovini: Se hai bisogno di me, sono qui, suor Timidezza”. E rise. Poi scosse la testa, divertito. “Carina, molto carina. Peccato che sembri un topetto sempre inseguito da dieci grossi gatti. Tutto sommato potresti davvero essere un’avventura di gusto nuovo”.

 
 

   
 
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