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Autore: Flora    27/03/2016    7 recensioni
Dominick Clericuzio è a capo di una delle più potenti famiglie mafiose della costa est. Ha anche un gemello, che credeva di avere perso nella culla, dopo un rapimento a seguito del quale era stato dato per morto. Ma il destino aveva qualcosa in serbo per loro, e ora Dominick deve fare i conti con il legame viscerale che sente per questo fratello ritrovato dopo una vita intera, e che sembra ancora molto restio ad accettare di avere una famiglia - e un fratello che lo ama.
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Si volta ed estrae una sigaretta dal pacchetto; se la porta alle labbra e l’accende, mentre osserva David ancora seduto sul letto.
Fa correre gli occhi sul suo volto pallido, provato dalla lunga degenza; li sofferma sulla sua orribile camicia technicolor, da cui spunta la fasciatura che gli circonda il petto e si incrocia sulle spalle; infine blocca lo sguardo nel suo, sentendo ancora una volta la familiare sensazione di meraviglia e commozione che sempre lo coglie quando lo osserva – ancora vivo, sotto il suo stesso tetto e dentro la sua vita.
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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NdA: Questa storia è un regalo scritto appositamente per la dolcissima graciousghost, per ringraziarla dello splendido racconto di cui lei mi ha fatto dono per il mio compleanno, e che può essere letto qui.
I personaggi di questa vicenda fanno parte di un progetto più ampio che li coinvolge, e che al momento è in stand-by. La one-shot, però, è stata scritta come una storia del tutto a sé stante e autoconclusiva, che spero si regga in piedi con le sue gambe. Buona lettura.



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Legami di famiglia

 
 
 
 
 
 
 
Quel giorno il telefono è stranamente muto. Il filo arrotolato attorno al quadrante laccato di nero, i tasti tante piccole protuberanze lucide che sporgono come denti – sembra un serpente addormentato. O così pare a Dominick, che lo fissa dalla poltrona girevole di spalle alla vetrata cromata come se da un momento all'altro potesse alzare la testa e scattare per azzannarlo.
È strano vederlo così zitto, quel telefono. Sta sempre a trillare e ringhiare sulla sua scrivania, nell'ufficio all'ultimo piano dell'elegante palazzina sulla Fifth Avenue.
Una tarda mattina invernale, inondata di quella luce lattiginosa che a New York si ostinano a chiamare sole. Ah-ah. Cielo gonfio, strade impastate di caligine appiccicosa come melassa. Se la sente addosso, accartocciargli i vestiti sulla schiena come una muta prematura. 
Non ha dormito, Dominick. Ha passato le ultime ore a discutere di tassi di cambio e andamento della Borsa – (le azioni collegate alle sue attività a Las Vegas, quelle lecite e anche quelle un po’ meno lecite, sono schizzate fino ai soffitti, graziaddio) – ma lui non ha dormito. Un centinaio di persone dipendono da lui – dalla sua freddezza, dalla calcolata ragionevolezza delle sue decisioni – (e da quel cazzo di telefono, non scordiamoci il telefono) – e lui non ha dormito.
Troppo facile chiedersi di chi sia la colpa. O il merito, a voler essere precisi.
Incurva le labbra in un sorriso pigro, giusto un'inclinazione infinitesimale della bocca, ed è tutto. Tutto quello che si concede di mostrare al mondo a questo riguardo. Il sorriso di un gatto che si crogiola nella sua piccola, privata soddisfazione, se i felini potessero ridere.
Afferra il serpente accovacciato all'angolo della scrivania – lo fa con un impeto tale che per poco non lo manda a sbattere sul pavimento e tante grazie – e compone il numero. Non un numero.
Il numero.
Perché ce n'è uno che ha proprio assunto i connotati di un'accezione assoluta.
Che cosa curiosa.
Il display luminoso incastonato nello smalto scuro del telefono lampeggia una lettera. D.
Solo quello.
D.
Tutto e niente. Una lettera dell'alfabeto – il nucleo pulsante sepolto nella parte più profonda di sé.
Nucleo vitale. Sangue, e respiro, e identità, e mistero, e rivelazione. Cristo Santo, Dave – (gli pare di sentirsi, mentre glielo dice).
D. – Come David – che come un buco nero succhia e aspira tutto – ingurgita energia, se ne nutre, perché non può farne a meno. Come Dominick – che non vuole dargli niente meno di questo.
Una cazzo di lettera dell'alfabeto – Il tassello centrale del rompicapo che è la vita di Dominick Clericuzio. Togli quella tessera e addio chiave di lettura – (e perché, a proposito, deve sempre ragionare per associazioni mentali e ordinative?)
Ma ora non c'è tempo per rispondersi. Uno squillo, due – segnale di libero. Poi, una voce rauca e fonda, come quei pozzi neri che succhiano e ingurgitano in agguato negli angoli bui dell'universo.
E lui vuole essere succhiato. Vuole essere inghiottito.
"Ti aspetto qui sotto fra un'ora esatta. Pranziamo insieme, Die."
Lo ascolta respirare – lo sente dire qualcosa, ma non importa se non capirà cosa. Dave spesso parla a voce talmente bassa che persino per lui è impossibile decifrarlo.
Ma non è necessario. Non lo fa neanche finire.
"Ti devo vedere" – gli dice.
Perché è vero. Deve. In una vita fatta di imperativi abbaiati agli altri, è la prima volta che un ordine ha il sapore di una supplica.
Poi riattacca. Si lascia andare contro lo schienale della poltrona, incrociando le braccia dietro la nuca, e chiude gli occhi.
Si sente in pace con se stesso ora, Dominick. In quel piccolo, complicato microcosmo che è la sua vita, il flusso normale delle cose ha ripreso a scorrere.
Nonostante il buco nero che gli succhia via il sonno e le forze. Nonostante si consumino e si annullino e si assimilino come i due poli opposti di una batteria – fino a non lasciare più nulla per niente.
E per nessuno.
Ma è in pace, Dominick. Ora sì.
Di tutto il resto non gliene frega un cazzo.
 
 
 
 
 
 
Lo aspetta seduto a uno dei tavoli esterni della caffetteria all’angolo tra la Fifth e la 49esima, il cappuccino che si sta già freddando. Per essere fine febbraio è una mattina insolitamente mite e Dominick si è tolto il soprabito, rimanendo solo con la giacca comodamente sbottonata sul gilet di seta.
Lo vede arrivare già da lontano e sofferma lo sguardo sui suoi pantaloni informi, sulla camicia hawaiana con le stampe a fiori e le orrende infradito gialle che spuntano dall’orlo troppo lungo dei calzoni grigi, e scuote la testa.
Quando David si siede al tavolo e scrolla i lunghi rasta che gli ricadono sulla schiena, non può fare a meno di sorridere con un guizzo rapido delle labbra.
“Quando la smetterai di andartene in giro come uno straccione?” lo saluta mentre tira fuori il pacchetto di Marlboro dal taschino della giacca e se ne accende una. “Un Clericuzio non dovrebbe conciarsi come un ciabattino da strada.”
David si stringe nelle spalle e si mette più comodo sulla sedia, richiamando con un gesto il cameriere affaccendato a pulire uno dei tavoli accanto.
“Sono vestito come un normale essere umano, Dom,” risponde. “Esseri umani, comprendi la parola? Una cosa per cui tu non potresti mai essere scambiato.” Gli rivolge un ghigno mentre osserva la tazza di cappuccino con la schiuma completamente sciolta. Se l’avvicina e ne beve un sorso, poi la fa ricadere sul tavolo con un battito sonoro. “Perché volevi vedermi?”
Dominick non risponde; alza lo sguardo sul cameriere che intanto si è avvicinato con il blocchetto per le comande.
“Un Martini on the rocks,” ordina, poi indica David con un cenno della testa. “E porta una birra per mio fratello.”
Se il cameriere li ha fissati un attimo di troppo non l’ha dato a vedere, e del resto la curiosità della gente non è più una novità per loro; da quando David è tornato a casa ha dovuto abituarsi agli sguardi perplessi di chi li incrocia, e non solo perché sono due gocce d’acqua. È il contrasto che salta all’occhio, questo è in grado di capirlo anche lui; al di là dei tratti identici di viso e corporatura, non potrebbero essere più diversi. Là dove lui ama completi di alta sartoria e sfoggia un taglio di capelli impeccabile, David se ne va in giro come un figlio di nessuno e con quella matassa di rasta arruffati che starebbe meglio in testa a un cantante reggae che al figlio di uno degli uomini più potenti della costa est.
Ma si è abituato anche a questo e, del resto, chiamarlo fratello – come ha appena fatto – gli regala sempre un brivido lungo la schiena che va a compensare ogni perplessità che la strana creatura che ora gli siede davanti riesce a instillargli.
“Devo avere un motivo per incontrarti?” dice, prendendo una boccata di fumo.
“No. Ma dopo il giro di locali che ti ho fatto fare stanotte, credevo fossi troppo stanco e impegnato con i tuoi affari per avere cazzi di vedermi.”
Dominick picchietta la sigaretta sul posacenere e poi la lascia lì, appesa tra le dita. “Devo ammettere che stamani ho fatto una certa fatica a concentrarmi in riunione, ma nulla di preoccupante. E comunque…” Si interrompe al ritorno del cameriere, e discosta il braccio per far spazio al bicchiere di Martini e al boccale schiumante di birra. Poi si riappoggia al tavolo con tutt’e due i gomiti.
“Comunque,” riprende, dopo che il cameriere si è allontanato, “sono anche i tuoi affari, se ti degnassi di venire in ufficio una volta ogni tanto, invece di bighellonare per la città come un cane randagio.”
David ride, ed è un suono rauco e basso, tipico di chi non è abituato a farlo.
“Avanti, Dominick,” risponde, prendendo un sorso di birra. “Sei tu l’uomo in colletto bianco, e te la cavi benissimo. Non hai bisogno del mio aiuto, né di quello di nessun altro a dirtela tutta. Al massimo posso darti una mano a schivare qualche pallottola.”
“Non è del tuo aiuto che parlo, Dave.” Il tono gli è uscito più severo di quel che intendeva ma non se ne pente. Almeno adesso ha la sua attenzione. “Devi prendere il posto che ti spetta in questa famiglia. Sono passati otto mesi da quando siamo tornati da Las Vegas e ancora non ne vuoi sapere. Nostro padre è preoccupato, e onestamente anch’io.” Si porta la sigaretta alla bocca e aspira un’altra boccata. “Sono anche piuttosto deluso. Quando comincerai a comportarti come un Clericuzio?”
Lo fissa e ora sì, lo sta osservando anche suo fratello, con quello strano miscuglio di sorpresa e imbarazzo che gli galleggia sempre negli occhi, quando tira fuori il discorso della loro parentela. La verità è che David non si è ancora abituato a questo, e forse non ci riuscirà mai. Difficile convincersi di avere una famiglia quando hai passato tutta l’esistenza come un animale sciolto, costretto a ogni angolo a guardarti le spalle.
Del resto, riflette mentre prende un sorso dal suo Martini con ghiaccio, non è facile neanche per lui – non dopo essersi sentito per anni come una creatura tagliata a metà. Questa sensazione di pienezza che prova, guardando il gemello che gli sta seduto davanti come fosse la cosa più normale del mondo, lo coglie ogni volta impreparato e lo fa sentire vulnerabile – cosa strana per qualcuno che è sempre stato l’individuo alfa all’interno di un branco di lupi.
La verità è che nessuno se l’aspettava, lui men che meno. Sapeva di essere nato con un gemello, ma il bambino era stato rapito in fasce per ordine di una delle famiglie rivali di loro padre, in una sorta di crudele regolamento di conti.
Per anni avevano creduto che Daniel – questo il nome con cui era stato battezzato – fosse finito ucciso. Ma il fato segue strani tracciati – e il destino portava il nome del sicario che, invece di giustiziarlo, l’aveva allevato, insegnandogli il mestiere senza rivelargli nulla delle sue origini. Dopo la sua morte, David era rimasto da solo e aveva seguito le orme di quello che aveva creduto suo padre. Da solo, come il killer prezzolato che era diventato.
E un giorno Dominick se l’era trovato davanti a un tavolo da gioco a Las Vegas, venuto a osservare il bersaglio da abbattere che la famiglia Santagata gli aveva assegnato – un bersaglio con la sua stessa faccia, la stessa voce. Gli stessi occhi per intuire la verità ancor prima di conoscerla.
Alla fine, gli unici a morire erano stati i suoi committenti, ed era stato strano trovarsi a ordire una serie di omicidi insieme a un fratello appena ritrovato. Ma, prima di questo, c’era stato quel bizzarro interludio nella sua camera d’albergo, quando si stavano ancora studiando, indecisi se quella somiglianza perfetta fosse solo un caso, o uno scherzo del destino. David non poteva sapere, ma lui sì, eppure non ci aveva creduto fin quando non gli aveva tolto la camicia, e la voglia purpurea alla base dei lombi – identica alla sua e a quella della loro madre – era stata messa allo scoperto. Prima c’erano stati dei baci a cui non è prudente ripensare ora, e un impulso ad annullare ogni distanza tra la loro pelle identica che si era spezzato solo quando Dominick aveva avuto certezza di dividere il sangue con lui, e non solo una fortuita somiglianza.
Da allora non c’è stato più niente del genere – solo una lenta riscoperta degli anni passati lontani, per lui, e di una famiglia che mai avrebbe creduto di avere, per David. Ma quell’impulso lo sente ancora agitarsi da qualche parte dentro di sé, e non solo quando lo guarda; lo sente sul fondo delle tempie e nel retro degli occhi, quando ci pensa; lo intuisce nel fremito sulla punta delle dita, quando lo tocca sulle spalle per richiamare la sua attenzione. Lo percepisce in questa carne che condividono, divisa per troppi anni e che ora sembra reclamare la vicinanza negata con tutti gli interessi del caso.
Continua a fissarlo e sa che lo sente anche David. Die, come ha preso ad appellarlo sempre più spesso.
Non sopporta di essere chiamato Daniel, come si ostina a fare loro padre – non è il suo nome e non lo sarà mai.
Per lui è Dave, ma gli piace il modo in cui la loro iniziale scivola sulla lingua per battere piano sui denti. E ogni volta che lo fa, che lo chiama così, gli sembra quasi di vederlo arrossire.
Ma ha imparato quanto suo fratello sia vulnerabile all’affetto.
Al suo, quantomeno. E gli piace ricordarglielo. Ah, sì. Gli piace da morire.
“Non sono certo di sentirmi ancora un Clericuzio, come dici tu,” risponde David, e la voce gli incespica sulle parole, forse confuso dal lungo silenzio. “Preferirei continuare a incontrarti come ho fatto finora. Berci qualcosa, andare in giro. Cose così. Non mi chiedere altro.”
“Io invece vorrei che venissi a stare a casa nostra, Die.” Dominick picchietta la sigaretta sul posacenere, fin quando la brace non si stacca dal cilindro di carta. “Invece di nasconderti in quella tana di sorci che continui a chiamare appartamento. È troppo chiedere di poter vivere insieme a mio fratello, dopo averlo creduto morto per anni?”
David abbassa la testa e i rasta gli ricadono ai lati del viso; non guarda mai nessuno negli occhi, abituato com’è a osservare il mondo solo attraverso un mirino di precisione. Solo una volta l’ha fissato nei suoi, ma al momento era troppo occupato a baciarlo per farci caso.
“Te l’ho detto. Devi darmi un po’ di tempo per abituarmi. È già tanto sopportare le occhiate di tuo padre quando vengo a cena. Ti immagini se dovesse avermi attorno ogni giorno?”
Dominick sospira, e si passa una mano tra i capelli tagliati nell’elegante carré con la riga in mezzo.
Nostro padre,” lo interrompe, “è solo preoccupato per il fatto che, quando vieni a trovarlo, ti comporti come un randagio che si è infiltrato dalla porta di servizio. Vuole quanto me che tu ti senta a casa tua. Ti è così difficile da capire?”
Osserva suo fratello prendere una lunga sorsata di birra, fino a svuotare il bicchiere. Quando lo riappoggia al tavolo la mano gli trema, ed è strano constatarlo, tenuto conto di quanto siano salde le sue dita quando premono sopra un grilletto.
“Al momento vorrei solo avere qualcosa da fare,” dice, tamburellando le dita sul legno. “Non sono abituato a questa inattività. A non dovermi guadagnare da vivere.”
“Vieni in ufficio con me, allora. Te lo trovo io il modo di farti passare il tempo.”
David ride di nuovo, e stavolta il suono che gli esce dal petto sembra davvero divertito. “Che ne dici, invece, se ti facessi da guardia del corpo?” Lo indica dall’altra parte del tavolo, come punterebbe il dito verso una bestia strana. “Guardati. Te ne vai in giro senza una precauzione, come se tu fossi davvero solo uno di quei pezzi grossi di Wall Street. Mi preoccupi, Dom. Mi preoccupi davvero.”
Stavolta è Dominick a ridere, e lo fa in modo educato, senza dargli a vedere quanto lo colpisca e lusinghi la sua preoccupazione.
“Un uomo d’affari è esattamente quello che sono,” risponde, dopo un altro sorso di Martini, “è finito il tempo in cui i gangster andavano in giro a spararsi addosso per le strade. Piantala di stare così in ansia. Non corro rischi alla luce del sole, ma ti ringrazio per il pensiero.”
David si stringe nelle spalle, senza convinzione; poi getta un’occhiata all’orribile orologio di plastica gialla che porta al polso. “Sono le due,” osserva. “Non devi rientrare?”
“Temo di sì.” Dominick sospira, e si volta a frugare nelle tasche del cappotto, tirando fuori il portafoglio. “Ma non credere che il discorso finisca qua. Ci torneremo sopra, Dave. Che ti piaccia o no.” Estrae una banconota da venti dollari e la infila sotto il bicchiere vuoto.
“Ora capisco perché ti chiamano Saint,” risponde David a tono, mentre si alza. “Basta dare un'occhiata alle mance che lasci.”
“Quello è il soprannome con cui mi chiamano i miei nemici.” Anche Dominick si rimette in piedi e indossa il soprabito. “Ed è ironico, se non l’hai capito.”
Si avviano nella stessa direzione; ormai è una routine consolidata tra loro: una bevuta insieme vicino all’ufficio, pochi passi affiancati, e un breve saluto davanti alle porte girevoli.
Ma oggi c’è qualcosa di diverso; Dominick lo intuisce nell’improvvisa tensione di David al suo fianco e nello scalpiccio di passi improvviso alle sue spalle. Si volta di scatto e fa appena in tempo a incrociare lo sguardo dell’uomo che gli viene incontro, a vedersi riflesso nei suoi occhiali scuri mentre quello estrae una pistola da dentro la giacca e gliela punta contro.
Stai giù, Dominick!” Il grido di suo fratello gli si conficca nelle orecchie più forte dello sparo mentre lo spinge via, e poi arriva il dolore, quando sbatte contro il muro del palazzo e per poco non finisce a terra. Quando abbassa la testa, però, sul marciapiede c’è solo David, riverso sul fianco e una mano premuta sulla spalla, mentre una chiazza di sangue gli si allarga sotto il corpo e va a rifluire nel tombino lì accanto.
Dominick sente il respiro bloccarsi e apre bocca per chiamarlo, ma gli esce solo un rantolo sfiatato. Si inginocchia al suo fianco e getta un’occhiata attorno, ma il sicario, chiunque fosse, si è già dileguato nella folla che grida e si disperde per le strade, in uno scalpiccio di passi e strombazzate di clacson. Qualcuno si è anche avvicinato, ma Dominick non gli presta attenzione. Le mani fredde come marmo, afferra suo fratello e lo rivolta faccia in su, sentendolo rigido e inerte come fosse fatto di stracci.
“Mio Dio, Dave…” riesce a dire mentre gli prende la testa tra le mani e cerca la pulsazione della carotide alla base del collo. Fa fatica a trovarla ma c’è, anche se è veloce e attutita. Ha perso conoscenza; il sangue che gli sgorga dalla bocca e da sotto la spalla gli ha già inzuppato la camicia, e ora ce l’ha addosso anche a lui – sulle mani, sopra la giacca, nel reticolo rosso che gli scoppia davanti agli occhi quando sente il sibilo dell’aria che scivola fuori dal polmone forato di suo fratello.
Chiamate un’ambulanza!” grida, così forte da sentire qualcosa che si strappa in fondo alla gola. Prende il cellulare per farlo lui stesso ma il telefono gli scivola via dalle dita viscide di sangue e non riesce più a individuarlo con la vista appannata. Stringe David contro di sé e rimane così, a cullarlo come una Pietà dolorosa con il Cristo tra le braccia, fin quando non sente l’ambulanza che si avvicina a sirene spiegate.
 
 
 
 
 
 
La camera privata nella clinica di Long Island è bianca e asettica, eccetto che per un paio di tendine azzurre alla finestra che a malapena schermano la luce.
Nel silenzio della stanza, il sibilo basso del respiratore gli arriva alle orecchie come il rantolo di un moribondo. Sa che non dovrebbe pensarla così, il medico gliel’ha assicurato: la ferita è seria ma David non è in pericolo di vita. È stato sedato e posto in coma farmacologico fin quando il suo corpo non si sarà ripreso abbastanza da poter affrontare una convalescenza cosciente. Gli hanno estratto la pallottola da una delle costole; poco più in alto e gli si sarebbe piantata dritta nel cuore. Così, invece, hanno solo dovuto rammendargli un polmone, e farlo dormire per un po’.
Sempre troppo, per quanto lo riguarda.
Si avvicina al letto dove suo fratello è attaccato ai tubi che, per i primi giorni, l’hanno tenuto in vita. Il macchinario accanto al cuscino rimanda i parametri regolari di battito e pressione, emettendo una serie di bip ovattati a intervalli regolari.
Dominick non li sente nemmeno. Rimane in piedi a osservare il braccio bianco di David allungato sul copriletto, e l’ago della flebo innestato nella carne, dove ha lasciato dei brutti segni violacei tutto attorno.
Fa correre gli occhi sui tatuaggi incisi sul suo avambraccio e non può fare a meno di domandarsi perché non gli abbia chiesto prima perché se li è fatti, quando – e cosa rappresentano. Spera solo di avere un’altra occasione per farlo – chiedergli dei segni che ha addosso, e milioni di altre cose.
Non ha fatto altro che pensarci, da quando è stato ferito, prendendosi la pallottola che era destinata a lui.
Dopo averlo ritrovato è stato troppo occupato a tentare di reinserirlo in famiglia volente o nolente, come la tessera perduta di un mosaico, per interessarsi davvero di lui e di quel che era stato prima di incontrarlo.
Ora si rende conto dell’errore madornale che ha compiuto.
Quando comincerai a comportarti come un Clericuzio?
Perché, tanto per cominciare, non ha provato a capire chi era davvero, suo fratello, prima di scoprirsi tale?
Si china a osservare il suo viso tanto simile al proprio, i tatuaggi che ha anche sul collo, i capelli lunghi fino alle spalle. Glieli scosta dalla fronte col palmo della mano, e poi la lascia lì – sulla sua pelle tiepida, fin quando non la sente diventare bollente.
Anche quella notte in hotel lo era, mentre lo toccava con una foga che non si era mai conosciuto, e gli strappava di dosso gli stracci di cui era coperto. Ha pensato anche a questo da quando è confinato in questo letto, e tutt’ora non riesce a darsi una risposta.
Forse potrebbe dargliela lui, se riuscisse a parlare – ma probabilmente si limiterebbe a restare in silenzio, perché David è come uno di quegli animali guardinghi che osservano zitti e acquattati nell’ombra, senza esporsi mai alla luce del giorno.
E lui, che si credeva un leone, si ritrova a tremare come un agnello – ed è strano, per una volta, sentirsi il fianco tanto scoperto.
È nato ed è stato cresciuto per comandare, e l’ha sempre fatto, da che ricordi. Allevato come un principe designato a sedere a capo di un impero – perché la sua famiglia non è altro che questo, come nell’antichità potevano esserlo le caste di patrizi romani destinate a governare il mondo. Gli è sempre piaciuto studiare la Storia, rintracciare a ritroso nel tempo le radici del potere in cui è stato immerso fin dalla culla.
E il ruolo tagliato per lui da suo padre, e dal padre di suo padre, se l’è sempre sentito cucito addosso come un guanto; gli è stato facile farsi obbedire, e non soltanto dagli uomini che, dietro le quinte, ha dovuto mandare al massacro per consolidare questo dominio. Si definisce un uomo d’affari e non un gangster – anche se nel suo ambiente continuano a chiamarlo Saint, come in un film sulla mala – perché, fin dall’inizio, ha cercato di traghettare le attività di famiglia verso il sole della legalità, anche se per farlo ha dovuto e dovrà eliminare un bel po’ di ostacoli dalla sua strada.
Questo non l’ha mai spaventato; si è abituato presto ad aspettarsi degli attentati alla sua vita, solo che quella pallottola avrebbe dovuto prendersela lui, e non l’uomo che ora giace incosciente davanti ai suoi occhi.
Lo accarezza piano sulla fronte, e avverte di nuovo quella puntura di dolore morderlo nel petto, che lo rende inspiegabilmente debole come mai prima d’ora.
Si è sentito mutilato di qualcosa per tutta la vita, nonostante l’autorità, nonostante tutta la sua determinazione. L’idea di poter di nuovo provare quel vuoto lo annichilisce e gli taglia il respiro; gli fa sentire il morso del terrore per la prima volta nella sua esistenza.
“Non mi mollare proprio ora che ti ho ritrovato,” sussurra, premendo le dita nella carne cedevole del viso di suo fratello. “Non lo sopporterei, Die. Non farmi questo.”
Il rumore della porta che si apre gli fa ritirare la mano di scatto. Si volta e, sulla soglia, c’è Ralph Bonpensiero che lo fissa con le mani nelle tasche dell’elegante gessato grigio.
Dominick gli rivolge un saluto con un cenno della testa mentre lui si avvicina. Si aspettava la sua visita, e gli fa piacere vederlo. Ralph è il suo padrino, oltre che il consigliere della famiglia. Ma più di tutto è una persona fidata e un amico prezioso, il più caro tra quelli di suo padre.
“Come sta?”
Dominick si stringe nelle spalle. “Sta. Il Dottor Longman ha detto che, se reagirà bene alle cure, potrà ragionevolmente riprendere conoscenza tra un paio di giorni, forse tre.”
L’altro annuisce, poi abbassa la testa a osservare David che giace immobile nel letto, solo una forma composta sotto le coperte. “Ho incrociato tuo padre mentre salivo. Anche lui è preoccupato.”
“Puoi biasimarlo?” Dominick trattiene la voglia di sfilare una sigaretta dal pacchetto dentro la giacca e accendersela. “Ha appena ritrovato suo figlio, e ora rischia di perderlo.”
“Avrebbe perso te, se Daniel non si fosse messo in mezzo.”
“Questo non è un motivo valido per essere contenti.”
Si avvia verso la finestra e scosta le tende. Nel giardino della clinica, un’infermiera spinge la carrozzina di un paziente, e un paio di bambini con il cranio rasato giocano a palla, guardati a vista da una coppia di medici; sembra tutto normale, tutto continua a scorrere come se niente fosse successo, e questo pensiero per un attimo lo rassicura.
“Abbiamo preso il sicario,” dice Ralph dopo una pausa. “Era stato mandato dai Santagata. Da quel che ne rimane, voglio dire.”
Dominick si volta, le dita che si stringono attorno al bordo del davanzale. “È ancora vivo?”
La nota crudele nel suo tono non sfugge a Ralph, che si affretta a scuotere la testa. “È stato ucciso mentre cercava di fuggire.”
“Peccato. Avrei voluto farlo fuori con le mie mani.” Dominick affonda i denti nel labbro inferiore, fino a farsi male. “Lentamente.”
“Sarebbe stata un’imprudenza.”
“Sarebbe stata la giusta vendetta per quello che è stato fatto a mio fratello.”
Ralph non ribatte. Forse non ha nulla da dire, o se ce l’ha ritiene prudente non farlo.
Dominick si riavvicina al letto e allunga una mano per scostare appena le coperte dal petto di David; il suo torace si alza e si abbassa lento nella respirazione, e questo dovrebbe confortarlo; ma il sibilo del respiratore, invece, rischia di farlo impazzire.
“Non ti ho mai visto così.”
Dominick alza gli occhi su Ralph e deve combattere la tentazione di fulminarlo con lo sguardo; in un altro momento non avrebbe permesso a nessuno di fargli notare il pessimo spettacolo che sta offrendo di se stesso. Ora, invece, riesce solo a sospirare e riabbassare la testa.
“Non voglio perdere mio fratello,” dice, e si stupisce di come la voce gli esca tanto ferma. “Non ora. Non così.”
“Ne uscirà, Dom.” Il tono di Ralph suona calmo e rassicurante. “Il destino non l’ha rimesso sulla vostra strada per togliervelo subito dopo.”
Dominick non risponde; copre di nuovo il busto di David e passa il palmo sulle pieghe del lenzuolo, fin quando non gli sembra abbastanza teso.
Me lo auguro, pensa – e sente di nuovo la paura scavargli il petto, come un artiglio. Me lo auguro davvero.
 
 
 
 
 
 
Quando Dominick lo guida dentro la camera, sostenendolo per la vita, David si lascia sfuggire un fischio di sorpresa.
“Mi hai detto che c’era una stanza che mi aspettava a casa, ma non credevo che ti riferissi al Gran Hotel.”
Fa scivolare via il braccio che gli tiene attorno alle spalle e muove un paio di passi malfermi fino a bloccarsi al centro dell’ambiente. “Se vuoi che dorma qui dentro, devi almeno farmi pagare l’affitto.”
Dominick sorride, portandosi una mano al nodo della cravatta fino ad allentarlo un po’.
“È sempre stata la tua camera, Die. Solo che ora, al posto della culla, c’è un letto vero.”
Osserva suo fratello guardarsi attorno come un bambino la prima volta in un Luna Park. Ha fatto risistemare la stanza, è vero, ed è anche vero che né lui né suo padre hanno badato a spese. Più che una camera sembra la Suite di un albergo extralusso, ma l’espressione che legge sulla faccia di David mentre fissa l’enorme letto King size, la cabina armadio zeppa di vestiti che si intravede dalla porta socchiusa, il televisore a sessanta pollici nell’angolo, è qualcosa di impagabile.
“Dovevi quasi farti ammazzare per venire a vivere a casa tua?” dice, ma il rimprovero suona fiacco, e non ci crede nemmeno lui.
“Solo per la convalescenza.” David si lascia cadere sul letto, e il materasso si affossa sotto il suo peso con un fruscio. “E comunque credo che dormirò sul tappeto. Questo letto è troppo morbido per me. Mi darebbe gli incubi.”
“Non dire sciocchezze,” lo schernisce Dominick. “Verrò a controllarti, e se ti trovo per terra ti riporto sul letto tirandoti per quei capelli schifosi che non ti decidi a tagliare.”
Si avvicina alla finestra e scosta le pesanti tende di velluto, facendo filtrare la luce. I vetri rinforzati tagliano via ogni suono, ma riesce comunque a vedere l’oceano che si infrange contro il promontorio di Nassau; se chiudesse gli occhi, potrebbe quasi sentire il rumore ovattato delle onde.
Si volta ed estrae una sigaretta dal pacchetto; se la porta alle labbra e l’accende, mentre osserva David ancora seduto sul letto.
Fa correre gli occhi sul suo volto pallido, provato dalla lunga degenza; li sofferma sulla sua orribile camicia technicolor, da cui spunta la fasciatura che gli circonda il petto e si incrocia sulle spalle; infine blocca lo sguardo nel suo, sentendo ancora una volta la familiare sensazione di meraviglia e commozione che sempre lo coglie quando lo osserva – ancora vivo, sotto il suo stesso tetto e dentro la sua vita.
“Quella roba ti ucciderà prima o poi,” lo rimprovera David, indicando la sigaretta.
“Di qualcosa devo pure morire.” Dominick sputa fuori una nuvola di fumo. “Meglio un chiodo di bara che una pallottola in testa.”
“A quelle ci penso io, fratellino.”
L’ha detto in tono scherzoso, ma deve leggergli qualcosa nello sguardo, perché si blocca di colpo. Contrae la fronte e lo fissa in silenzio, come se si fosse fermato in bilico sull’orlo di un precipizio.
E in un certo senso è così. Lo sono stati fin dal loro primo incontro, riflette Dominick, stringendo la sigaretta tra i denti fin quasi a farli combaciare. Basterebbe un passo per gettarsi insieme oltre il bordo, e lui lo sa.
Lo sanno entrambi.
“Non farlo mai più.” E la voce gli trema, per la prima volta nella sua vita. “Perché se la prossima volta non ti ammazza la pallottola, lo faccio io.”
David sospira, e per un attimo sembra esausto; ma invece di sdraiarsi si alza in piedi e lo raggiunge vicino alla finestra. Quando gli si mette accanto e lo sfiora con la spalla, Dominick rabbrividisce e sente un identico brivido correre lungo la schiena di David, come li avesse attraversati entrambi.
Non si guardano, ma restano vicini – tanto vicini che le loro dita si sfiorano.
Poi David solleva una mano e gliela poggia sulla nuca, stringendolo piano, poi rilasciandolo e stringendolo ancora.
A Dominick manca il respiro. Si volta e David lo sta fissando; quando chiude gli occhi, come fosse accecato dal riverbero, le sue labbra sono identiche alle sue, e sono dischiuse.
Dominick inclina il volto e annulla la distanza, una volta e per tutte.
Combaciano. Ah, sì.
E lo fanno alla perfezione.
 
 
 
 
  
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