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Autore: Lily White Matricide    27/03/2016    2 recensioni
Lord Voldemort ha capito la natura delle sue ossessioni, la sua paura della Morte, il desiderio di vincerla tramite gli Horcrux. Bellatrix Black ha capito di essere folle nel momento in cui ha visto il cielo verde e una luna sanguinolenta. I loro due cammini si incrociano più volte, in una spirale di oscura follia da cui nessuno potrà uscire.
“Come fai a sapere che il porpora è il mio colore preferito?” aveva sussurrato Lord Voldemort all’orecchio di Bellatrix.
“Perché la porpora è il colore amato dai re. Potresti mai amare un altro colore?” gli aveva risposto lei, arguta.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Famiglia Black, Tom Riddle Sr., Tom Riddle/Voldermort | Coppie: Bellatrix/Voldemort
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Ciascuno di noi ha la sua piccola, innocente ossessione. Ogni ossessione ha il suo fascino, la sua ragion d’essere, in qualche angolo della mente. Aleggia come uno spettro, talvolta emerge dalla nube grigiastra dei propri pensieri e delle proprie routine. C’è chi ha imparato a convivere con le proprie ossessioni, risultando perfettamente sano.
Possiamo essere ossessionati dalla bellezza, alimentando il nostro personale narcisismo, possiamo essere perseguitati dall’idea di ricchezza, di benessere sfrenato, andando così a esaltare l’avidità - la sete di possesso e di accumulo.
C’è chi è ossessionato dall’amore, dalla paura di essere lasciato solo. C’è chi prova la paura della solitudine, e ha bisogno di saltare da una persona all’altra, in cerca di approvazione, che non si traduce necessariamente in amore. Ci si illude che sia un grande amore duraturo, che, al primo soffio di vento, si trasforma in cenere e delusione.
Tom Riddle, nel suo essere un giovane affascinante, uno studente straordinariamente brillante e proficuo, aveva riconosciuto la sua ossessione. Era successo un giorno di banale pioggia, e aveva riconosciuto il tutto con estrema precisione e con tale freddezza chirurgica da essere preoccupante, per un adolescente che si affacciava all’età adulta.
Ma lui non era un adolescente normale.
Ma che cosa voleva dire essere normale, in un orfanotrofio dove il tempo era perennemente schiavo dell’attesa? Che cosa voleva dire essere normale, quando era privato dei basilari affetti paterni e materni? Che cosa voleva dire essere normale, quando invece lui era figlio d’un inganno, d’un incanto di una donna ossessionata dalla sua paura d’essere sola, e di non poter avere quello che voleva? 
Lui non era normale e lo sapeva. Era qualcosa di innato, ma anche tutto ciò che è innato richiede un tempo di conoscenza e d’accettazione.
Lui era un mago. Lo aveva scoperto e si era sentito atterrito di fronte a quell’armadio che aveva preso fuoco, dopo un suo scatto d’ira. Aveva pensato intensamente di voler dar fuoco a tutto, di bruciare quel luogo di illusioni e di infelicità, di darlo in pasto alle fiamme, per placare la sua fame di voler essere qualcuno di definito al mondo. Perché non poteva accontentarsi come tutti gli altri bambini?
Da quei suoi pensieri funesti era partito uno scoppio alle sue spalle, come un petardo, o come una di quelle bombe di cui tanto si parlava, di cui tutti, specialmente gli adulti, avevano paura.  Aveva visto una luce calda disegnare la sua ombra contro il muro. Un’ombra netta, decisa, non quella indefinita delle giornate grigie senza sole, che aveva avuto fino a qualche minuto prima. Era un’ombra nera, nerissima.
Tom si era voltato esitante, e si era trovato le fiamme davanti. Il mondo era diventato dei colori del rosso, del giallo e dell’arancio, spazzando via il grigio uniforme e indefinito.
I suoi occhi freddi, anche loro di un colore indefinito, avevano preso una luce strana; improvvisamente, avevano abbracciato le scintille provenienti da quel fuoco. E quel fuoco lo aveva lasciato entrare dentro di lui, senza esitazione. Lui era un mago - non era normale. Ed era felice di ciò. Poteva pensare alle cose più assurde, e poteva farle diventare realtà.
Quelle fiamme avevano solleticato i semi della sua ossessione, che dormivano quieti nell’inverno e nel letargo della follia.
Si sentiva improvvisamente potente, si sentiva lanciato non un gradino sopra tutti gli altri, ma chilometri sopra gli altri bambini e ospiti dell’orfanotrofio di Londra - “e così ho domato il fuoco” aveva pensato compiaciuto il giovanissimo Tom. E allora, aveva provato a domare l’acqua, riuscendoci, spegnendo così il piccolo incendio che aveva fatto scoppiare.
Il passo successivo era quello di domare l’aria, scatenando piccole raffiche di vento che sollevavano le gonne delle bambine. Poi, la terra, ovvero creare buchi improvvisi tra le già malconce assi di legno, che componevano il pavimento dell’istituto. Si divertiva a vedere la gente cadere dentro quelle sue trappole.
Si sentiva felice, il re degli anormali, in mezzo a gente che si fingeva di essere normale. Almeno lui non avrebbe più dovuto indossare maschere, espressioni di rassegnazione di fronte a degli adulti in cerca del bambino modello da rendere felice, ma soltanto una corona. O forse, avrebbe dovuto avere una bacchetta magica tra le mani, un inequivocabile simbolo del potere. Un giorno, avrebbe avuto anche la sua bacchetta magica, e avrebbe potuto avere un futuro - il suo futuro da re, ne era certo. 

E quella conferma di possibilità di avere un futuro non aveva tardato ad arrivare. La Scuola di Magia e di Stregoneria di Hogwarts era proprio il posto dove gli anormali come lui potevano imparare a esserlo ancora di più.
A Tom non interessava fare amicizia con gli altri. A Tom non interessava nulla che riguardasse i rapporti umani. Lui voleva sovrastare tutti, voleva domare tutto e tutti. E soprattutto, aveva iniziato a sviluppare una certa curiosità riguardanti le sue origini, la sua famiglia. Voleva scoprire i suoi antenati, era ovvio ed evidente che non fosse figlio di due persone normali, ma almeno di un individuo dotato di poteri magici.
Le sue ossessioni avevano iniziato a svegliarsi - e a chiedergli imperiose di domare tutta la magia esistente. D’altronde, non era stato spedito nella casata Serpeverde dal Cappello Parlante a caso. Aveva voluto subito sapere la storia delle quattro case, dei loro fondatori, e ovviamente, il suo acerbo narcisismo - che più avanti sarebbe stato un consapevole narcisismo - si era compiaciuto nel sapersi smistato nella casa di un mago nobile, ambizioso e per questo scomodo e anche incompreso. Ma Salazar Sempreverde era anche pieno di segreti, che aveva lasciato al proprio erede. E Tom Marvolo Riddle voleva essere degno di quei segreti. Si era eletto da solo erede naturale di uno dei quattro fondatori di Hogwarts. 
Così, divenne ossessionato dal voler diventare il mago più potente di tutti i tempi. Più forte di Salazar Serpeverde. 

Quel pensiero non lo abbandonava mai, giorno e notte era lì, piantato nella sua testa, e cullava il suo apprendimento, abbracciava le nozioni più importanti, e come una madre amorevole, li preparava a diventare utili per qualcosa, per un fine ultimo nobile e alto, che Tom voleva disperatamente raggiungere. Non amava le uscite del sabato a Hogsmeade, non le amava in compagnia, perlomeno, perché non disdegnava un giro ai Tre Manici di Scopa, in fondo. Però, la Burrobirra lo aveva stufato pressoché subito, ed era andato clandestinamente in cerca di qualcosa di più forte - ed era qualcosa che poteva concedersi alla Testa di Porco. Quella marmaglia poco raccomandabile, che frequentava il pub più lercio e malfamato del villaggio, tirava fuori quel senso di aristocratico disprezzo che Tom si era meticolosamente costruito, perché lui era assolutamente convinto di poter essere l’erede di Salazar Serpeverde, e che il suo destino non avesse niente in comune con il resto di quella lurida folla. Lui era assolutamente convinto di poter diventare il re dei maghi. Aveva il sostegno e la viva ammirazione di tutti gli insegnanti - tranne uno, tranne da parte di quell’Albus Silente, verso il quale ricambiava il senso di antipatia; era ammirato dai suoi compagni di casa, lo vedevano come un modello. Le ragazze lo cercavano, ma a lui non interessavano, se non per un tiepido e mero desiderio fisiologico.
A lui l’umanità fatta da maghi non interessava, e aveva iniziato a nutrire un sincero disprezzo per i Babbani. E quindi, con gli anni, e specialmente negli anni della sua permanenza a Hogwarts, era cresciuto il disprezzo verso suo padre, uno sporco e comunissimo Babbano, che aveva osato abbandonarlo in quello squallido orfanotrofio - e che aveva osato non amare sua madre, una strega. Aveva iniziato a odiare il nome di suo padre, Tom Riddle, che era anche il suo, e ben presto aveva trovato il nome, un nome che sentiva totalmente suo e che solo le persone degne della sua stima avrebbero potuto pronunciare. Non lo pronunciava nemmeno lui stesso ad alta voce, ma nella sua testa suonava come un nome da re. E da re lo avrebbero trattato tutti, molto presto, ne era certo. 

Le sue ossessioni si facevano fiori neri e velenosi dentro di lui, fiorivano rigogliosi e forti, e andavano di pari passo con la sua straordinaria abilità nell’apprendere l’arte magica. Tuttavia, con il passare degli anni, il giovane Serpeverde aveva iniziato a reputare estremamente limitante la magia insegnata a scuola. Si chiedeva perché tutto dovesse essere così ligio e ossequioso alla correttezza, a un uso della magia equo e giusto verso gli altri. Certo, Hogwarts doveva formare maghi equilibrati, non dei delinquenti, poteva capirlo, ma solo in parte. Eppure, trovava smielato e disgustoso questo amore per la giustizia, per la luce, per la bontà. Il mondo non poteva essere fatto di sola luce - altrimenti, perché il mondo era fatto anche di notte, di ombre proiettate a terra e contro i muri? Aveva scoperto che anche la biblioteca aveva anche i suoi scaffali proibiti, e con il suo fascino e il suo modo di convincerti da elegante affabulatore, che tirava fuori solo se necessario, era arrivato a quell’angolo oscuro e si era da subito beato di quel nero denso, di rune dimenticate da tradurre faticosamente, di linguaggi cifrati da interpretare, di incantesimi proibiti. E quel senso di proibito implicava un’attrazione inarrestabile, perché quegli incantesimi andavano sentiti con tutto il proprio essere. Perché qualcosa di profondamente sentito e autentico prendeva il nome di Magia Oscura?
Aveva così trovato il modo per incanalare il suo odio per le sue origini babbane - che teneva ben nascoste - e un modo per dare un’ulteriore spinta alle sue ossessioni in un solo meraviglioso obiettivo. 

Il fine ultimo della Magia Oscura era la Morte. Potevano girare attorno ai concetti e ai sentimenti di odio, disprezzo, ira, ma il fine ultimo di tutto quell’imparare, di quel diventare potenti in maniera illecita, era la morte. E non solo la morte altrui, ma anche la propria. Per quanto i maghi godessero di una durata della vita media più lunga di quella dei Babbani, anche loro avevano una data di scadenza. “Quindi vuol dire che tutto questo affannarsi non serve a nulla?” si era chiesto Tom Riddle, mentre sedeva al tavolo della Sala Comune di Serpeverde, rovinandosi la vista dietro un volume con delle scritte minuscole, appena illuminato da una candela oramai completamente sciolta. Perché nessun Mago Oscuro aveva trovato la soluzione alla Morte? Per Merlino, non potevano essere stati così ottusi. Domavano tutta la magia esistente, avevano una conoscenza della magia assai più profonda rispetto ai maghi normali, e nessuno di loro aveva pensato a vincere la Morte? Quale errore ingenuo, quanta superficialità e vanità, aveva pensato Tom. Ma lui avrebbe fatto la differenza.

Tom aveva paura della Morte, ma non lo avrebbe mai ammesso, poiché doveva essere un re, e il re non doveva avere paura di alcunché, perlomeno di fronte al popolo che avrebbe riposto tutte le speranze verso di lui. Eppure, aveva paura di essere dimenticato, di rimanere un mago banale senza arte, né parte. Aveva paura di essere come sua madre, che era talmente schiava dell’amore da arrivare a fare quello che aveva fatto - ingannare un uomo con la magia. Tutta la sua sapienza per farsi amare da un uomo - che poi l’aveva abbandonata a morire, quando Tom era un neonato!
Il giovane era terrorizzato all’idea di lasciare quel mondo all’improvviso, e segretamente tremava al pensiero di non poter lasciare alcuna traccia tangibile dei suoi progetti.
All’improvviso, la sua più grande ossessione era diventata trovare un modo per sconfiggere la morte. Voleva eluderla, ingannarla per sempre. Ma lo avrebbe fatto solo per se stesso, l’artificio per sconfiggere l’altera dama con la falce sarebbe rimasto segreto, perché tutti quelli attorno a lui, presto o tardi, sarebbero morti, lui sarebbe stato immortale e avrebbe regnato in eterno su qualsiasi cosa.
Che sciocchi, questi Maghi Oscuri, hanno creato incantesimi malvagi oltre ogni immaginazione, ma non si sono preoccupati di sconfiggere la Morte, perlomeno, la loro morte”.
Ma Tom non aveva immaginato che, per diventare immortali, si sarebbe dovuto macchiare le mani di molte morti. E per far morire le persone, avrebbe dovuto volerlo con tutte le sue forze, fino a quando non sarebbe diventato perfettamente abituato a far morire quelli attorno a sé. L’avrebbe amata d’un amore morboso, la Morte. Ma al momento della resa dei conti, l’avrebbe allontanata brutalmente da sé, come se fosse divenuta d’un tratto un’ospite sgradita. Lui sarebbe stato più vivo che mai, in qualsiasi cosa vivente e non vivente. Avrebbe dato l’anima a quel mondo, per rimanerci invischiato per sempre, in quella vitalità - e lui l’avrebbe reso un folle e oscuro mare di vita, piegato al suo volere. 

Tom ci era arrivato, a quell’illusione di aver ingannato la morte. Ci era arrivato con la forza della persuasione, si era servito della forza delle parole e del tessere relazioni di convenienza, per ottenere le informazioni necessarie. Quant’era stato stolto il Professor Lumacorno! Aveva la lingua più rapida del cervello, e un’ossessione per l’apparenza, mescolata a un inspiegabile desiderio di essere puntualmente una spanna sopra tutti, che lo rendeva un ometto desideroso e smanioso di protagonismo, e generoso nella chiacchiera, qualora qualcuno lo degnasse di attenzione. L’insegnante di Pozioni gli aveva dato tutte le informazioni necessarie per costruire un artefatto oscuro, l’Horcrux, dove lasciare un frammento della propria anima. I libri di Storia della Magia Oscura - quelli che non avrebbero mai ammesso in un regolare programma scolastico - parlavano di un tentativo riuscito, da parte di Herpo Il Folle, di costruire un Horcrux. Quello era quello più noto. Tuttavia, una notte, quando tutti gli studenti erano andati a dormire, Tom scoprì, in uno dei libri proibiti che teneva lontani dagli occhi di tutti, delle pagine scritte in uno strano alfabeto a lui sconosciuto. Prese la bacchetta magica e fece luce su quelle pagine, dato che la luce delle candele era insufficiente. Sembravano delle pagine aggiunte in seguito, incollate in maniera grossolana, come se fosse un’appendice voluta da qualcuno che non fosse l’autore.
C’era anche una foto magica di quello che sembrava essere il protagonista di quei capitoli. Era un uomo enorme, con una barba lunga, vestito in maniera semplice, ma con due occhi magnetici e irresistibili. Al suo fianco, era seduta una donna vestita in maniera regale, con una corona piuttosto vistosa in capo. Si voltava verso quel gigante, e lo guardava con occhi adoranti, come se il suo destino dipendesse proprio da quell’uomo.
Tom Riddle non aveva la minima idea di chi potessero essere. Trovò la foto magica, e lesse le scritte - che a prima vista sembravano simili a quell’alfabeto strano. Ma a ben guardare, c’erano delle parole a lui comprensibili: Grigorij Efimovič Rasputin i Aleksandra Fëdorovna Romanova. 
Sfogliò quelle pagine posticce, chiedendosi il motivo di quel voler aggiungere tale personaggio - perché era evidente che la donna non fosse tenere in considerazione - tra coloro che avevano provato a fabbricare degli Horcrux.
A un certo punto, riuscì a trovare un’altra foto magica, datata 1917, perché quello era l’unica cosa che riuscisse a capire. Un uomo in divisa, dietro a un tavolo, in una sala luminosa e piena di enormi bandiere, mostrava degli artefatti. Tom ne contò sei - un’impresa incredibile, perché l’Horcrux era un oggetto estremamente pericoloso e destabilizzante per l’anima del creatore, e il rituale di costruzione era molto complesso, che culminava con un assassinio voluto. Questo Rasputin aveva commesso ben sei omicidi voluti e progettati con malvagità, per essere riuscito nella sua impresa. E se avesse ucciso pure quell’Aleksandra che tanto sembrava adorarlo, per rendere la sua anima immortale?
E quindi…” aveva pensato Tom, preso da delirante curiosità “Rasputin potrebbe essere ancora vivo”. Qualcosa dentro di sé gli diceva che la sua teoria era plausibile. Uscito da Hogwarts, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua, avrebbe imparato il russo e trovato Rasputin, anche a costo di girare tutta la Siberia. E da lui avrebbe imparato l’arte di costruire gli Horcrux. Ma lo avrebbe superato, quel maestro che aveva appena eletto: non avrebbe costruito sei Horcrux, ma sette, un numero che sentiva perfetto. La sua anima sarebbe stata racchiusa in capolavori di gioielleria e artigianato, macchiandosi del miglior sangue possibile. 

 

 

Bellatrix Black aveva capito di essere pazza la notte del 12 aprile 1961. Aveva solo dieci anni, ma era lucidamente consapevole che il suo senno, la sua calma e la sua razionalità erano state mandate sulla Luna, quel punto luminoso nella notte, là, in alto nel cielo. E sapeva anche che uno spettro di nome Jurij - perché lei parlava con gli spettri sin dalla più tenera età, per la gioia di Druella e Cygnus - era arrivato nell’oscurità, le aveva dato un rassicurante bacio sulla fronte, le aveva dato la sua lettera per Hogwarts, ed era sparito, dicendole che ci avrebbe pensato lui a portare il suo senno in cielo, in salvo dal resto del mondo. Non era sicura che tutto ciò fosse successo mentre lei era sveglia, o fosse unicamente frutto dei suoi sogni. Una volta arrivata l’alba si era sentita più leggera, ma come in preda a una leggera febbre delirante, che le aveva fatto rompere dei bicchieri sul tavolo della sala da pranzo, e tutto questo solo con la forza del pensiero. Erano successe delle cose strane durante quella giornata, e la piccola Bellatrix si sentiva in preda a un’agitazione perenne. Non aveva voglia di giocare con ‘Dromeda e Cissy, Andromeda e Narcissa, le sue sorelle. Non aveva molto appetito, solo una gran sete. Oltretutto, provava un grande desiderio di uscire dalla sfarzosa villa dei suoi genitori, per scappare verso i boschi. Quell’esigenza inaspettata di fuggire non sapeva come spiegarla, e non era sicura che i suoi aristocratici genitori l’avrebbero capita, ma era lì, martellava ogni suo pensiero, non le lasciava scampo. Ma non poteva allontanarsi da casa. Avrebbe provato a consolarsi andando in balcone dopo il tramonto, luogo tutto sommato raggiungibile, perché la finestra di camera sua dava proprio sul balcone più grande della tenuta.
Le ore passavano, e più si avvicinava l’ora del tramonto, più non vedeva l’ora di uscire. Si era attaccata alle tende della finestra, e si era messa a guardare ossessivamente fuori. Appena il cielo aveva iniziato a farsi dei colori del fuoco verso ovest, e verso est si ammantava di blu, Bellatrix aveva aperto la finestra, e se n’era uscita. 

Si era accorta subito che qualcosa non andasse. Il cielo non era blu, ma era verde. Di un verde malato e scuro. Eppure, fino a qualche minuto prima, le sembrava tutto normale. Non c’erano nuvole colorate, non c’era già più il sole, sparito dietro gli alberi, che sembravano solo delle guglie nere che decoravano quel cielo inquietante. Le stelle sembravano essere sparite, coperte da quelle pennellate dense e soffocanti che dipingevano la volta celeste.
Beh, almeno la Luna ci sarà…” pensava Bellatrix, che stranamente non si sentiva a disagio in quel paesaggio da Giorno del Giudizio. Voleva avvicinarsi al parapetto, perché le era sembrato di sentire qualche rumore provenire dal giardino. Sapeva che quella sera, i suoi genitori sarebbero stati impegnati con un “loro amico”. Era un amico a cui volevano molto bene, e lo vedevano molto spesso, in quel periodo. Era un mago come tutta la sua famiglia, ma sembrava essere molto forte, a detta di suo padre. Si faceva chiamare “Lord Qualcosa”. Bellatrix lo chiamava così, perché non si ricordava bene il nome, e nemmeno le sue sorelle se lo ricordavano. Nessuna delle tre bambine lo aveva mai visto, perché le regole della nobile famiglia Black impedivano ai bambini di entrare in contatto con gli amici dei genitori fino a un’età stabilita, età in cui avrebbero avuto l’educazione adeguata per sapersi relazionare in maniera matura e consapevole con la cerchia di amici dei genitori, senza scadere in bambinate o atteggiamenti infantili, che la madre, Druella, malsopportava.
La giovane strega più si avvicinava al parapetto, più sentiva il cuore batterle forte, in preda a un’inspiegabile estasi. Era come se, sotto quel cielo funesto, qualcosa di straordinariamente oscuro stesse succedendo, e per la prima volta in vita sua si sentiva partecipe di quel rito - benché non sapesse minimamente di che cosa si stesse trattando. Dentro di sé, si sentiva in festa, partecipe di quell’ignota e oscura follia - ed era perfettamente cosciente e a suo agio.
Si appoggiò al parapetto, e vide finalmente la Luna sorgere. E anche lei, quella sera, non era normale, era contornata di porpora, e sembrava una porpora liquida, perché man mano che sorgeva dagli alberi, quel liquido colava alla base della Luna e gocciolava via, nel cielo, a formare una scia scura rossastra nel verde scuro. Era lì che lo spettro Jurij le aveva portato il senno! Ne era certa - e a un tratto, si era sentita rassicurata, perché non poteva esserci luogo migliore dove custodire la sua sanità mentale. Una luna di porpora.
Aveva abbassato lo sguardo, e aveva visto un uomo attraversare il giardino, ammantato in un bellissimo ed elegante mantello nero. Che fosse un uomo ne era certa, perché questi si era accorto della presenza della giovanissima strega, nel balcone soprastante, e sembrava volerla raggiungere. Intanto che Bellatrix si chiedeva se quello fosse il famoso amico che i suoi genitori stavano aspettando, infatti, l’uomo sembrò librarsi verso l’alto, per raggiungerla. Bellatrix era tentata dall’allontanarsi di lì, dal tornarsene in camera, piena di pudica vergogna. Ma quel cielo era insolitamente bello, quella Luna destava fascino ed inquietudine allo stesso tempo, ed era troppo curiosa di avere a che fare con qualcuno che non fosse la sua sterminata e aristocratica famiglia, o semplicemente dei suoi noiosi coetanei. 

Ce lo aveva davanti, e non poteva più indietreggiare, né tantomeno scappare. Quell’uomo era pallido, aveva dei lineamenti elegantissimi, e due occhi chiari e ipnotici, da cui Bellatrix non riusciva a staccare lo sguardo. Non si stavano dicendo alcunché, e quell’uomo - perché era un uomo, e più o meno aveva l’età dei suoi genitori - la fissava, come se la stesse esaminando, come se fosse un oggetto curioso. Istintivamente, la ragazzina aveva abbassato lo sguardo, coprendo il viso con i propri capelli scuri. Ma non aveva paura, non aveva assolutamente paura di quell’uomo, di quella sera frutto della sua allucinazione e della sua follia. In quel momento, l’uomo aveva allungato la mano sinistra verso di lei, facendola uscire dalla manica del mantello. Portava un grande anello in argento al dito, Bellatrix aveva potuto vederlo bene, perché con quella stessa mano, il mago le aveva scostato i capelli dal viso. L’aveva guardata con curiosità, cercando di leggere i suoi pensieri più reconditi.
Come ti chiami, bambina?” le aveva chiesto l’uomo. Aveva una bella voce profonda, ed aveva un qualcosa di carezzevole, ed estremamente educato e composto.
Lei era rimasta in silenzio per qualche attimo, e lui le teneva le ciocche di capelli ancora tra le dita.
Bellatrix Black” gli aveva risposto, infine, non sapendo minimamente cosa aspettarsi.
Quell’individuo misterioso aveva sorriso. O così le sembrava. La ragazzina aveva visto la sua bocca muoversi, distintamente, sul viso incappucciato.
“Lo so che sei una Black” aveva risposto, con una strana dolcezza. “Adesso so che sarai pure una grande guerriera. La mia guerriera” aveva poi aggiunto, sibillino. E così dicendo, era tornato giù, in giardino, e si era messo in attesa che suoi genitori gli aprissero all’ingresso principale.
Bellatrix guardò la Luna sanguinolenta, e oltre a consegnarle il suo senno, le avrebbe consegnato il suo cuore, fintanto che quell’uomo non sarebbe andato a prenderglielo, e glielo avrebbe restituito. Non si era accorta che il cielo era tornato normale, blu e stellato come sempre - e la Luna brillava più limpida e piena che mai. 

Dieci anni dopo, Bellatrix Black sapeva di essere accanto a Lord Voldemort, di cui sapeva tutto, e non solo. Lei era diventata la sua guerriera, come lui aveva predetto. Era diventata la sua Mangiamorte prediletta, schierandosi apertamente con lui e con i suoi progetti di gloria e di potere. Condivideva tutto, senza riserve e senza esitazione, e lo sapeva di essere entrata in una spirale di follia e di onnipotenza dalla quale non sarebbe più uscita. Una spirale che aveva suggellato con il Marchio Nero sul proprio braccio. Era consapevole che di quella spirale avrebbe visto la fine, ne avrebbe conosciuto la durezza, ma poco le importava. Lord Voldemort le aveva dato un futuro diverso, un futuro migliore e più grande, il cui cielo era proprio verde come quella notte in cui lo aveva visto per la prima volta.
Era verde come la notte in cui lei aveva rotto gli indugi e le attese, proprio sul balcone di casa sua, intanto che i suoi genitori al piano di sotto davano un ricevimento, e aveva lasciato che Lord Voldemort si avvicinasse a lei più del solito. Forse più di quanto forse avesse mai concesso a qualsiasi altro uomo - e noncurante dei venticinque anni di differenza, dei vent’anni di Bellatrix Black e dei quarantacinque del mago, splendidamente portati da lui, come se stesse raggiungendo davvero la desiderata immortalità, lei gli aveva concesso di attirarla a sé e di baciarla. La giovane donna aveva pazientemente aspettato, aveva costruito la sua tela con meticolosità e dedizione, sebbene la sanità mentale l’avesse abbandonata da anni. Ma era lucida, lucidissima, quando si era trattato di Lord Voldemort. Era diventato la sua ossessione quotidiana, la sua ragione di vita. Sapeva tutto di lui, sebbene non avesse avuto molte occasioni di stargli accanto per davvero. Ma nel momento in cui lui si sarebbe fatto avanti - e lei sapeva che lo avrebbe fatto, senza chiedere alcun permesso, sarebbe arrivato come se dovesse notificarle una decisione già presa - sapeva che sarebbe stato per sempre. In una strana e oscura maniera di concepire quel per sempre. I loro destini si sarebbero uniti e saldati in un Patto Infrangibile, benché lei sapesse bene di esser stata promessa in sposa a qualcun altro - un Rodolphus Lestrange di cui lei non sapeva molto, né tantomeno le interessava sapere qualcosa di più. Non sentiva la minima attrazione, lo considerava un compito da eseguire per non turbare i suoi genitori, che avrebbero ben tuonato, o forse no, se avessero scoperto il legame tra lei e Lord Voldemort.
Ma le sue labbra, che cercavano in maniera sempre più appassionata quelle dell’uomo, sapevano a chi appartenere. Le sue mani, che cingevano il collo dell’uomo, sapevano chi avrebbero dovuto cercare, da lì in avanti. Avrebbero dovuto cercare lui, lui, e solo lui, l’Oscuro Signore, che si era chinato verso di lei, l’aveva onorata con un lungo bacio appassionato, la stava avvolgendo cavallerescamente nel suo mantello nero, come se volesse far notare al mondo circostante che da lì in avanti, Bellatrix Black non avrebbe avuto un altro Signore da onorare, da baciare, da servire e a cui concedersi all’infuori di lui.
Bellatrix lo stava lasciando fare, gli stava permettendo di straziarla di baci, sapendo che sarebbero dovuti scendere di lì, prima o poi, che prima o poi lei avrebbe dovuto lasciarlo andare, in mezzo ai fedeli amici di lui, che lo aspettavano con il bicchiere in mano. E chissà quanto avrebbe dovuto aspettare per averlo di nuovo tutto per sé.
Mentre lui indugiava sul suo lungo collo, semi-nascosto dalla chioma corvina di Bellatrix, lei aprì gli occhi e guardò verso il cielo. Era verde, malato e olivastro. La Luna sorgeva, solleticata dal profilo nero degli alberi - ed era più sanguinolenta che mai. Il senno di Bellatrix era salvo, quindi, al sicuro là nel cielo, e fortunatamente non sarebbe mai tornato più indietro, per farla tornare indietro. La scia di porpora del satellite nascente era sangue fresco, una pennellata vivace in quel cielo che la giovane donna aveva imparato ad amare, a riconoscere come segnale che la sua follia sarebbe stata per sempre parte di lei.
Era porpora come il vestito che la giovane aveva insolitamente scelto quella sera - lei che amava sempre e solo il nero. Sentiva le dita di Voldemort accarezzarle il corsetto, ne studiavano il tessuto e sentiva che stava cercando di capirne il colore, alla tenue luce della Luna.
Come fai a sapere che il porpora è il mio colore preferito?” aveva sussurrato Lord Voldemort all’orecchio di Bellatrix.
“Perché la porpora è il colore amato dai re. Potresti mai amare un altro colore?” gli aveva risposto lei, arguta, per poi cercarlo per un altro bacio voluttuoso e audace, prima di tornare all’ipocrita sfarzosità di un’altra cena, di un altro ricevimento tipico dei Purosangue. 

*

Sono felice di dirvi che sono tornata. Semmai me ne sia andata…

Faccio vergognosamente schifo nel comparire così, improvvisamente dopo mesi, ma nel frattempo, è per dirvi che non sono sparita, e che per quanto la vita sia intensa e imprevedibile (purtroppo in tutte le sue accezioni), ci sono, non ho perso la voglia di scrivere del mio amato fandom di Harry Potter. E lo faccio con la seconda coppia che amo di più, dopo la Snevans, ovvero quella composta da Lord Voldemort / Bellatrix Black. Non so se farò altre one shot, perché comunque “Irish Rain” rimane la mia priorità assoluta. Ho scritto in questi mesi molto materiale al riguardo, ma da perfezionista quale sono, preferisco correggerlo e dargli un senso, prima di pubblicarlo. Ci tengo moltissimo. Così come ci tenevo a scrivere questa storia, che avevo in testa da un bel po’.

A tutti coloro che leggeranno… Grazie. Umilmente, grazie.

Vostra,

Lily White

   
 
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