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Autore: MadAka    29/03/2016    2 recensioni
Logan Jackson Miller – a tutti noto come Jack – è un personaggio tormentato. Dipendente da droghe, omosessuale, con una vita sentimentale complicata e con un progetto che desidera portare a termine fin troppo ardentemente. Un ragazzo destinato all’autodistruzione.
A impedire che ciò accada – facendolo a sua stessa insaputa – c’è Riley, la ragazza della porta accanto.
Un’amicizia forte la loro, un legame saldo, che in un momento di duplice debolezza si incrina profondamente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Il clacson in strada suonò troppo a lungo. A esso riuscì di portare a termine il compito che la luce del mattino non era stata in grado di ultimare: svegliare Jack.

Il ragazzo aprì gli occhi nel chiarore del mattino. Intorno a lui, fra il bianco, non fu in grado di riconoscere la camera da letto in cui si trovava. Aveva qualcosa di famigliare, segno che ci era già stato. La cosa lo aiutò a tranquillizzarsi quando tutto prese improvvisamente a vorticare. Il semplice giramento di testa gli permise di capire che, la sera precedente, nulla più dell’alcol – e forse neanche troppo di quello – era entrato nel suo corpo; altrimenti i postumi sarebbero stati differenti e ben più pesanti. Si appoggiò sui gomiti, ancora intontito. Le lenzuola di cotone gli scivolarono di dosso, fermandosi poco sotto l’ombelico. In quei brevi istanti ogni parte del suo corpo venne accarezzata dalla stoffa chiara e delicata, cosa che gli fece intendere che non stava indossando niente sotto di essa. Per lui poteva significare una cosa soltanto. Si voltò per vedere se, alla sua sinistra, l’altro ancora stava dormendo. Il sorriso che gli si era dipinto in volto a quel pensiero, scomparve improvvisamente.

La persona addormentata accanto a lui gli dava le spalle. Le lenzuola seguivano fedelmente i contorni del suo corpo: la vita sottile, i fianchi morbidi e le linee formose. Le spalle scoperte permisero a Jack di vedere la pelle diafana in quei pochi centimetri che introducevano la linea che scendeva lungo la schiena. I lunghi e setosi capelli biondi erano sciolti e arruffati, liberi sul cuscino.

Il cuore del ragazzo rallentò di colpo. Accanto a lui, nel letto, c’era una donna e non una qualsiasi, bensì Riley.

Numerose domande cominciarono a riempirgli la testa ma, sopra a tutte, la più insistente era una soltanto: come era stata possibile una cosa simile?

Jack non riusciva a staccare gli occhi dal corpo della ragazza accanto a lui. Contemporaneamente costringeva il suo cervello a tentare di ricordare, a ripercorrere i minuti e le ore precedenti. La testa continuava a girargli; per colpa dello shock lo fece con forza maggiore. Tuttavia fra la confusione ammassata dentro di lui – accresciuta ancora di più alla vista di Riley – le cose cominciarono a delinearsi con lentezza e dolore. Aveva pensato bene, pochi minuti prima. La sera precedente aveva, sì, bevuto, ma non troppo. Per tale motivo dopo l’iniziale momento di smarrimento riuscì a ricordare tutto. I ricordi riaffiorarono smossi nella sua testa. Andarono a riempirgli il cervello, gli occhi; gli contorsero lo stomaco e fecero crescere in lui il forte peso del rimorso.

 

*

 

Appartamento N° 23 – La sera precedente.

 

Jack premette con una tale forza l’icona rossa del telefonino che se lo schermo dello smartphone si fosse crepato non ne sarebbe certo rimasto sorpreso. Come la chiamata venne chiusa il ragazzo, in preda a un impeto di rabbia intenso come non gli succedeva da tempo, lanciò il cellulare contro il divano, liberando insieme a quel gesto un verso d’ira. Si portò le mani sul viso nel vano tentativo di riuscire a regolarizzare il respiro. Era inutile. Aveva la mascella tesa per la rabbia che stava provando e un tale senso di frustrazione dentro da non riuscire a trovare neanche con il pensiero il modo migliore per sfogarsi.

Louis lo aveva fatto di nuovo. Era riuscito a farlo sentire una nullità, il piacevole diversivo con cui amava crogiolarsi di tanto in tanto, ma da tenere ben nascosto alla vista del mondo. Da più di sei mesi la loro relazione andava avanti, tuttavia lo faceva in modo strascicato, con continui alti e bassi e sempre minacciata dalla luce della verità, che avrebbe potuto smascherarli da un momento all’altro.

Louis era sposato. Per un uomo di politica del suo calibro mostrare all’America la sua famiglia perfetta – eterosessuale, felice e completa – era fondamentale. Tuttavia, più di due anni prima, il politico non era riuscito a rimanere indifferente davanti agli occhi grigio-azzurri di Jack già dal momento del loro primo incontro a un brunch. Jack era là, all’epoca, sotto le sembianze di uno dei due figli di Benjamin Miller – il Presidente degli Stati Uniti –, dichiaratamente omosessuale e notevolmente annoiato. Ai due era bastato un drink insieme e poche parole perché fosse evidente la complicità che, in qualche modo, li avvicinava.

A ogni loro incontro l’attrazione si rafforzava. Jack aveva cominciato a considerare sempre meno irritanti le cene formali a cui era costretto ad andare in quanto a figlio del Presidente. Erano il modo più efficace per interagire con Louis, per conoscerlo meglio, per ammirarne l’innata bellezza, dai capelli biondi ed elegantemente arruffati e dagli occhi azzurri che sembravano costantemente alla ricerca di quelli di Jack.

Poi, circa sette mesi prima, Louis si era lasciato andare. Jack lo aveva accolto ben volentieri fra le proprie braccia, condividendo con lui il tempo, il letto, la musica che amava suonare al pianoforte e la cocaina che sempre più spesso acquistava a notte fonda.

Da allora si vedevano con frequenza maggiore. Jack – ormai figlio dell’ ex Presidente – era diventato l’amante di un politico in carriera, in ascesa. E se ne era innamorato. Dall’altra parte c’era Louis, che aveva sempre sostenuto di ricambiare i sentimenti dell’altro e che si diceva pronto a lasciare la moglie e la figlia per poter stare insieme a lui.

In quei mesi, però, non lo aveva mai fatto. Aveva ripetuto a Jack che avrebbe chiesto il divorzio a breve un’infinità di volte e quest’ultimo, come uno stupido, ci credeva di continuo. Tuttavia Louis non aveva ancora lasciato la moglie; non le aveva neanche accennato nulla riguardo la sua nuova storia.

Per tale motivo, quel giorno, avevano litigato ancora. All’ennesima richiesta da parte di Jack di poter rendere nota al pubblico la loro relazione, Louis aveva risposto che gli serviva ancora tempo, che lui non avrebbe potuto capire, che non sarebbe mai stato considerato normale quello che avveniva fra loro. Lo screzio era degenerato in una violenta lite telefonica, fatta di imprecazioni, di inesattezze e di continui scarichi di colpa. Era poi sfociata nel silenzio quando Jack aveva chiuso la conversazione con rabbia, lanciando il telefono contro il divano che aveva di fronte.

Frustrato, fece scivolare le mani fino ai capelli corvini, spettinandosi più di quanto già non fosse. Raggiunse il pianoforte e si sedette, convinto che la musica avrebbe potuto aiutarlo. Non riuscì a decidere una canzone da suonare. Molte le aveva dedicate a Louis ed era consapevole che non sarebbe riuscito a suonarle senza finire con il pensare a lui. Decise di lasciar stare lo strumento. Con suo rammarico la musica non avrebbe potuto aiutarlo, questa volta. Raggiunse di fretta uno dei cassetti del mobile della camera da letto. Dentro cercò fino a trovarlo un piccolo ovulo di pellicola trasparente, usato a protezione di una soffice polvere bianca. Tornò in soggiorno con quello in mano, si sedette sul divano – ignorando completamente il telefono cellulare – e dispose la poca polvere che gli era rimasta in due strette file. Arrotolò una banconota da un dollaro e si preparò a inspirare tutto.

Non lo fece. Rimase fermo a guardare le due strisce di polvere in maniera assente, la mascella ancora contratta per la rabbia. Con gesti nervosi delle dita continuava a tormentare la banconota arrotolata che aveva in mano. Era troppo arrabbiato, troppo nervoso. In un simile stato la cocaina avrebbe certo potuto aiutarlo, ma un parte di lui si rifiutava di assumerla; semplicemente non la voleva. Avrebbe dovuto trovare un altro modo per togliersi dalla mente Louis per un po’ e in un improvviso momento di realismo si rese conto che, da solo, non ci sarebbe mai riuscito.

Non perse neanche tempo a infilarsi un paio di calze. Attraversò a piedi nudi quel poco di strada che lo separava dall’ingresso dell’appartamento che aveva di fronte. Bussò un paio di volte, rimanendo in attesa. Quasi subito Riley comparve sulla porta. Indossava una t-shirt bianca, larga e morbidi pantaloni da tuta. I capelli biondi erano legati in un disordinato chignon che si ergeva sopra la sua testa. Come vide il ragazzo sorrise, già perfettamente consapevole che a bussare era stato lui.

«Spero di non disturbare» esordì Jack, abbozzando un sorriso. Trovarsi davanti la ragazza lo aiutò notevolmente a sentirsi meglio.

Loro due si erano conosciuti poco dopo l’arrivo del ragazzo nel condominio. Come per tutti i vicini di casa, avevano iniziato salutandosi sulle scale quando si incontravano. Erano poi passati a brevi conversazioni sul pianerottolo, davanti ai reciproci ingressi, finché non ne erano scaturiti i primi inviti a bere qualcosa, a prendere un caffè. Riley e Jack erano così diventati amici.

Lui si trovava incredibilmente bene in sua compagnia. Stando con Riley non provava il minimo bisogno di assumere qualche sostanza per rilassarsi; con lei non servivano alcolici, cocaina o cose del genere. Riley aveva una tale naturalezza implicita nei gesti che era più che sufficiente per stare bene insieme a lei.

I due per lo più parlavano, guardavano film alla televisione, alle volte giocavano con la Playstation della ragazza, mantenendo sul divano fra loro un pacchetto di marshmallow che, quando veniva aperto, era predestinato a finire.

Riley sapeva dell’omosessualità di Jack e a lui piaceva il fatto che era una delle poche persone che non lo faceva sentire sbagliato per questo. Perfino la sua famiglia, di tanto in tanto, lasciava trapelare di non aver totalmente trovato una spiegazione alla situazione del figlio, nonostante gli volessero veramente bene.

«Non disturbi tu, dovresti saperlo.»

La ragazza aprì maggiormente la porta, dando le spalle a Jack che lo prese come il giusto invito a entrare. Casa di Riley profumava sempre e anche quella sera non era da meno. Nel suo piccolo soggiorno – così uguale a quello del ragazzo – aleggiava un leggero sentore di noci tostate. Lei si sistemò accanto al tavolo, a cui si appoggiò leggermente con il fianco. Incrociò le braccia sotto i seni, rimanendo a osservare l’amico. Non era solo dovuto al fatto che lo aveva sentito gridare diversi minuti prima, le bastò poco per capire che in Jack qualcosa non andava. Riley decise di affrontare la questione per gradi, di non essere schietta nel chiedere al ragazzo cosa fosse successo e di farlo soltanto se si fosse presentata l’occasione giusta.

Jack le offrì quell’occasione praticamente subito. Alla ragazza non sfuggì il modo in cui si guardava intorno, né l’incertezza di cui erano pieni i suoi occhi chiari mentre evitava accuratamente il suo sguardo.

«Va tutto bene?» chiese, semplicemente. Lui portò immediatamente gli occhi su di lei. Rimase a guardarla come se si fosse ricordato solo in quel preciso istante il posto in cui si trovava. Poi incurvò lentamente le labbra in un sorriso amaro e ferito: «Abbiamo litigato di nuovo» mormorò.

Riley abbandonò le braccia lungo i fianchi, senza rispondere. Jack aveva nuovamente allontanato lo sguardo, puntandolo sul mobilio dell’angolo cottura alle spalle della ragazza.

«Vuoi sederti?»

Gli indicò con un cenno del capo il divano. Lui si limitò ad annuire, andando a sistemarsi su una delle due estremità. Il divano di ecopelle nera della ragazza era ormai rovinato e sfondato dagli anni, ma ancora piuttosto comodo. Jack ci si sistemò e incrociò le gambe sul cuscino. Riley lo raggiunse poco dopo. Posò una bottiglia di vino e un paio di bicchieri sul tavolino che avevano davanti e si accoccolò accanto al ragazzo, il corpo ruotato verso di lui. Jack afferrò la bottiglia e, per la prima volta da quando era entrato nell’appartamento n° 24, parve rilassarsi veramente.

«Mi ricordo di questa» disse, sorridendo. Aveva regalato lui quella bottiglia a Riley, diverse settimane prima.

Lei estrasse dalla tasca dei pantaloni il cavatappi e lo porse a Jack. Questi, senza troppi problemi, stappò la bottiglia e versò generose quantità del liquido scuro nei due bicchieri. Ne bevve un lungo sorso, preparandosi a ricevere il primo affondo della ragazza. Non si fece attendere, infatti: «Cos’è successo questa volta?»

Lui si voltò a guardarla. Riley teneva gli occhi sul bicchiere, muovendolo leggermente affinché il vino potesse far arrivare al suo naso l’aroma.

«Non lo ha ancora detto a sua moglie. Comincio a sospettare che non lo farà mai.»

Quell’ammissione lo fece star male. Ingollò ciò che gli era rimasto nel bicchiere e si pulì la bocca con il dorso della mano. La conversazione di poco prima con Louis gli tornò alla mente, così come il forte senso di frustrazione che era stranamente scomparso alla vista di Riley. Si versò un secondo bicchiere di vino.

«Jack ne abbiamo già parlato. So che sei innamorato di Louis, ma forse è meglio lasciare perdere questa storia, non credi?»

Lo costrinse a guardarla: «Lui è un politico. È in un momento delicato della sua carriera. Comincia a farsi un nome, a essere notato in giro. Porta avanti l’immagine della famiglia modello, davvero pensi che metterebbe a rischio tutto per mostrare alla luce del sole una relazione omosessuale?»

Jack rimase a guardarla negli occhi. La disarmante verità che gli aveva appena raccontato non lo fece arrabbiare quanto avrebbe potuto fare sentirla pronunciare dalla voce di sua madre, di suo padre o di suo fratello. Quelle parole, dette da Riley, suonavano come una realtà sconsolante, a cui non si sarebbe potuti sfuggire neanche aggrappati alle fantasie o le illusioni più forti.

«Ma lui mi ama» provò a replicare. Un tentativo debole che suonò tale anche a lui stesso. Si sentì improvvisamente crollare. Un misto di rabbia e tristezza lo avvolsero. Rabbia perché si trovava ad affrontare una storia male assortita, in cui si era buttato convinto di compiere le scelte giuste ma che invece si dimostravano sempre più sbagliate. E tristezza, perché tutto ciò lo faceva stare male.

Riley non rispose all’affermazione instabile fatta da Jack poco prima. Terminò il suo bicchiere di vino, mentre il ragazzo già si versava il terzo in preda alle sue angosce.

«Non riesco a mettere in piedi una storia sincera» disse lui all’improvviso, finendo in fretta anche il terzo bicchiere. Riley si voltò a guardarlo. Gli occhi grigio-azzurri erano puntati sul tavolino che aveva davanti, le labbra incurvate in un’incomprensibile smorfia. «Rovino sempre tutto. Mi illudo che le persone siano sincere con me anche quando non è vero.»

D’improvviso guardò la ragazza: «Sono solo un passatempo e io ogni volta mi convinco di non essere tale. Come si può pensare che uno come Louis rinunci alla carriera per stare con me? Sono il figlio gay dell’attuale Segretario di Stato e il nightclub che voglio aprire è ancora solo un mucchio di carta e scarabocchi. Non potrei mai essere alla sua altezza.»

La sua voce si fece nervosa, irritata. Riley si accorse che tremava leggermente e che era profondamente addolorata. Tuttavia Jack si sentiva sempre più nervoso e più frustrato. Voleva solo dimenticarsi di ciò che gli era successo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per capovolgere le cose. In quel momento sentì che la cocaina che aveva nell’appartamento gli sarebbe potuta essere utile. Non potendola prendere, però, si limitò a versarsi un nuovo bicchiere di vino.

«Non è colpa tua.»

La voce di Riley sferzò l’aria. Lui si voltò di scatto a guardarla, ma gli occhi della ragazza erano fissi sul nulla di fronte a lei. Il verde acquoso di cui erano intrisi si era appannato. Quando ricambiò lo sguardo di Jack ci mise un po’ a riprendere parola: «Non è colpa tua se le persone ti trattano male, se non hanno il minimo ritegno per i tuoi sentimenti.»

Si strinse nelle spalle di fronte all’occhiata perplessa lanciatale dal ragazzo. «Credi di essere l’unico a cui le cose vanno da schifo?»

«Io…» tentò di dire lui, ma le parole gli morirono in gola. Riley gli si mostrò davanti più fragile di come l’avesse mai vista, alle prese con tormenti invisibili ai suoi occhi. Tuttavia Jack non riusciva a trovare pace.

«Non c’è niente di male a lanciarsi in una storia, sai? A provare, sperando che le cose vadano per il verso giusto. Il problema è che quando le cose non vanno bene si rimane scottati.»

Gli occhi della ragazza si allontanarono. Jack appoggiò i gomiti alle ginocchia e si protese verso di lei. «Perché non me l’hai mai detto?» le chiese.

Riley sentì lo stomaco stingersi tanto erano vicini gli occhi di Jack quando sollevò i suoi per guardarlo. «Dirti che cosa?» mormorò.

«Che condividiamo la stessa sorte. Che siamo entrambi innamorati di qualcuno che non ci ricambia realmente.»

L’aroma di lamponi che possedeva il vino si riusciva percepire leggero nell’alito del ragazzo. Era troppo vicino per Riley e non riuscire a scomporsi davanti a quella che per lei era assoluta perfezione fu impossibile.

Era Jack la persona di cui Riley era innamorata. La loro amicizia si era trasformata ben presto in una maledizione per la ragazza e lo aveva fatto nel momento esatto in cui la consapevolezza che lui non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti si era annidata fra cervello e cuore. La cosa la faceva stare male, ma si era ripromessa di non rovinare il legame che la univa a lui per un capriccio. Non poteva contare neanche sull’attrazione fisica. Con Jack non aveva speranze per il semplice fatto che lui non l’avrebbe mai guardata come un uomo guarda una donna.

I quattro abbondanti bicchieri di vino ingurgitati in fretta da Jack stavano già cominciando a rendere le sue percezioni ovattate. La consapevolezza dei propri gesti era allentata, i freni inibitori sciolti. Per questo motivo quando Riley schiuse le labbra, facendo scivolare gli occhi verdi per un solo momento sulla bocca del ragazzo, lui non fu in grado di bloccare il fremito che lo percosse.

Baciò Riley. Lo fece con intenzione, con foga, come se lei fosse l’unica cosa in grado di permettergli di dimenticarsi di Louis. La ragazza ricambiò senza esitazione quel bacio, che si fece via via anticamera di qualcosa di ben più passionale. Jack la strinse a sé; lei fece aderire con perfezione il corpo a quello del ragazzo. I primi vestiti cominciarono a sfilarsi, i respiri, sempre più ansanti e sovrapposti, divennero leggeri gemiti, strozzati fra le loro labbra. Il disordinato chignon di Riley si sciolse e Jack ebbe modo di sentire i capelli, lisci e morbidi come seta, colpire delicati la sua mano mentre questa scorreva lungo la schiena nuda della ragazza.

Per lui era tutto strano, diverso. Aveva la mente completamente annebbiata e non gli riuscì – né gli andava – di fermarsi. Per la prima volta in quella sera Jack non stava pensando assolutamente a niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciao a tutti!

Innanzitutto vi ringrazio per aver letto il primo capitolo di questa mia nuova long. È la prima volta che scrivo una cosa del genere e spero che vi piaccia fino alla fine.

Ora, ci tengo a fare una precisazione. Questa storia è fortemente ispirata a una serie TV chiamata Political Animals, mai uscita in Italia.

Volevo semplicemente farvi sapere che – ahimè – questo lavoro non è totalmente farina del mio sacco, anche se ho cambiato cose a sufficienza perché non sia neanche una fanfiction dedicata a quella serie TV.

È una sorta di compromesso, diciamo così.

Spero davvero che proseguiate nella lettura e, soprattutto, spero che questo lavoro sia di vostro gradimento.

Grazie!

MadAka

 

 

  
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