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Autore: KatWhite    30/03/2016    0 recensioni
E sola stava benissimo. Ed era sempre stata tutto completamente l’opposto di una persona solitaria, anzi prima era una ragazza che temeva maledettamente la solitudine. Ed ora, la bramava più di ogni altra cosa, più di ogni altro vizio o capriccio: odiava chiunque indiscriminatamente.
Ma -ancora dannazione- non riusciva a fermare i ricordi che la tormentavano impietosamente come delle frustate dritte al cuore.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Dedicata a tutti coloro che hanno sofferto e stanno soffrendo come me,

perchè quando una persona a cui teniamo se ne va lascia un vuoto che mai più potrà essere colmato;

perchè l’assenza di un nostro caro è la presenza più prepotente, violenta e dolorosa che mai possa esistere;

perchè la desolazione, la solitudine e la sofferenza che ci accompagneranno per sempre saranno dei marchi indelebili scritti a caratteri cubitali sul nostro cuore, che si andrà via via sempre più inesorabilmente sbriciolando.

 

Mi manchi, nonno.

 

Mi sveglio con un tenue raggio di sole che passa attraverso le lunghe e vecchie tapparelle color quercia e che mi colpisce direttamente in fronte. Sbatto le palpebre qualche volta e i miei sensi si attivano immediatamente dopo, quando le narici vengono colpite prepotentemente dal familiare odore di fresco che inebria la casa. Non è semplicemente profumo di primavera, è qualcosa di particolare e speciale, quasi impossibile da descrivere: è una fragranza che automaticamente associo alla parola “amore”, “affetto”, “nonno”. La parola più comune che mi viene da pensare è “calore”.
Mi alzo, e mi dirigo verso il corridoio col pavimento vecchio stile, ma perfettamente tirato a lucido: nonostante avesse passato l’ottantina già da tempo, la sua maniacale ossessione per la pulizia l’accompagnava sempre, così come il lucidare continuamente le piastrelle. Lo osservo e non riesco a trattenere un sorriso dolce. Giro a destra ed arrivo nella camera matrimoniale, quella del nonno. Non era la più grande delle stanze, ma certamente era la più luminosa. Il profumo si fa più intenso e fruttato, sento che ha impregnato la camicia da notte color panna che mi lascia scoperte le gambe. Mi fermo sull’uscio, e vedo mio nonno dall’altra parte della stanza, intento ad aprire le porte-finestre del balcone. La luce gialla ed accecante del sole lo avvolge, la sua figura mi appare quasi eterea e lucida.
«Ciao nonnino!» lo saluto con voce allegra, dolce, piena d’amore e di ammirazione anche se un po’ impastata dal sonno.

 

Erika spalanca gli occhi e la prima cosa che vede sono gli enormi numeri verdi stampati sulla sveglia digitale: 3:57 AM. Si passa le mani sugli occhi, sulle guance e sugli zigomi, asciugandosi e girandosi dall’altra parte del letto. Si avvolge sotto le coperte come una bambina, come se potessero proteggerla da tutto il male del mondo. Il piccolo Pimpi, gatto di appena 8 mesi, si sposta con lei e si stringe nell’incavo del suo stomaco.
Avrebbe dovuto farci l’abitudine dato che oramai era da quasi un anno che ogni notte era tale e quale a quella, ma -dannazione-, ogni giorno soffriva come se fosse stato il primo del suo calvario. Ogni notte, prima di assopirsi, l’immagine ricorrente del proprio parente incosciente, il cui cuore si spegneva tra le sue braccia, tra le sue grida e le sue suppliche di non abbandonarla, tra il ticchettio dell’elettrocardiogramma che piano piano iniziava a strillare sempre più forte e le curve che si appiattivano sempre più fino a diventare linee rette, si ripeteva precisa come una filastrocca.
Lo spirito di suo nonno si era dissolto improvvisamente come della nebbia durante la primavera, e non le aveva lasciato nulla a cui aggrapparsi; aveva pensato che almeno una goccia di tutta la gioia, la vitalità, il coraggio di affrontare la vita, glielo avrebbe lasciato.
Ma Erika non sentiva assolutamente niente che non fosse dolore, depressione, solitudine. Aveva persino pensato al suicidio i primi mesi, ma poi si era convinta che altrimenti suo nonno non l’avrebbe mai perdonata. Quindi aveva iniziato ad isolarsi sempre di più, a respingere e ad allontanare chiunque tentasse di salvarla dalla sua oscurità perchè sapeva che non esisteva nessuno in grado di farlo. Le sue amiche le avevano proposto l’idea di continuare a vedersi e comportarsi come se nulla fosse accaduto, poichè “se non combatti e non reagisci non ne esci più” ma Erika non ci riusciva perchè il solo pensiero di stare in mezzo alle persone, a delle persone così schifosamente egoiste, la disgustava. Non doveva farlo per le altre persone, fingere di stare bene per compiacere gli altri non era la soluzione. Preferiva la solitudine a ciò, preferiva concentrarsi su se stessa per imparare a coesistere con il proprio dolore piuttosto che fingere di essere anche lontanamente serena.
E sola stava benissimo. Ed era sempre stata tutto completamente l’opposto di una persona solitaria, anzi prima era una ragazza che temeva maledettamente la solitudine. Ed ora, la bramava più di ogni altra cosa, più di ogni altro vizio o capriccio: odiava chiunque indiscriminatamente.
Ma -ancora dannazione- non riusciva a fermare i ricordi che la tormentavano impietosamente come delle frustate dritte al cuore.
Piange ancora silenziosa mentre accarezza il manto del piccolo micio, che si stiracchia e allunga le zampine in direzione della mano.
Quello stupido gatto, in parte, l’aveva salvata e l’aveva tenuta ancorata al raziocinio in momenti di estrema sofferenza.
Le palpebre avevano preso a bruciarle e prega poichè possa addormentarsi almeno fino alle 6, dato che poi si sarebbe dovuta alzare e prendere il treno per andare in università.
“Non importa cosa o come, io verrò a vederti il giorno della tua laurea, te lo prometto” le aveva ripetuto mille volte suo nonno, nonostante sapesse di essere già malato.
E nuovamente, ricomincia il circolo vizioso, i macchinari impazziti, gli strilli, i pianti, le urla, i cuori e le anime che si laceravano, le vite che si spezzavano e altre che si spegnevano.


Kat says-
Ero a casa e particolarmente ispirata e ho scritto questa cosa che mi tenevo dentro da tanto. Sapevo ed ero cosciente del mio cambiamento, e sentivo la necessità di metterlo per iscritto, di avere la tacita approvazione di qualcuno che capisse il mio tormento ormai diventato eterno.
Mi rendo conto di aver perso tanto nello scritto, mi sento ben lontana dallo stile di qualche lavoro scritto tanto tempo fa, e sto cercando di migliorare. 
Il titolo, "deaths" fa riferimento al fatto che ci sono sempre più morti in situazioni del genere: una morte fisica ed un'altra conseguente, che è quella delle persone che amavano, persone che muoiono assieme al morto.
Non so cos'altro dire, non ho troppa voglia di scrivere alcuna nota esplicativa se non si era capito... sì, oggi allegria mode on.
Non mi resta altro da fare se non aggiornarci alla prossima storia -sempre che i libri di economia non mi divorino-!
Kiss,
Kat

  
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