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Autore: sofismi    02/04/2016    2 recensioni
L'anima soffre, forse troppo e forse troppo spesso.
Genere: Drammatico, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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1 Aprile 2016, Svezia.                         

Mi sono accorta che:
alcuni posti riescono a tenere i pezzi
della mia anima insieme; la fregatura
è quando riescono a farlo anche le
persone, perché poi le persone se ne
vanno, lasciandomi cadere dalle loro mani.

La mia anima soffre, forse troppo e troppo spesso. A volte mi chiedo dove sia: se nel cuore, nel cervello, o se sia collegata con il plesso solare, o addirittura se sia nelle mani. Magari è in tutto il corpo. Per questo sentiamo le gambe pesanti e il petto vuoto quando la malinconia si fa strada nella nostra mente: perché l’anima si frantuma e cade verso il basso, a causa della forza di gravità. Non so di preciso perché io sia in questo stato di malessere, Kierkegaard disse: “Se si chiede ad un malinconico quale ragione egli abbia per essere così, cosa gli pesa, lui risponderà che non lo sa, che non può spiegarlo. In questo consiste il grande orizzonte della malinconia.” Io penso che non ci siano parole più azzeccate di queste, perché è esattamente come mi sento ogni giorno. Oppure sarebbe meglio dire: mi sentivo così ogni giorno. Adesso non soffrirò più. Finalmente ho trovato un posto dove vorrei stare per sempre, appena l’ho visto ho provato a raggiungerlo. Sono riuscita a toccarlo, adesso sto risalendo a galla ma non so se arriverò mai in tempo in superficie per respirare di nuovo. Forse non riuscirò a sentire più l’aria fredda della Svezia graffiarmi il viso, forse non sentirò mai più il sole sulla pelle. Ma forse al momento non mi interessava. Ormai avevo superato il confine, e non c’era più posto per me.
Si dice che quando si muore si riviva la propria vita in sette minuti, io però non vedo ancora niente. E se non stessi morendo? Improvvisamente ho paura. Non sono pronta a ritornare tra le persone, sicuramente non dopo i giorni che ho appena passato. Lui aveva detto “se lei sorride, sorrido anche io”, ma mentre io sorridevo lui è andava via. Un dubbio mi ha consumato la mente per svariati giorni; e se quella frase non fosse riferita a me? Uno dei mali peggiori penso sia l’amore non corrisposto: lui per me era indispensabile, ma io non ero indispensabile per lui. Almeno, questo è ciò che penso, ma se non fosse così? Inizio ad andare in panico, sbraccio, cerco di nuotare più velocemente possibile. Ho bisogno di dirgli che lo amo, ho bisogno di lui e basta. Sono una sciocca, una stupida. Che cosa mi era venuto in mente di fare? Continuo a sbracciare, ignorando il dolore che mi provoca l’anima, ascolto soltanto i sensi di colpa, i rimpianti, e il rimorso, mi sento risucchiata dal vortice di emozioni che turbina in mezzo al mio petto. Tra tutte quelle emozioni c’è il mio centro, la mia passione: può sembrare la cosa più banale del mondo ma è l’amore. Io sono una Romantica, vivo per la libertà delle emozioni, e dei sentimenti. Questo è ciò che sono, e capisco solo adesso, mentre rischio la vita, che avrei dovuto esserne orgogliosa.
L’acqua gelata mi riempie la bocca e le narici, probabilmente anche i polmoni. Mi sembra che la superficie sia ancora a diversi metri, e di colpo mi fermo, mi arrendo. Non ho più forze, sono stremata. E sono pentita: non avrei dovuto farlo. Provo ad alzare un braccio per ricominciare a nuotare. A fatica lo tiro su, ma mi fermo di nuovo. E all’improvviso sento qualcosa di strano sulla punta delle dita di quella mano che sono riuscita ad alzare. Poi lo sento di nuovo. E’ un tocco leggero, e veloce, forse disperato. Infine quel tocco diventa qualcosa di più materiale. Qualcuno ha preso il mio polso, mi sta portando in superficie.
Non riesco a provare gioia nel respirare di nuovo. Un po’ perché i polmoni mi bruciano, e perché inizio a tossire, un po’ perché perdo conoscenza quasi subito. A volte apro gli occhi, e sento che intorno a me la vita continua, vedo delle persone: forse mi stanno parlando. Ma io non sento niente.
Il ragazzo che mi ha salvata si chiama Evelt, me lo hanno detto le infermiere appena mi sono svegliata. La gola fa male, e la mente è piena di pensieri. Ho paura che sia lo stesso Evelt per la quale darei la vita. E’ probabile che mi stia solo illudendo, anzi: sicuramente mi sto solo facendo del male. Intanto, però, aspetto di vederlo entrare nella mia stanza, adesso mi hanno spostata nel reparto di psichiatria, spero lo sappia.
Durante i primi tre giorni di ricovero mi sottopongono ad un sacco di esami, e visite. Io sono assente, non parlo con lo psichiatra, e quindi mi aumenta la dose delle medicine: odio prenderle, ma mi obbligano. E' straziante stare qui.
Sto vivendo la settimana più monotona della mia vita, ogni giorno sempre la stessa storia. In più con tutti gli antidepressivi e antipsicotici mi sento molto confusa. Non so se sono ancora in grado di provare emozioni. Ma la risposta arriva in fretta, verso le 11.30 del secondo martedì in ospedale: finalmente ciò che sogno da giorni diventa realtà. Evelt, il mio Evelt, entra nella mia stanza. Mi alzo e mentre mi avvicino apre le braccia. Sembra la scena di un film, anche perché nonostante non parliamo da mesi, mi abbraccia fortissimo. Sento il suo cuore battere veloce contro il mio. Sono finalmente contenta. Ma è una sensazione che dura poco.
Mi allontana e mi guarda negli occhi.
-“Che cosa succede, Agnes. Che cos’è successo?”- sembra sinceramente preoccupato. E io con la mia espressione perennemente neutra rispondo:
-“La mia anima soffre. Non ho altro modo per spiegarlo. La mia anima soffre e non posso fare a meno di avere paura di essere sola: perché piuttosto che vivere nella solitudine preferirei non vivere affatto.”   
  
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