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Autore: Kanginak    04/04/2016    0 recensioni
Ho solo un capitolo e mezzo, ma dai commenti spero di capire se questa saga varrà la pena di essere continuata.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ho mai saputo controllare il tempo, tutto quello che so è come passa in fretta, come a volte sembra non passare mai, in verità, mi è sempre parso fosse il tempo a controllare me, le mie giornate, il mio umore.
Da piccoli non ci si fà neppure caso.
"Beata ingenuità" direbbe mio padre, ma poi si cresce, e tutto sembra impazzire.
Studi, lavori, ti dai delle direttive, ti riempi di impegni e quando succede sembra non finisca mai.
Tutto si blocca quando fissi un orologio, ti chiedi come quella minuscola lancetta possa girare così in fretta quando sei libero da ogni pensiero.
Per esempio quando dormi, eppure a volte anche nel sonno il tempo sembra non passare mai.
Forse mi stò svegliando, ma preferisco aspettare fino a che la sveglia del telefono non mi dà l'ok per alzarmi.
Passa qualche secondo, o forse qualche minuto, ma arrivano indubbiamente le 6 ed eccolo che suona e si dimena, infernale e crudele come ogni mattina mi riporta alla vita di tutti i giorni.
Allungo una mano per zittire quell'odioso macinino dallo schermo incrinato e mi alzo ondeggiando con fare scoordinato.
Apro a stento gli occhi e noto che la stanza è ancora molto buia, solo un minuscolo spiraglio lampeggia dalla fenditura delle pesanti tende scure che adornano "nobilmente" la mia finestra.
Mi alzo barcollando con le mani fra i capelli scompigliati e mi avvicino per cambiare aria.
Sposto le tende d'un colpo e un'ondata di luce mi acceca.
"Sembra un bellissima giornata" Penso entusiasta tra me e me, ma forse sono solo assuefatta dalle tenebre che prima regnavano nella stanza.
Dopo pochi secondi infatti, mi abituo al chiarore e la fantomatica giornata di sole perde colore davanti ai miei occhi mentre spalanco la finestra.
I soliti palazzi di Chicago mi fissano con le loro imponenti vetrate e così il mio riflesso in lontananza.
Dà basso ci sono ancora poche persone sui marciapiedi, ma le auto già colorano la città col loro accattivante grigio e bianco e la consueta pesantezza di fumi e gas.
Mi volto sbadigliando permettando così ad un lieve racimolo di smog di entrare nel mio organismo.
Mi stiracchio sulle punte dei piedi quasi fino a provocarmi un crampo ai polpacci.
Ora la mia camera è ben visibile, ma forse sono troppo ambiziosa, in fondo è l'intera mia casa ad essere visibile.
Abito in un monolocale disposto strategicamente in cucina, bagno e un salotto adibito a camera da letto.
Il mio posto felice è tutto qui; ogni parete così come il soffitto sono di un insensibile bianco, l'unica nota di colore è la moquette verde scuro che parte dalla porta d'entrata fino ad arrivare in fondo al corridoio dove si apre al salottino.
A destra del corridoio ci sono la porta d'entrata alla cucina e oltre, la porta del bagno al quale mi stò dirigendo con grazia imbarazzante.
Ciò che di più sterile non possa esistere, un'asettica stanzetta bianca illuminata da una fastidiosa luce al neon proveniente dal soffitto crepato.
Facendo scricchiolare la porta mi accingo a lavarmi di fronte lo specchio del lavandino.
Mi fisso infastidita dalla luce ospedaliera e rifletto: "Una volta sistemata per bene non penso di essere così male come venticinquenne; snella e castana, occhi azzurri, forse un po' pallida, ma chi non vorrebbe una stagista così?" concludo ironicamente.
Raccolgo i capelli non troppo lunghi in un elastico nero, sbrigo le ultime formalità igeniche e mi preparo per vestirmi; Giacca grigia sopra una camicetta bianca e pantaloni neri.
"Ottimo accostamento Sarah." mi rimprovero.
"Ma i paparazzi oggi sono in ferie, perciò penso che come completo basti per l'emozionante giornata che mi aspetta al lavoro." Scherzo nella mia mente.
Controllo che nella mia borsa posta su una sedia di legno vicino al mio letto ci sia quel che basta per sopravvivere fino a tardo pomeriggio; una merenda, medicine per l'ansia, chiavi, telefono rotto, soldi, tutto a posto.
6.30 Esco di casa, chiudo a chiave e voltandomi nel corridoio dello stabilimento, inciampo contro il ricamatissimo tappeto mal posizionato a terra, lo sistemo e percorro il lungo e inquietante corridoio del palazzo per raggiungere l'ascensore che mi accompagnerà per il viaggio di 6 piani che mi attende.
Spalancate le porte noto il tozzo figuro che legge il giornale all'entrata e il lieve fetore di salsicce abbrustolite.
Il solo pensarci mi potrebbe già causare la nausea, ma oltre a questo, ho a che fare fisicamente con la stessa situazione pressochè ogni giorno.
Sfreccio dunque velocemente verso l'uscita impedendo al soggetto di accorgersi di me lasciandolo agli imbarazzanti risultati sportivi della sua squadra di football.
"I Bears hanno di nuovo perso dannazione..." commenta gorgheggiando l'untissimo signore.
Accelero il passo, ma ecco che il portiere mi ricorda quanto sia giusta la vita esclamando:
"Buongiorno miss Travel!"
Tento di proseguire facendo finta di niente, ma il brusco suono di carta stracciata mi fà sobbalzare e non appena odo il profondo gargarismo simile alla parola SARAH TRAVEL provenente dal fetido figuro alla mia destra, mi blocco impietrita.
Strizzo gli occhi sul posto sperando sia un brutto sogno mentre rispondo a denti stretti:
"Buongiorno Robert." al portiere.
Mi volto lentamente e continuo:
"Signor Petrov, l'avevo cerca..."
"Non ho visto affitto." Mi interrompe lui ruggendo come un orso dall'accento russo.
Resto diritta come una spina, forse inghiottendo un litro di saliva e mi scagiono.
"L'affitto, era proprio di questo che le volevo parlare, ho bisogno di ancora un po' di tempo." Affermo tremolante a mani giunte.
Lui scoppia a ridere sorpreso quasi soffocandosi con lo stuzzicadenti che ha in bocca e afferma:
"Tempo?!" E scoppia in un'altra risata gorgheggiante, alchè continua:
"Victor Petrov non ha tempo, io ho scommessa da pagare qui." Colpisce la pagina del giornale col dorso della mano.
"Se vuoi tempo compra clessidra." Conclude scomparendo infine dietro il suo adorato giornale con fare infastidito.
"Chiderò se posso avere un anticipo al lavoro." Tento di salvarmi io.
"Questo bene, brava ragazza."
Risponde seria la voce oltre la pagina stropicciata e le grosse dita che la reggevano.
Il portiere rimane in silenzio non curante della figuraccia causata, accingo ad allontanarmi quando Victor, senza distogliere lo sguardo dal testo cartaceo, mi congeda dicendomi:
"Oh e Sarah."
Attende che io mi ferma la seconda volta prima di continuare, ma stà volta senza voltarmi.
Dopodichè, dandogli le spalle fà:
"Non deludermi, denaro và e viene, ma tempo è cosa preziosa."
Dopo un momento di silenzio fissando a terra oltre la mia spalla destra riprendo a marciare oltre il portone d'ottone arrugginito e finalmente esco.
Per quanto pesante e insapore, l'aria di città sembra fresca brezza di campagna se confrontata all'olezzo lì dentro.
Respiro forte col naso e mi riprendo dalla tensione che quasi mi ha fatta sudare.
Mi avvicino alla fermata del bus, mi siedo su una panchina e frugo nella borsa rendendomi conto di aver dimenticato le auricolari per ascoltare un po' di musica durante le attese.
Accetto l'ennesima burla del destino bruciando anche questa nella fornace del mio rancore perenne e nell'attesa rifletto sul mio programma quotidiano: 6.50 arrivo previsto dell'autobus, traguardo stimato per le 7.15, colazione da Backer e poi subito al lavoro, infine alle 7.30 pronta per una carrettata di fotocopie nell'arco delle seguenti 9 ore.
Tempo libero previsto dopo il lavoro: 3 ore senza contare eventuali ingorghi e imprevisti.
"Buon risultato." Penso.
Controllo il mio orologio, 6.49, ma eccolo che arriva con qualche secondo d'anticipo, la mia consolazione mattutina.
Salgo a stento a bordo facendomi largo fra i numerosi pendolari inferociti già di prima mattina e mi sistemo in modo da non recare fastidio ad alcuno, nè in salita che in discesa.
Attendo immobile tentando di far passare più in fretta questi momenti di stallo.
Mi iberno per qualche minuto lasciando il pilota automatico, un metodo che uso spesso da che ho memoria.
Odo le critiche delle signore dietro di me, parlano di soap opera e dei loro mariti annoiati con la gotta.
Nel frattempo l'autobus si ferma, ma l'unico passeggero sembra essere incastrato fra le chiappe di un culturista mancato e un trio di anziane signore non molto amichevoli con il giovane mingherlino, tant'è ch'egli perde l'occasione di scendere, poco male, poteva andargli peggio, le signore indispettite per il suo continuo spingere l'avrebbero potuto far sprofondare nei calzoncini dell'omone alle sue spalle.
Dentro di me sorrido.
Attendo qualche altro minuto nel mio stato di veglia paralizzante fino a che non sono giunta a destinazione.
Discendo finalmente da quell'incubo su ruote e mi dirigo da Backer per la colazione.
La giornata sembra essersi illuminata, il cielo si colora di minuto in minuto e il sole bacia ogni cosa capiti nel mio sguardo.
Impercettibiomente sollevata, attraverso la strada in tutta fretta e spalanco la porta sonagliosa che richiama l'attenzione dell'uomo dietro il bancone.
"Sarah! Buenos dìas!" Grida lui a braccia aperte con quel suo sorriso rassicurante.
Qui dentro fà sempre così caldo, mi levo la giacca e la tengo sull'avambraccio e mi dò una fugace occhiata attorno mentre avanzo.
All'interno del locale ci sono poche persone, ma per lo meno si respira un clima ospitale e positivo, specialmente quando sento la voce di Joseph, giovane messicano sempre allegro e curiosamente mio grande amico.
Il perchè lui abbia ancora un dialogo con una ragazza con la personalità del mio stesso appartamento asettico non ne ho idea.
"Hola Joseph." Lo saluto io con un lieve ma ufficiale sorriso, il primo della giornata.
"Brioche vuota?" Mi chiede conoscendo il menu che sono solita ordinare.
"Si con cappuccino, grazie Joe."
"Arriva!" Esclama entusiasta correndo alla macchina del caffè per mettersi al lavoro.
Io me ne resto lì, zitta zitta come ho sempre fatto in ogni luogo.
Nell'attesa batto le unghie mangiucchiate sul bancone come suonassi una scala di pianoforte con la mano e mi dò un'occhiata in giro pur conoscendo a menadito ogni angolo del locale, almeno da questa prospettiva.
Non ricordo di essermi mai seduta a un tavolo, sono sempre di fretta la mattina, osservo i clienti fare colazione e come è sempre stato giudico quel che mi incuriosisce: Un uomo d'affari intento a leggere lo stesso giornale di Victor (almeno questo non è stropicciato), probabilmente dall'aspetto autoritario potrebbe benissimo lavorare nel mio stesso palazzo ad appena un isolato dal bar
Una coppia innamorata beve con delle cannuccie dalla stessa tazza di latte al cioccolato; lui è elegante e armato di ventiquattrore.
Sembra perso d'amore, ma dal modo in cui lei lo guarda seria con la testa piegata di lato, direi che la nottata non è andata troppo bene.
O qualcuno deve far visita da un andrologo, oppure la bionda ha dimenticato di prendere la pillola stà mattina.
Forse ci sono ancora un paio di personaggi lì attorno, ma non troppo degni di nota e la mia testa non perde un attimo per osservare:
"Sei davvero una bella persona Sarah, giudicare senza sapere un bel niente di nessuno."
è un mio difetto (uno dei tanti).
"A quanto pare l'umanità scorre potente in me." Mi rispondo sfiduciata.
Dopo un minuto ecco avvicinarsi Joseph col mio bel sacchetto pronto per essere portato via.
"Ecco Sarah." Mi informa cedendomi con cautela la colazione impacchettata e dopo averlo ringraziato aggiunge:
"Esta sera porto mi hermana al cinema, se te fà piacere..."
Dentro di me sono felicissima qualcuno abbia sprecato anche un solo pensiero per portarmi fuori in amicizia, ma all'esterno la risposta è:
"Oh bhè, devo dare un'occhiata agli orari, sai..."
Pare lo specchio più alto che ho mai scalato eppure continuo imperterrita:
"... il lavoro... ma ci sentiamo se ho tempo, ok?"
Mento spudoratamente cosciente di avere la serata libera e che non avrei chiamato nessuno.
"Sarah, Sarah, siempre a lavoro eh?"
Dice lui dandomi le spalle per riempire un bicchiere di cartone con un sacco di latte.
"Già." Concludo sbrigativa io la conversazione più infelice del mondo!
Indugio ad andarmene, non sapendo neppure se Joseph mi abbia sentita rispondere a causa del sibilio prodotto dalla macchina del caffè che stà usando.
"IDIOTA!" Grido nel mio animo "IDIOTA!"
Un minimo di spasso era proprio quello che ci voleva in questa vita e invece continuo inconsciamente ad allontanare chiunque.
"Poco male." Mento a me stessa. "Stà sera tornerò a casa per guardare un po' di TV."
"Buona giornata Sarah." Mi saluta Joe provocando in me quel senso di costernazione che ormai conosco fin troppo bene.
Mi allontano dimenticando di rispondere al saluto e solo quando sono sulla soglia della porta faccio forse a voce troppo bassa:
"Ciao Joseph."
Esco all'aperto tintinnando nuovamente il metallico oggetto posto proprio sopra la porta e tento di non pensare alle mie figuracce fallendo però ogni volta, probabilmente infatti ci penserò per le prossime 3 ore.
Mi dirigo al lavoro affamata e soddisfatta per lo meno di avere qualcosa da mettere nello stomaco.
Mi fermo proprio sul marciapiede a destra del bar, in attesa che il semaforo mi lasci attraversare la strada.
Io ne approfitto per agguantare la mia brioche con tutta calma quando vengo allarmata da un suono sordo seguito dal silenzio più totale.
Lentamente un quieto brusio di persone si fà sempre più presente.
Altri suoni di schianti e rimbombi provengono dall'alto.
Mi volto in fretta mentre un lungo lamento metallico mi sembra sempre più preoccupante.
Con gli occhi nel sole ci metto un po' per mettere a fuoco, alzo il braccio in cui tengo il sacchetto della colazione per vedere chiaramente.
Delle pietre provenienti dalla cima del palazzo sotto cui stava il bar di Joe quasi mi colpiscono.
Faccio subito qualche passo indietro finendo sull'asfalto.
Anche altre persone come me fanno lo stesso giungendo senza però riuscire ad identificare assolutamente nessuna minaccia.
"Via tutti!" Grida un operaio con gilet catalifrangente e caschetto annesso spuntando da dietro l'angolo.
"Via tutti!" Continua a strillare in preda al panico.
Fugge verso di me e sbraita:
"Dovete andarvene!"
E superandomi rivela:
"La gru! Abbiamo perso i sostegni! Scappate"
Infine si dilegua fuggendo senza neanche voltarsi indietro.
"Stà per cadere!" fà una fievole voce da dietro lo stesso angolo, alchè un orribile botto scuote ogni testimone lì presente, me senza dubbio.
Le persone si accingono ad allontanarsi impallidite, i clacson delle auto sembrano impazziti e una di esse quasi mi travolge.
Avanzo di qualche passo per non intralciare i guidatori ancora frastornata dalle parole degli operai ed ecco verificarsi il primo incidente.
Inciampo cadendo a terra e proprio lì di fianco a me un'auto sbattuta non troppo violentemente contro la vetrata del bar da Backer, ora mi blocca la strada.
Ovviamente non penso di certo a dove possano essere finiti borsa e sacchetto, ma per un'egoista come me, sembra strano che in quel momento il mio pensiero và a Joseph e a come se la sarebbe cavata.
Il verso metallico si ripropone con più violenza, io sono impietrita, gli occhi adesso fissi sulla cima del palazzo gonfi di terrore.
"Non può essere vero." penso mentendo per l'ennisima volta a me stessa.
E alla fine, ecco che un boato frantuma la maggior parte delle finestre ai piano alti, il marciapiede trema sotto le mie mani e con un rombo sempre più frequente ecco lenta e inesorabile come una lama, un'enorme forma metallica si apre un varco tra le pareti dell'attico gettando macerie dovunque.
Tento di alzarmi, alcuni granuli di cemento mi hanno graffiato braccia e viso.
Il caos ormai è palpabile, molti figuri dapprima diligenti ora mi spingono fino quasi a calpestarmi.
Mi rimetto in piedi e tento di fuggire come posso; la strada è bloccata da una fila di macchine molte delle quali abbandonate e il marciapiede và riempiendosi di detriti e macerie.
Mi metto in marcia per scavalcare un vecchio catorcio e mettermi in salvo quando un tipo in ghingheri con brillantina mi getta a terra per attraversare prima di me.
Proprio in quel momento però una massiccia fetta di pietra bianca pesante quintali atterra sull'uomo frantumando l'abitacolo dell'auto.
Solo un suo mocassino nero resta dell'elegante signore ed esso rimbalza vicino al mio piede.
Senza esitare mi rimetto in piedi e torno sui miei passi.
Mi faccio largo fra la folla nella stessa direzione piena di paura e aggrappata al briciolo di speranza che mi fà sperare per il meglio.
Purtroppo, l'immenso pilone della gru atterra oltre la strada bloccando il passaggio lasciando i poveri sopravvissuti alla volontà di chissà quale dio.
Nell'esasperazione mi volto per giudicare cosa possa accadere ancora, vedo macerie e polvere ovunque, molte persone a terra, alcuni prive di coscienza, altre urlanti fra lamiere e frammenti di grattacielo.
Respiro affannata, gli occhi mi si riempiono di angoscia, alzo lo sguardo e vedo il corpo della gru sprofondare sempre più in basso, la parete del palazzo si stà ripiegando su se stessa e appena poco più giù, la vetrata del bar da Backer, la porta bloccata da un'auto e appena più in là Joseph, intento a sfondare qualsiasi parete con una sedia pur di uscirne, probabilmente non c'è più nessuna uscita sul retro.
Esasperato lascia cadere il suo strumento e mi fissa.
Guarda proprio verso di me, nei miei occhi rossi e nel mio animo affranto, accenna un sorriso per poi serrare gli occhi più forte che può e alla fine, dopo quell'attimo di totale silenzio, il coltello affonda lacerando in due l'alta costruzione la cui parte più fragile stà ora collassando su noi pochi supersiti.
"Non voglio finisca così, darei qualcunque cosa per poter riprovare, per rimediare a ogni torto." Forse questo è ciò che pensa chiunque quando l'ora è arrivata, tutti vorremmo tentare di nuovo, un'altra possibilità, o almeno, un po' più di tempo, lo stesso tempo che non è mai stato clemente con me, con molti di noi.
Solo in quel momento penso ai miei genitori; loro non avrebbero mai voluto venissi a vivere in città.
Hanno sempre desiderato per me una vita come la loro, in campagna, fuori da ogni pericolo.
Respiro sempre più in fretta, sento il cuore scoppiarmi fuori dal petto, le pupille fisse su quella terrificante parete errante, ma non lo accetto.
La vita non mi è ancora passata davantiagli occhi, perciò mi volto di scatto e mi metto a correre più che posso per aggiungendomi alla massa di persone che tenta di scavalcare la cima della gru ormai atterrata.
Volo sulla strada scansando chi mi trovo davanti, sento il rombo delle mura e il suono di vetri infranti a pochi metri da me.
Vedo a terra l'ombra della parete superarmi e oscurare il sole sulla mia strada.
Corro a più non posso, l'aria è sempre più gonfia di detriti e polvere, chiudo gli occhi spremendo le mie ultime lacrime a denti stretti e ringhio, ringhio sempre più forte per cercare di salvarmi, ma l'ombra ormai mi ha raggiunto.
Avverto una forza inarrestabile contro la nuca che mi spinge a terra, la pressione più forte mai sentita in vita mia, il mio costato non mi permette di respirare.
Nelle tenebre più totali inizia un dolore lancinante che non identifico, è il petto? La testa? Forse le gambe?
è una questioni di pochissimi secondi, ma nel delirio mi metto ad urlare.
Serro le palpebre e urlo così forte come se mi potesse distinguere chiunque nell'intero universo.
Sento tutti i miei muscoli irrigidirsi, ormai ci siamo, incredibilmente l'unica cosa a cui non penso è proprio alla morte, l'inevitabile che stà accadendo.
La pressione nel giro di due secondi si è fatta insopportabile, sento la vita lasciarmi e spalanco gli occhi per l'ultima volta.
Tutto ciò che vedo è luce, un'incandescente luce blu che divampa e mi brucia dentro, brucio ovunque, i miei muscoli, le mie ossa, un dolore che non finisce.
Non riesco a pensare a nulla se non urlare, urlo, con tutta la vita che mi è rimasta in corpo, tutto attorno a me brucia nella luce, la mi a testa sembra esplodere e mi sento risucchiata come in un tornado.
è precisamente in quel momento che il buio e il silenzio sono arrivati destandomi come da un sonno profondo.
Respiro ancora con ansia e il cuore mi batte in gola.
"Sono morta?" Mi chiedo.
"Riesco a muovermi, dove sono ora?"
Riconosco l'odore e il sapore dell'aria che respiro, la consistenza del materiale che mi avvolge e su cui sono poggiata.
Mi guardo attorno distinguendo delle forme nell'ombra.
"Sono a casa mia?" Mi domando ora.
  
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