Teatro e Musical > Romeo e Giuletta - Ama e cambia il mondo
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Autore: Ino_Nara    04/04/2016    1 recensioni
Tutti sappiamo fin troppo bene come si svolge la storia di Romeo e Giulietta e quella degli altri personaggi, ma sappiamo veramente cosa provano?
Cosa ha spinto Tebaldo ad essere quello che è? Cosa lo ha spinto a dirigersi in quella piazza, quel pomeriggio, con l'intenzione di uccidere? Perchè poi si è abbandonato alla morte, a braccia aperte?
Dal testo: < "Zio, quello é un Montecchi!"
E cercando tra la folla, indicò poi quella giacca azzurra che aveva visto stringere Giulietta.
"Si, é il giovane Romeo."
Le certezze di Tebaldo crollarono: lo zio sapeva tutto e non aveva ancora agito? Cosa lo frenava? E poi perché tra tutti i Montecchi, il più stupido era sempre Romeo? Avrebbe dovuto riconoscerlo fin da subito e irrompere in quell'assurda scena, non correre dallo zio. >
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era ormai tarda sera, e la festa del Conte Capuleti volgeva ormai al termine. La grande villa, illuminata a giorno, era straripante di ogni genere di persone: chi, ubriaco, corteggiava più di una ragazza, chi, instancabile, non aveva ancora abbandonato la pista da ballo, o chi, come Tebaldo, che non aveva fatto altro che aspettare quella festa per settimane, se ne stava in disparte.
Il giovane rampollo dei Capuleti, stretto nella sua pelliccia rossa, stava seduto sulle scale che portavano agli alloggi, rigirandosi tra le mani il teschio che portava come maschera. Si torceva le mani e guardava gli invitati dello zio, uno più strano dell'altro nei loro abiti da festa colorati, troppo colorati per i suoi occhi che potevano tollerare solo colori compresi tra il bianco e il rosso, che non facevano altro che ridere e bere, bere e ridere.
Quella festa doveva essere la sua occasione per stare un po' di più con Giulietta, senza che gli occhi di tutti fossero puntati su di loro, ma di Giulietta non aveva potuto sentire nemmeno il dolce profumo: era uscita dalla sua camera a festa già cominciata, ed era sfrecciata di sotto, tra gli invitati, mettendosi a ballare con quel Paride, quel fiero e spocchioso Paride, come le era stato ordinato dal padre.
E come se non bastasse, era poi sparita in mezzo agli invitati, abbandonando il salone, lasciando Tebaldo nel più terribile degli sconforti.
Il più fido dei suoi servi, il suo Gatto, stretto al corrimano della scalinata, gli si avvicinò.
"Signore mio, qualcosa vi preoccupa?"
Il tono di voce del Gatto, basso e roco, ridestarono Tebaldo dai suoi pensieri.
"Vai a cercare Giulietta e quando l'avrai trovata vieni a chiamarmi, vado a vedere se c'é ancora vino."
Tebaldo si alzò, scendendo lento la scalinata, attirando l'attenzione degli ospiti, mentre il Gatto, lontano da occhi indiscreti, strisciava sotto i tavoli e passava dietro le colonne, alla ricerca del vestito bianco di Giulietta, abbandonando il salone principale.
Tebaldo, in mezzo a quella marea di abiti festosi, a quella moltitudine di risate, non riusciva a non sentirsi a disagio. Cos'aveva quella gente da ridere così tanto? Il vino che il Conte aveva fatto servire doveva essere veramente ottimo.
Decise di assaggiarlo, per sapere se allora la vita sarebbe sembrata tanto felice e priva di tristezze anche a lui, ma il vino non produsse l'effetto desiderato e nemmeno il ritorno del suo fido.
"Signore…l'ho trovata…"
Tebaldo posò il bicchiere, non dopo averne tracannato il contenuto in un sol sorso, e seguì il Gatto, facendosi largo tra la folla. Perso nei suoi pensieri, di poco non inciampò, tanto il Gatto si era fermato bruscamente; lo vide a terra, davanti alla finestra che dava sul terrazzo, la testa china.
"Allora, dov'è Giulietta?"
Tebaldo si chinò sul servo, passandogli una mano tra i capelli scuri, stringendoli e forzandolo a guardarlo in faccia. Il Gatto non si soffermò un solo secondo su quegli occhi così chiari, guardò invece la finestra, per poi tornare a fissare, quasi con interessamento, il pavimento marmoreo del palazzo e sparire tra le gambe dei ballerini.
Tebaldo scostò con un dito la tenda e quello che vide lo pietrificò da capo a piedi.
Giulietta, la sua amata cugina, piccola e pura, al pari di una colomba, era tenuta tra le braccia da un uomo, un uomo che sembrava avere le fattezze di un Montecchi.
"Il peccato dalle mie labbra? Colpa dolcemente rimproverata! Rendimi dunque il mio peccato."
Giulietta si sporse in avanti e Tebaldo, interpretando il gesto della cugina, richiuse bruscamente la tenda, avanzando a falcate tra la gente, raggiungendo il parapetto al secondo piano, dal quale il Conte stava assistendo alla festa.
Mentre, scalino dopo scalino, Tebaldo si avvicinava sempre di più allo zio, il suo petto si riempiva di emozioni conosciute. Più forte di tutte la rabbia, l'odio, che prendevano il sopravvento su tutto il resto, sullo stordimento del vino, sulla voglia di piangere; per odio, certo, ma Tebaldo aveva bisogno di piangere.
"Zio!"
"Si?"
Lo zio era tranquillo, forse preoccupato per il vino, ma non sembrava aver notato che alla sua bella festa era entrato un nemico.
"Zio, quello é un Montecchi!"
E cercando tra la folla, indicò poi quella giacca azzurra che aveva visto stringere Giulietta.
"Si, é il giovane Romeo."
Le certezze di Tebaldo crollarono: lo zio sapeva tutto e non aveva ancora agito? Cosa lo frenava? E poi perché tra tutti i Montecchi, il più stupido era sempre Romeo? Avrebbe dovuto riconoscerlo fin da subito e irrompere in quell'assurda scena, non correre dallo zio.
"Lui, lui; lui, proprio lui, un nemico, un nostro nemico! Un miserabile venuto qui per dispetto, a beffarsi di noi..."
"Moderati!"
Il Conte afferrò Tebaldo per le spalle, scuotendolo con forza, come a volerlo ridestare dai suoi pensieri ingiuriosi contro Romeo.
"Nipote caro, lascialo in pace, egli si conduce come un vero gentiluomo!"
"Un gentiluomo?"
A Tebaldo veniva da ridere, da quando il figlio del loro nemico era un gentiluomo?
"Si."
La risposta del conte arrivò secca, spontanea, quasi scontata.
"Ma zio é una vergogna! Datemi un ferro, datemi qualsiasi cosa, e io giuro, sull'onore della nostra stirpe che, che se l'ammazzo non commetto peccato!"
"VATTENE!"
Il Conte lo prese nuovamente per le spalle, e lo spinse via, lontano dalla balaustra che si stendeva sul piano di sotto.
"Vattene insolente, vergogna!"
Lo spinse violentemente contro una colonna, al quale Tebaldo si aggrappò, come se quella colonna, quell'unica colonna, in quel momento, fosse stata la sua unica ancora di salvezza, come se una colonna lo avrebbe potuto salvare dalla violenza del Conte.
Sentì l'aria vibrare e chiuse gli occhi, pronto a incassare l'ennesimo colpo, per poi andarsene, senza replicare, dalla zona principale del palazzo, per rifugiarsi nella sua ala, e non fare ritorno dalla famiglia, non prima che l'ennesimo livido fosse scomparso. Ma a pochi millimetri dal suo volto, la mano dello zio si fermò, smorzando l'aria, come la voce di Lady Capuleti aveva smorzato il silenzio che si era creato in casa. Dietro le vaporose pieghe della gonna della zia, stava nascosto, quatto quatto, il Gatto, che non aveva mai veramente lasciato Tebaldo.
Il giovane, approfittando della situazione che si era creata, si allontanò dalla colonna, lasciando il piano superiore, fermandosi in mezzo alle scale, dove il Gatto lo raggiunse solo quando i padroni di casa si furono ritirati negli alloggi.
Con un tacito sguardo, Tebaldo mandò il fido in avanscoperta, per poi seguirlo lentamente.
In mezzo al salone, finalmente lontano dalla sua Giulietta, c'era il giovane Romeo: accelerò il passo, cercando di evitare il più possibile la gente, seguendo la strada aperta del Gatto, ma quando fu sufficientemente vicino, Benvolio e Mercuzio lo stavano portando via.
Se non ci fosse stato il Gatto lì con lui a trattenerlo, probabilmente gli sarebbe corso dietro, anche in inferiorità numerica, tanto era grande il suo sconforto.
"Via da me! Tutti via! Falsi amici via da qui!"
Il tono di voce del giovane Capuleti era rotto dalle lacrime, che tentava di soffocare.
E mentre il Gatto, insieme ad altri servi, guidava fuori dalla dimora tutti gli invitati, Tebaldo si abbandonava allo sconforto e continuava a ripetere, più per convincere se stesso che gli altri, che lui piangesse, come stava succedendo in quel momento, solo ed esclusivamente per odio, odio che chiaramente era stato riacceso dai Montecchi, che avevano oltraggiato il suo sangue, la sua famiglia.
Ma le sue lacrime nascondevano qualcosa di molto più grande dell'odio, qualcosa che nemmeno Tebaldo riusciva a capire. Sarebbe stato pronto a spiccare il volo, bruciato com'era dall'ira, ma qualcosa di pesante, nel petto, lo tirava giù, impedendogli di muoversi.
Rimasto solo nel salone, il Gatto si avvicinò a Tebaldo, che inginocchiato a terra, sembrava essere in uno stato pietoso, il vino complice del dolore.
"Signore mio…"
Si avvicinò a lui, sfiorandogli la guancia con il dorso della mano, che ritrasse umida.
Tebaldo alzò lo sguardo, artigliando gli occhi scuri del fedele servo con i suoi, arrossati e carichi di lacrime.
"Non sento più niente ormai, in me…."
Il Gatto, impietosito dalle lacrime del padrone, lo aiutò ad alzarsi e sorreggendolo per la vita percorse gran parte dei corridoi del palazzo, per raggiungere all'ala riservata a Tebaldo.
Arrivato alla porta della stanza di Tebaldo, il Gatto lanciò una tremenda occhiata alle guardie che vi stavano di fronte, ed esse, senza replicare, se ne andarono. Aprì la porta, e sbattendola velocemente, si chiuse all'interno della stanza insieme al suo padrone, che adagiò sulla superficie morbida del letto.
"Signore mio..."
Tebaldo si era gettato tra le coperte, stringendone alcune tra le dita, tirandole, arrotolandovici le mani dentro, quasi fino a farsi male. Tutto, senza smettere di piangere.
"Puoi andare, grazie."
Ma il Gatto non si mosse, si sedette, invece, sul bordo del letto, rimanendo immobile. Tebaldo appoggiò la fronte alle sue gambe, e prendendo grandi boccate d'aria, finalmente riuscì a calmarsi.
"Tu non-
"Nulla."
Il Gatto lo precedette, lasciandolo soddisfatto, come al solito.
Tebaldo sapeva di potersi fidare di lui, di lui che non lo abbandonava mai, che la situazione fosse favorevole od insidiosa, il fedele Gatto era sempre accanto a lui.
Tebaldo si alzò, strisciando i piedi fino ad un tavolino nemmeno troppo distante dal letto.
Riempì di vino due bicchieri, e si risedette a letto, porgandone uno al servo.
Forse il vino lo avrebbe aiutato a far passare quel senso di inquietudine che si portava dentro, o, nel caso peggiore, lo avrebbe addormentato; certo era che non voleva bere ancora da solo e forse era giusto ricompensare quello che poteva definire un fedele amico.
Il Gatto, tranquillo, beveva a piccoli sorsi il dolce vino, al contrario di Tebaldo, che in un sorso aveva svuotato il bicchiere.
Il silenzio all'interno di quella stanza era interrotto solo dal lieve ronfare del Gatto e Tebaldo lo trovava incredibilmente rilassante. La calma: quella cosa che Tebaldo provava raramente, assetato com'era dall'odio, l'orgoglio, la vendetta e assediato dall'angoscia, la paura e il timore. Paura e timore di cosa? Nemmeno lui ne era certo.
Accarezzò lievemente la testa del Gatto e questo si alzò, riordinando i bicchieri ormai vuoti e uscendo poi dalla stanza.
Tebaldo si spogliò, ripose gli abiti da festa nell'armadio e si sommerse di coperte: quella notte sarebbe stata lunga, gelida, abitata dai suoi comuni mostri.
Si ritrovò a ripercorrere, così, la sua tormentata infanzia all'interno di quei sogni. La perdita dei genitori, l'ala protettrice e seduttrice di Lady Capuleti, i colpi del Conte i cui li lividi e cicatrici erano ben impressi nella mente e sul corpo di Tebaldo, che ancora adesso, che era il più abile spadaccino dell'intera Verona, secondo lo zio, andava corretto. Ma tra quella marea di dolori e timori, spuntava una luce, piccola e lieve, molto più forte, comunque, di quanto l'età gli consentiva di essere. Ecco, in mezzo a quelle ombre, in mezzo ai suoi demoni, spiccava alta la figura della cugina, bianca, pura, inondata di luce.
Il sonno di Tebaldo era diventato lieve, ma d'improvviso la luce che rischiarava il suo sonno venne divorata da un insolito buio. Accanto alla piccola e dolce Giulietta era comparso quel dannato traditore del sangue Montecchi, Romeo, che prendeva per mano la cugina, e la allontanava dalla mano tesa di Tebaldo, che si svegliò di scatto, risoluto a concludere quella spiacevole situazione prima che fosse troppo tardi.
"Gatto!"
Subito, il fedele servo, accorse in camera, preoccupato dall'urlo del padrone.
"Signore mio?"
"Prepara i miei abiti migliori, e affila la spada, oggi si va a caccia."
Quando poco dopo il Gatto tornò in camera, portando con sé i vestiti e le armi per Tebaldo, scoprì che il padrone aveva appena mandato a chiamare molte più ragazze di quanto non facesse solitamente e guardò storto in sua direzione.
"Signore mio?"
"Gatto, é il giorno, oggi o mai."
Il Gatto rimase perplesso, non aveva mai visto Tebaldo così tanto risoluto com'era in quel momento.
"Ma signore, non sarebbe meglio-
"Ce ne sarà anche per te, Gatto, e ancora più tardi, se la caccia andrà bene."
Tebaldo si avvicinò al servo, tirandoselo a fianco, passandogli, violenta, una mano tra i capelli, mentre sul suo viso si dipingeva un ghigno tremendamente vittorioso e provocante.
Il Gatto emise un verso simile a delle fusa, ma poi si staccò dal suo fianco, per uscire dalla stanza e rientrare solo con al seguito una decina di ragazze.
Ma Tebaldo, nonostante la varietà di ragazze che si trovava davanti, non riuscì nemmeno a  farsi passare il più piccolo dei pensieri, l'idea di Giulietta tra le braccia di Romeo era più forte di qualsiasi altra cosa; l'amore faceva male, così male che avrebbe ucciso pur di non vederla con lui e chissà, allora, se lo zio avrebbe ancora dubitato di lui, della sua determinazione e della sua forza.
Scacciò, urlando, le ragazze e indossati gli abiti controllò il filo della spada: il Gatto aveva fatto un ottimo lavoro, come al solito.
"Andiamo, si va in piazza."
Ma il suo tono di voce e la sua faccia non sembravano convincenti e il servo lo guardò perplesso. Stava per aprire bocca quando Tebaldo, emettendo un sonoro sbuffo, si lasciò cadere all'indietro sul letto, coprendosi la faccia con il lenzuolo. Passò il resto della mattinata così e il Gatto seduto a terra, ad attenderlo, appisolato, la testa a ciondoloni sulle spalle; Tebaldo pensava e pensava e mentre pensava sbuffava, a volte sonoramente, altre in modo sommesso, ma non riusciva a mettersi il cuore in pace.
Era la cosa giusta?
Di certo, per Giulietta, avrebbe ucciso, non sarebbe nemmeno stata la prima volta, ma qualcosa lo frenava. Doveva farlo oppure no?
Avrebbe di sicuro compromesso il suo rapporto con Giulietta, tagliandosi fuori da solo dalla sua vita, ma era questo che temeva? Sapeva che, qualsiasi cosa avrebbe fatto in quella piazza, non ne sarebbe uscito incolume. Si accorse quindi che sperava che Romeo si difendesse, che non si lasciasse uccidere ma che combattesse, e sperava di rimanerne anche ferito, lui che non era mai stato battuto da nessuno, forse solo per avere una scusa al tremendo vuoto che si sarebbe formato nel suo cuore. Pensò e rifletté a lungo, lui, Tebaldo, un giovane e fiero Capuleti, in fondo, aveva paura di soffrire e di fare soffrire.
Ma per Giulietta avrebbe sofferto, lo faceva tutt'ora, incrementare la dose in quel modo non serviva ad altro che a farlo stare meglio, in seguito; se lui non poteva avere Giulietta, non avrebbe di certo permesso che Romeo potesse tenerla tutta per se, chiunque, ma non lui.
Risoluto lanciò via il lenzuolo dal volto e scattò in piedi, facendo ridestare il Gatto, che aveva ronfato tutto il tempo, creando, insieme ai sospiri di Tebaldo, una quasi piacevole melodia.
"Andiamo!"
Questa volta era convinto, e stretta la cintura e afferrata la spada uscì dalla camera, seguito dal fidato servo.
All'aperto il sole picchiava forte e Tebaldo rimpiangeva di aver messo il mantello, ma era un buon giorno per morire e altrettanto buono per uscire vittorioso da tutto questo: magari ferito, ma vittorioso. Camminarono in silenzio fino ai pressi della piazza, quando già si cominciava a sentire il gran trambusto che quei tre si portavano sempre dietro.
Pochi passi prima di arrivare alla piazza Tebaldo si fermò improvvisamente, facendo preoccupare il fedele servo; chiusi gli occhi, inspirò profondamente e tutto d'un fiato spinse fuori l'aria, quando riaprì gli occhi questi brillavano di una luce nuova, risoluta, violenta.
Raggiunse a grandi falcate la piazza, zittendo, con una sola parola, tutti i presenti.
"Messeri!"
I presenti si girarono subito, per guardare in faccia l'interruttore dei loro racconti e dei loro festeggiamenti, mentre Romeo e Benvolio si giravano lentamente e Mercuzio rimaneva a terra in ginocchio, un amaro sorriso sul volto.
"Che la pace sia con voi!"
Si fece il segno della croce, toccandosi oltraggiosamente in mezzo alle gambe, provocando una smorfia sul viso di Romeo.
"Una parola ad uno di voi altri!"
L'aria in piazza si faceva palpabile, tutti erano sull'attenti e Romeo si fece avanti.
"Ah! Eccolo qui! Il mio uomo… Romeo! L'amore che ti porto non può permettersi termine migliore di questo! Tu, sei, un, vigliacco!"
Come Tebaldo aveva a lungo sperato, disteso sul suo letto, Romeo ebbe il coraggio di rispondere e, trattenuto a malapena da Benvolio, gli urlò contro.
"Vigliacco io non sono, tu non mi conosci!"
Tebaldo si ritrovò a pensare che fosse una vera fortuna! Chissà come doveva essere un tipo come quel Montecchi; di certo si, preferiva non conoscerlo.
"Ma questo non ripagherà delle tue offese!"
Che lo conoscesse o meno non aveva importanza, con quale diritto lui piombava nella sua vita, nella vita di sua cugina?
"Io non ti ho mai offeso!"
Tebaldo aveva la mano sulla spada, pronto a sguainare dopo un simile affronto, se Mercuzio non si fosse messo in mezzo, dividendoli.
"Fredda! Vile! Disonorevole sottomissione, Tebaldo!"
Il Capuleti, sentendosi chiamato in causa fece un passo per allontanarsi dall'Escaligero, ma poi allargò le braccia, sorridendo sadico ai presenti in piazza e urlando a gran voce.
"Acchiappa topi! Fatti avanti!"
Lo avrebbe fatto? Si sarebbe fatto avanti o sarebbe rimasto li, in balia dei pensieri di un folle? Si sarebbe davvero messo contro Mercuzio? Lo avrebbe minacciato, colpito, nonostante l'obbiettivo fosse un altro? Non ne era certo e stette a sentire.
"Che cos’è che angoscia l’uomo? Oh.. oh davvero sai poi chi siamo? Che cos’è che squarcia il cuore?"
Lui, proprio lui, stava parlando d'amore. Cosa accidenti ne sapeva lui, dell'amore?
Tebaldo non ci vide più dalla rabbia e avventandosi su Mercuzio, lo afferrò per il collo. Vennero prontamente divisi da Romeo.
"Tebaldo, Mercuzio! Il Principe ha proibito queste zuffe!"
Tebaldo si allontanò dal centro della piazza, non era Mercuzio il suo uomo, ma questo lo attaccò.
"Tebaldo sai che sei nei guai!"
Spontaneamente, girandosi nella sua direzione, Tebaldo, scoppiò a ridere e Mercuzio, facendosi serio, continuò.
"Ridi che poi non riderai; la spada mia, tu, assaggerai, ti piacerà vedrai, miagolerai! Voltati, dai, re dei gatti tu sei: tu, tu non sai che nausea mi fai! Tebaldo qui ti scannerò!"
Tebaldo lo guardò, risoluto; effettivamente non era lui il suo uomo, ma dopo una provocazione del genere non avrebbe lasciato correre, un duello in più non avrebbe fatto male: avrebbe dato una lezione a Mercuzio e in seguito avrebbe saldato il suo debito con Romeo.
"Mercuzio! No ma guardati dai! Che uomo sei? Tra le gambe cos'hai? Sei un uomo a metà, si, si ecco chi sei! A terra striscerai, la lingua ingoierai! Tu appesti la città! Ma che agonia questi anni per me, l'attesa però compensata sarà! Mercuzio, io,ti ammazzerò!"
La rabbia stava prendendo il sopravvento e Tebaldo stava perdendo tempo, prima avrebbe ucciso Romeo prima tutto quel trambusto sarebbe finito; Mercuzio era solo d'intralcio.
Furono interrotti nuovamente da Romeo, ancora e ancora, mentre la loro lite diventava sempre più violenta. Ad un tratto, mentre combattevano a spade sguainate, Tebaldo sentì deviarsi un colpo dal braccio di Romeo e la mano affondare nella carne di qualcuno, il sangue caldo scorrergli tra le dita e spaventato si allontanò, lasciando la spada.
Si guardò le mani, bagnate e rosse e rimase immobile. Sapeva di non aver ferito l'uomo giusto. Il fedele servo, notando lo sguardo smarrito del padrone, lo trasse via dalla mischia, allontanandolo dal centro della piazza.
Tebaldo chiuse gli occhi ed inspirò, quello era l'inizio della fine.
Guardandosi le mani impregnate di sangue sapeva di aver colpito abbastanza da uccidere e sapeva di aver appena decretato la sorte di gran parte della città.
Mercuzio, infatti, aveva annunciato a tutta la piazza, in particolare a Romeo, di essere stato ferito e Benvolio, incredulo, era già corso a prenderlo tra le braccia.
A Tebaldo non ci volle molto per capire che il suo piano era andato in fumo. Non c'era nessun'onore nell'uccidere un uomo innocente, certo, era Mercuzio e non lo aveva mai sopportato, ma non aveva nessuna colpa che meritasse la morte. Aveva ucciso per molto meno, ma gente di molto meno conto. Uccidendo la persona sbagliata aveva segnato non solo la sua sventura, ma quella di molti altri.
Prima tra tutti quella dello stesso Mercuzio: non avrebbe resistito ad un colpo del genere, ma non sarebbe stato una morte rapida e indolore.
Con la sua morte, Mercuzio, e di conseguenza Tebaldo, avrebbe reso la vita di Benvolio un vero inferno. Benvolio, il pacifico e quasi ragionevole Benvolio, non avrebbe retto un giorno senza Mercuzio, colui che amava così teneramente; sarebbe stato distrutto dalla sua morte e allora anche l'unica anima sopportabile di Verona sarebbe diventata tormentata, assalita di incubi.
Tebaldo aveva decretato anche la sua sorte, uccidendo un parente del Principe non l'avrebbe passata liscia, no di certo. E nemmeno Romeo sarebbe stato perdonato, non sarebbe rimasto con le mani in mano, si sarebbe vendicato e quindi una minima parte di colpa sarebbe stata anche sua. Se una parte di colpa fosse ricaduta su Romeo, Giulietta non lo avrebbe mai sopportato e di certo non lo avrebbe perdonato a Tebaldo, togliendogli la parola, il saluto e magari anche il sorriso, che era l'unica cosa che portava un po' di sole nella sua vita.
Tebaldo ripensò quindi a come doveva andare il suo piano e a come era andato realmente; c'era la differenza di un abisso. L'idea era quella di sbarazzarsi di Romeo per rendere la sua vita e quella di Giulietta decisamente migliore, il risultato era stato quello di aver rovinato tutto, decisamente tutto.
In quel momento, mentre Tebaldo, ancora immobile ripensava a quello che era appena successo, Mercuzio stava sprecando il suo ultimo respiro per baciare quel traditore di Romeo, suscitando l'immediata reazione dell'intera piazza e soprattutto del giovane Benvolio, che aveva ormai gli occhi gonfi e lucidi. Caduto a terra esanime, la piazza si fece taciturna, l'aria gelida e opprimente, l'atmosfera tesa, squarciata solo dall'urlo straziante di Benvolio, riverso a terra, in lacrime, tra le mani un pezzo della camicia di Mercuzio.
Quando quell'urlo giunse alle orecchie di Tebaldo tutto parve perdere senso, o acquisirne uno nuovo. Non se la sarebbe sentita di vivere con un peso così grande sulla coscienza. Aveva portato la morte sulla città, morte che non se ne sarebbe andata tanto presto da un luogo dove ognuno ha motivo di odiare colui che non é del suo stesso sangue. Gettò un ultimo sguardo a Benvolio, ancora steso sul pavimento della piazza, in lacrime, scosso da tremiti e sussulti e decise di non volersi ridurre così.
Tebaldo, respirando un'ultima volta l'aria calda e pura della sua Verona mise da parte l'onore, allargò le braccia al suo nemico e abbracciando la morte che stava avvolgendo piano piano tutta la città, si lasciò uccidere per amore della cugina, della quale non avrebbe sopportato lo sguardo severo ed accusatorio.
Sentì chiaramente il pugnale di Romeo lacerare la carne, membra dopo membra, il sangue scorrere lungo il fianco e impregnare i vestiti, i sensi venir meno. Attorno a lui il caos della piazza e i respiri mozzati dei Capuleti che stavano accorrendo in suo aiuto. Spiccavano, in tutto quel trambusto, delle voci che Tebaldo avrebbe riconosciuto tra mille altre. La flebile voce del fidato servo, compagno di avventure e sempre vicino nelle disgrazie, la voce, mai sprecata, che pacata dispensava consiglio e riservata non lasciava trapelare i segreti del padrone; la voce alta di Lady Capuleti, forse la figura più carismatica che avesse mai conosciuto, la più manipolatrice e calcolatrice, ma comunque l'unica che alla Villa avesse mai manifestato un po' di amore per lui, dalla seduzione alla protezione dal Conte; e poi, più forte delle altre l'inconfondibile dolce voce di Giulietta, annacquata e rotta dal pianto, gridare il suo nome a pieni polmoni.
Tebaldo chiuse gli occhi, sentì freddo e le braccia del Gatto non bastarono più a sorreggerlo.
Cadde a terra con un sorriso nato spontaneamente in volto; la morte lo aveva accolto nel migliore dei modi.

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Odioso angolino della folle cronica:
Saaaaaalve :3
Scrivo giusto due cosette: molti dei dialoghi trascritti sono i pezzi presi direttamente dall'opera, non sono quindi, di mia invenzione.
Mi sembra giusto puntualizzare che so che nel musical italiano Tebaldo muore sul colpo e che Giulietta non pare minimamente scossa dalla cosa, ma nell’originale francese, non solo Tebaldo rimane in agonia per qualche secondo, ma fa davvero in tempo a sentire Giulietta che urla disperata il suo nome; mi è sembrato carino concludere la storia così, spero non vi sia dispiaciuto.
Buona lettura, baci
Ino

  
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