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Autore: Cheonefer86    05/04/2016    1 recensioni
La primavera sboccia anche nel mondo di HP. Nella vita di Severus Snape.
“Primavera era quel bacio non dato.
Un bacio desiderato.
Era colori in festa e una vita immobile.”
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Potter, Severus Piton | Coppie: Harry/Severus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
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Frammenti di primavera

 

Aveva contato altri fiori.

Tanti altri nuovi fiori si erano aperti al sole di primavera.

E lui li aveva contati.

Lo faceva ogni volta che passava davanti a quel campo, era come tenere il conto dei quotidiani momenti di stupidità che lo portavano ogni mattina a procedere lungo lo stesso percorso.

Stupido e patetico.

Si sentiva dannatamente patetico, nemmeno fosse stato un adolescente in preda a squilibri ormonali.

O era la primavera?

La primavera… stupido e patetico!

Ne aveva contati dieci alla destra del solito posto in cui si fermava, ventidue alla sinistra, e trentaquattro proprio di fronte a lui, ma quella mattina non ne era sicuro: erano prettamente bianchi, ma ne aveva scorti anche di rossi e alcuni di un timido giallo come un sole che sbadigliava all’orizzonte.

Ogni mattina, quando scendeva dal letto, si ripeteva che non sarebbe tornato là, a guardare quel prato e a percorrere quelle stradine, ma ogni volta i suoi passi seguivano quelli del giorno prima e del giorno prima ancora, come se una qualche magia avesse cancellato in un attimo tutti i suoi ragionamenti.

Ah, quale magia!

Facendo un conto di tutti i fiori che erano sbocciati, la sua stupidità era aumentata di parecchio, soprattutto perché il rischio di essere scoperto cominciava a farsi concreto, la sua era più una sensazione, perché le accortezze che aveva preso, rendevano parecchio difficile l’essere smascherato.

Quelli erano altri petali appena aperti?

Al diavolo quello stupido campo!

In quel momento lo avrebbe bruciato volentieri, ma si limitò a sistemarsi la giacca e riprendere a camminare.

 

Il profumo della primavera era tutto lì.

Una leggera brezza lo portava dal campo a lì, sguarnendolo di aromi, come se avesse voluto lasciare la bellezza visiva tra i fiori e lo spettacolo dei vari profumi lontano da essi, per portarli sempre con sé.

Le fragranze di primavera erano in quei vasi dai mille colori al centro di ogni tavolo, erano nel caffè di prima mattina o nel burro dei biscotti; erano nelle bocche di ogni uomo e donna che passava di lì, di ogni bambino che allungava le mani verso una torta esposta in vetrina.

Primavera era nella sua bocca.

E assaporare a pieni polmoni quello che anche lui avrebbe assaporato, era un bacio ad ogni molecola della vita fino alle sue labbra, un bacio d’invisibili costrizioni, era stringere ciò che non poteva stringere attraverso gli atomi del mondo, come polline portato da un’ape di fiore in fiore, e lui non aspettava altro che un qualche piccolo insetto gli portasse il suo sapore nel proprio respiro.

Primavera era quel bacio non dato.

Un bacio desiderato.

Era colori in festa e una vita immobile.

 

Quella mattina, al suo tavolo, lo accolse un piccolo mazzo di margherite bianche.

Si guardò intorno e vide che solo lì ce n’erano, gli altri vasi contenevano altri fiori di diversi colori, ma nessuno di essi aveva dentro di sé margherite.

Gli sembrò strano, ma non ci badò più di tanto.

Le margherite non erano il fiore per lui, del vero lui.

Purezza e innocenza le aveva perse da molti moltissimi anni e niente avrebbe potuto ridargliele, tantomeno un fiore raccolto in un campo, né avrebbe mai chiesto gli fossero restituite, era stato lui a barattare entrambe con un barattolo di sogni infranti e nient’altro che malvagità.

Era il prezzo che aveva pagato ed ora di bianco gli rimaneva solamente la pelle.

L’anima era stata un fiore di primavera che era sbocciato colorato e profumato e in poco tempo era morto lasciando nient’altro che marcio sulla terra.

Era una margherita dallo stelo nero di sensi di colpa e dai petali rossi come il sangue che gli aveva macchiato le mani disegnandogli la parola “peccato” sulla pelle come un indelebile tatuaggio che niente avrebbe mai potuto cancellare.

Era una primavera corrotta.

Ah, l’amore fedele!

In un certo senso era stato fedele, no?

Aprì l’unico bottone allacciato della giacca e, sospirando amaramente, si mise seduto al medesimo quotidiano posto.

 

«Le porto il solito, signor Oldman?»

«Sì, grazie.»

Era diventato un abitudinario, un orologio preciso.

Le abitudini uccidono, aveva sentito dire da qualcuno, non ricordava chi, ma lui lo avrebbe ucciso tutto quel guardare e basta, quell’immobilità di sentimenti e di vita, quel rodersi dentro per un desiderio che non riusciva a buttare fuori attraverso il respiro.

Era parole silenziose.

Dichiarazioni vuote.

Pensieri nascosti.

Di nuovo.

«Ecco a lei.»

«Grazie.»

Sempre le stesse poche parole e quel caffè che aveva in sé lievi sentori di cacao amaro e frutta secca, e un piattino con Chocolate crackle cookies che spazzolava ogni volta ben volentieri.

Forse era l’agitazione a farlo mangiare in quel modo, o il fatto che fosse cambiato, lui sempre così rigido e controllato anche nei momenti peggiori che spesso riusciva a malapena a mandare giù qualche goccia di vino, mentre in quei momenti se gli avessero portato un bue intero lo avrebbe trangugiato tutto sentendosi ancora affamato anche se il suo stomaco non avrebbe retto.

Non si può amare bene se non si mangia bene.

Sorseggiò un po’ di caffè ancora fumante, e tutti i suoi sapori gli invasero il palato.

E la primavera gli invase il palato.

Era come se la bevanda avesse assorbito gli aromi intorno a sé, e sperava che lui fosse stato già nelle vicinanze e il caffè avesse assorbito anche il suo odore.

L’odore della primavera in sé.

Un biscotto tra le labbra, ed era come se le margherite volessero dirgli qualcosa, come se si fossero per un attimo animate e lo guardavano.

È un piccolo sole quello che osserva.

Dei piccoli soli lo stavano osservando e gli sembrava gli stessero sorridendo.

Erano delle piccole vite che gli sorridevano.

Portano il sole nella vita delle persone.

Dov’era il sole nella sua vita?

Faceva caldo quella mattina, e si sfilò la giacca continuando a bere il caffè e mangiare i biscotti.

 

Prese l’ultimo biscotto dal piatto e lui era lì.

Si avvicinava lento al suo solito posto, pensieroso, con una vecchia borsa di cuoio scuro a tracolla e un giornale stretto in una mano.

Lo avrebbe osservato come sempre, in silenzio, rispettoso e assolutamente maniaco.

Un dannato maniaco!

Avrebbe voluto ridere, buttarsi a terra e urlare di risa, ma cercò di ritrovare la sua compostezza nascondendo la bocca dietro alla tazza ormai vuota.

Continuò a scrutarlo di soppiatto, ma lui continuò ad avanzare invece di fermarsi al suo tavolo, e proseguì finché non se lo ritrovò davanti, con quel sorriso sornione che amava e odiava al contempo.

«Posso sedermi qui?»

Lo scrutò per un istante, poi fece vagare lo sguardo al suo tavolo e agli altri tavoli, per poi tornare a guardarlo, sorpreso. «Ci sono diversi tavoli vuoti, perché qui?»

«Posso o no?»

«Sa che è maleducazione rispondere ad una domanda con un’altra domanda?» ma lui sorrise e senza aspettare alcuna replica, scostò la sedia dal tavolo e si mise seduto.

Sfacciato!

«Mi chiamo Harry. Harry Potter» e gli tese la mano, sempre con quel sorriso stampato in faccia.

«Io sono… sono John. John Oldman» rispose stringendo la mano di Harry.

Come poteva perdere l’occasione di toccarlo almeno per un istante? Un’occasione che gli era piovuta così, inaspettata, e neppure tutto l’imbarazzo e l’inadeguatezza del mondo avrebbero potuto fermarlo dall’allungare le dita e sfiorare quella pelle candida.

Un leggero alito di vento spostò una margherita dal vaso, e ogni profumo.

La primavera di Harry era dentro di lui.

Nel respiro.

Negli occhi che avrebbe voluto chiudere per assaporare meglio ogni sua essenza.

La primavera era il sole nella sua vita.

«Ha letto di quell’incidente?»

«No.»

«Vuole leggere?»

«Certo.»

Potter gli passò il giornale, ed iniziò a leggere: l’incidente era stato drammatico, c’erano stati parecchi morti e si rammaricava di questo, aveva visto troppe persone passare oltre la vita che sperava solamente di sentire di uomini e donne morte di vecchiaia dopo un’esistenza piena e felice.

«Spaventoso» pronunciò appena, mentre Harry continuava a fissarlo con quel suo strano sorriso.

«Già.» Fu il suo unico commento prima di ordinare anch’egli un caffè e un porridge. «Di cosa si occupa, signor Oldman?» chiese all’improvviso, mentre l’attesa del suo ordine si era fatta silenzio davvero imbarazzante tra i due, un silenzio condito di vari profumi e di scenari improbabili.

Troppe domande.

«Io?»

«Sono al tavolo con lei, a chi altro dovrei domandarlo?»

Sfacciato.

«Io. Io faccio… faccio il farmacista.»

«Davvero? Posso approfittare di lei?»

Scenari improbabili che in un attimo si trasformarono in parole indicibili e cercare di mantenere la concentrazione era dannatamente difficile in quel momento, in più non poteva nascondersi ancora dietro la tazza perché Harry era troppo vicino e avrebbe visto che fosse vuota.

«Nel senso che posso chiederle un consiglio?»

Decisamente troppe domande.

«Se posso,» rispose, provando ad essere disteso e sicuro di sé.

«Sono giorni che ho un forte mal di gola, ho preso vari medicinali, ma nessuno mi ha dato qualche beneficio, cosa mi consiglierebbe di provare?» E si sporse un po’ in avanti, i gomiti sul tavolo e poggiando il mento sulle mani: i suoi occhi illuminati dalla luce del sole erano ancora più belli, era perdersi in una distesa di fresca erba, gettarsi a terra e farsi abbracciare dagli innumerevoli steli che si muovevano sinuosi al vento.

Era perdersi senza più il desiderio di ritrovarsi.

«Ha provato con un in…» si fermò appena si era reso conto di ciò che stava per dire, quegli occhi lo avevano distratto troppo e non poteva permetterselo. «Un infuso di erbe officinali» si corresse, e Harry non sembrò turbato da quell’interruzione, si sistemò meglio sulla sedia e continuò a fissarlo, gli occhi sempre più vicini e quasi poteva sentire il suo respiro. «Un bell’infuso di Salvia, Piantaggine, Timo, Sambuco e Anice stellato, è proprio quello che fa per lei.»

Il vento mosse un’altra margherita, era la più piccola nel vaso, prima rivolta verso Harry e poi verso di lui, e il suo giallo aveva per un secondo dipinto oro nei suoi occhi in piccoli tratti, grano maturo in un bosco rigoglioso.

Un cameriere portò ciò che Potter aveva ordinato e subito iniziò a mangiarlo con appetito e con gusto: in tutti quei giorni aveva visto Harry prendere sempre cose diverse, voleva sperimentare tutto, come aveva detto più volte al proprietario del Caffè, non era un abitudinario, era un impulsivo, era una persona che si lasciava trasportare dal tempo o da qualsiasi altra cosa, decideva al momento.

Era tutto il contrario di lui.

Eppure c’erano molte cose che li legavano, soprattutto cose terribili, ed era forse stato il loro essere solcati da crepe a renderli così uniti, e lo erano stati in tutti quei mesi, da quando era riuscito a sconfiggere la morte, come semplici persone che si stavano conoscendo, da quando era tornato ad Hogwarts, come suo insegnante e da quando aveva preso la sua strada, come…

Come un maniaco stupido e patetico.

Nei sentimenti gli era sempre mancato coraggio, dovette ammetterlo.

Il profumo del campo continuava ad arrivare fin lì: chissà quanti fiori si erano aperti in tutti quei lunghi minuti.

«Sa… signor Oldman… il suo non è per niente un consiglio da farmacista» parlò all’improvviso, dopo aver mandato giù l’ultimo boccone di porridge ed essersi pulito la bocca. «O forse dovrei chiamarla “professor Snape”?»

Aveva davvero sentito bene?

Sì, aveva sentito bene, tanto che per lunghi istanti non riuscì a dire nulla e a muovere a malapena il viso, e ci volle tutto il suo autocontrollo per far uscire dalle sue labbra un «Chi?» che sperava lo convincesse.

Harry sorrise, afferrò la piccola margherita e se la rigirò tra le dita, guardandola come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto e continuò a muoverla anche quando il suo sguardo si alzò per incontrare il suo: erba che ricopriva una grotta buia e umida ostruendone il passaggio, era quella la sensazione che aveva provato in quel frangente.

«Puoi cambiare il tuo aspetto, diventare John Oldman, ma il tuo modo di alzare le sopracciglia sarà sempre il tuo, il modo in cui parli, il modo in cui pieghi appena la testa e corrucci la fronte quando qualcosa di negativo attraversa i tuoi pensieri, il modo in cui muovi le mani o rilassi le spalle o le irrigidisci. Il modo in cui disegni ogni volta la linea delle tue labbra, ad ogni espressione. E posso continuare, se vuoi?»

John, o meglio, Severus rimase spiazzato da tutte quelle affermazioni: lo conosceva davvero così bene? O era lui ad essere diventato oltre che patetico anche un incapace?

Tutti quei dettagli.

«Quello che non capisco è perché hai inscenato questa farsa.»

Perché sono innamorato di te.

Perché sono innamorato di nuovo di chi non posso avere.

Perché mi accontento di vederti anche solo da lontano.

Perché per vederti da vicino, devo diventare un’altra persona per non sembrare un maniaco patetico.

Perché vorrei lasciarti andare, ma non ci riesco.

Perché non riesco a dirti tutto questo e allora mi limito al silenzio e a guardarti da estraneo.

Perché vorrei non essere un estraneo.

Perché vorrei alzarmi da questa sedia e baciarti.

Perché tu porti il sole nella mia vita.

Perché vorrei che lo portassi per sempre.

Severus indugiò in quel silenzio che sapeva di mille parole urlate in una stanza vuota, e abbassò lo sguardo, non riuscendo più a sostenere quegli occhi né quel sorriso.

Scostò la sedia e si alzò, desiderando solo allontanarsi da lì, dal vaso di margherite che continuavano ad osservarlo, quasi a giudicarlo, allontanandosi da Harry e da quella margherita che ancora stringeva nella mano.

Prese un foglio dalla giacca, sussurrò qualcosa d’incomprensibile, lo lasciò cadere sulla sedia e se ne andò a grandi passi, lasciandolo ancora seduto e ancora sorridente.

 

«Sai che la margherita è anche simbolo dell’amore fedele?»

Lui, però, non rispose.

Era di nuovo lì, davanti a quel prato, ma stavolta non aveva contato nient’altro.

Non voleva aggiungere altri momenti stupidi e patetici a quelli che già aveva avuto.

Il profumo della primavera era rimasto su quelle sedie, lì c’era solo la bellezza dei colori.

C’era il profumo di Harry.

C’era Harry.

Harry che mise nella tasca della sua giacca la margherita che aveva ancora tra le dita.

Quel piccolo sole che irradiava raggi bianchi.

La adagiò lì, con i profumi della primavera e della sua anima, e ci posò anche un pezzo di carta.

Gli sfiorò appena una mano e lo lasciò lì, di nuovo da solo, di nuovo a contemplare la primavera.

Minuti.

E ancora minuti.

E il sole saliva mentre il cielo si faceva sempre più azzurro.

E le mani aprivano quel foglio.

 

Perché sono innamorato di te.

Perché sono innamorato di nuovo di chi non posso avere.

Perché mi accontento di vederti anche solo da lontano.

Perché per vederti da vicino, devo diventare un’altra persona per non sembrare un maniaco patetico.

Perché vorrei lasciarti andare, ma non ci riesco.

Perché non riesco a dirti tutto questo e allora mi limito al silenzio e a guardarti da estraneo.

Perché vorrei non essere un estraneo.

Perché vorrei alzarmi da questa sedia e baciarti.

Perché tu porti il sole nella mia vita.

Perché vorrei che lo portassi per sempre.

 

Perché vorrei essere per sempre il sole nella tua vita.

Perché vorrei che tu fossi per sempre il sole nella mia vita.

 

Primavera era quel bacio che avrebbe dato.

Un bacio desiderato.

Era colori in festa e una vita mutevole.

 

 

 

 

 

 

   
 
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