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Autore: artemideluce    05/04/2016    1 recensioni
“Finalmente qualcosa fuori dai tuoi schemi, scommetto che non l’avevi mai fatto” Mi disse.
Era vero. Non avevo mai fatto qualcosa oltre i limiti del consentito, o della morale, o di chissà cosa. Mi guardava, poi guardava la notte scorrere davanti a noi dal finestrino del treno. Sapeva leggermi dentro.
La vita che passa tra l'amore più travolgente e le liti più folli, un sogno attraverso i luoghi più belli del mondo.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Capitolo due. 
“Un giorno ti sveglierai e non ci sarà più il tempo di fare le cose che hai sempre sognato. Falle adesso.”
(Paulo Coelho)
Riaprii gli occhi immediatamente, impaziente di scorgere i suoi movimenti. Ora aveva la fronte appoggiata sul palmo, stava ancora sorridendo per il fatto appena accaduto. Lo trovai così carino, come quando si vede un gattino con degli occhioni grandi e tondi. La signora accanto a lui si girò spostando l'enorme quantità di sedere che si portava appresso, ancora urtandolo un poco e spingendolo verso la parete. Continuava a sorridere, dapprima verso il finestrino poi, vedendo dal riflesso del vetro che lo stavo osservando, si girò verso di me, e scoppiò in una risata fragorosa, come se se la stesse tenendo dentro da secoli. Mi prese alla sprovvista, non credevo si sarebbe mai rivolto a me, men che meno in quel modo così inaspettato. In un primo momento fui sorpresa, spalancai gli occhi e le mie guance tornarono del colore dei miei capelli, di un rosso ciliegia molto scuro. Ma poi, vedendo quei lineamenti perfetti incresparsi in un sorriso che mostrava dei denti così perfetti, i suoi capelli che si muovevano leggeri, un orecchino che non avevo notato prima che dondolava al ritmo della risata, che partiva dal petto e si spegneva nei suoi occhi chiusi. Involontariamente scappò un sorriso anche a me, il che era straordinario visto che ero una persona seria e seriosa, che non amava le leggerezze e le cazzate. Fui sorpresa di me stessa, ma al contempo sollevata di aver ritrovato un segno di quell'umanità che avevo perso da anni. Lui tirò un sospiro, come un tentativo di ingoiare la risata. Aprì gli occhi e con una mano, quella con una tartaruga tatuata, si asciugò una lacrima che gli stava per scendere e solcare il viso. 
"Penso mi odi", si rivolse inaspettatamente a me, ancora incapace di smettere di ridere. Affondai la testa tra le spalle, più accaldata che mai. Mi uscì solo un fievole "già", non so neanche se mi avesse sentita. Che testa di rapa pensai tra me e me: Un ragazzo del genere ti parla e tu rispondi solo un moscio già?! Ti sta bene essere una vecchia zitella. Ero sempre stata timida da piccola, con l'avanzare dell'età quella timidezza si era trasformata in un guscio di indifferenza in cui mi chiudevo in situazioni estranee dal mio normale contesto. Questo aveva portato me a diventare una ragazza sola, a 25 anni senza mai aver dato un bacio o parlato con un ragazzo di persona, davanti ad uno Spritz. 
"comunque sono Marco", questa frase mi distolse dai miei pensieri e mi riportò nel mondo reale. Lo vidi sorridente, sporto verso di me e con una mano allungata. Si aspettava che la stringessi e ricambiassi. La strinsi flebilmente, "Lucia". Risposi, distogliendo lo sguardo da quel bronzo di riace che mi trovavo di fronte. 
Una voce sobbalzante e metallica annunciò la fermata a Bologna, e la sosta per circa 20 minuti. Vidi Marco che si infilava la giacca e si alzava. Ecco, dopo tutti questi anni avevo avuto la forza di dire il mio nome, quello vero, ad un ragazzo e lui già se ne andava, come un sogno. Scavalcò la grassa signora e le ginocchia del vecchino al mio fianco, che ormai si era addormentato. Stava per uscire, fece un passo ma si girò verso di me e disse "fa caldo qui dentro... Ti va di farmi compagnia?" Con il suo solito sorriso a 34 denti. La mia mente era annebbiata nel turbinio di pensieri che affollavano la mente, sul come rispondergli, sul come attaccare bottone, sul cosa avevo mangiato a pranzo e che poteva essersi incastrato nei miei denti o farmi l'alito cattivo. Mi alzai di scatto dal sedile e lo seguii fino a fuori il vagone, sulla banchina della stazione. 
Scesi dal treno una folata di vento mi scompigliò i capelli e mi fece ricordare di non aver preso la giacca. Strinsi le braccia sul mio petto, incrociai i piedi e, non sapendo cosa fare o cosa guardare, fissavo le mie scarpe nuove alla ricerca di qualche indesiderata macchiolina. Con la coda dell'occhio vidi che si era acceso una sigaretta, se la stava fumando con una mano nella tasca dei jeans, e lo sguardo che vagava tra le cose della stazione e me. 
“Quindi ti piace l’arte vero…” Lasciò la sua frase a metà e intuii che si era già scordato il mio nome. “Lucia” risposi “come lo sai?” Non credevo di avere la faccia da studiosa d’arte, non ero una che si vestiva in modo eccentrico o alla moda, ero solo me, una ragazza stralunata, perennemente in ritardo e con la testa sempre tra le nuvole.
“Sono un mago”
La sua risposta mi ha spiazzato. Credo di aver spalancato gli occhi e lasciato cadere la mascella: era forse l’ultima risposta che mi sarei aspettata. Stavo per rispondere quando lui fece un giro su se stesso, lanciò via la sigaretta e si rigirò verso di me con quel suo sorriso angelico e gli occhioni di chi ha fatto una marachella ma facendo il ruffiano aveva la capacità di farsi perdonare.
“Ho intravisto un libro dal tuo zaino” Oh beh, questa era una risposta decisamente più coerente e realistica, una probabilità ampia data la mia sbadataggine nel colmare tanto da non poter chiudere il mio vecchio zaino. Risposi semplicemente con un già e un sorriso, di quelli tirati, forzati, ero colma di vergogna fino alle punte dei capelli e tornai ad osservare le mie scarpe. Restammo sulla banchina qualche minuto che mi sembrò un’eternità, finché nello spazio visivo dei miei piedi apparse la sua testa. Feci un balzo indietro, rischiando di inciampare e cadere, ma lui mi afferrò con forza il braccio per tenermi in piedi, forse stringendo un po’ troppo. “Scusa, mi hai preso alla sprovvista, io… Ahio” Tornata salda sui miei piedi non osavo guardarlo negli occhi per l’imbarazzo e mi strinsi il gomito che mi aveva stretto. La voce annunciante la ripartenza del treno tuonò con cattiveria in mezzo a quella fredda notte d’inverno. D’impulso mi girai per tornare sul treno, ma vidi che lui non si era mosso di un passo da dove l’avevo lasciato. Mi girai verso di lui e, non so con che forza gli dissi “il treno riparte. Pensi di restare qui o salire?” Stava osservando il cielo, e senza distogliere lo sguardo rispose:” stavo guardando quante stelle ci sono sta sera in cielo... E pensando al fatto che sei uscita senza giacca”. È vero, ero uscita senza il cappotto, e non avevo sentito freddo nemmeno un secondo, ci pensai solo dopo. I miei pensieri furono interrotti dalla campanella che segnala la partenza del treno. Il treno aveva acceso i motori e aveva iniziato lentamente a muoversi e noi eravamo ancora sulla banchina, a poco più di un metro di distanza, lui con lo sguardo rivolto verso il cielo, e io disperata verso di lui. Con uno scatto fulmineo balzò verso di me, mi prese la mano come nessuno aveva mai fatto fino a quel momento e mi tirò a correre verso l’ultima porta del treno rimasta aperta. Non ero mai stata una tipa sportiva, la corsa mi affannava subito, ma nonostante questo corsi. Corsi senza guardare a dove mettevo i piedi, senza pensare a tenere i piedi diritti per non inciampare. Guardavo solo lui, lui che stringeva la mano a me e mi faceva salire sul treno appena prima che le porte si chiudessero definitivamente.
Il secondo macchinista accanto a noi ci guardò e sbuffò, tornando a chiacchierare con il collega nella cabina accanto alla porta. Io mi appoggiai alla parete, accaldata e con il fiato corto. Lui mi stava ancora stringendo la mano. Dopo più di un minuto di silenzio tolsi la mano dalla sua: la mia era sudata e appiccicaticcia, mentre la sua ancora fresca e liscia. Passarono ancora alcuni secondi, forse minuti. Mi guardò negli occhi con un altro di quei sorrisi che avrebbero ucciso un sasso, e insieme scoppiammo in una sana e grossa risata.
“Finalmente qualcosa fuori dai tuoi schemi, scommetto che non l’avevi mai fatto” Mi disse.
Era vero. Non avevo mai fatto qualcosa oltre i limiti del consentito, o della morale, o di chissà cosa. Mi guardava, poi guardava la notte scorrere davanti a noi dal finestrino del treno. Sapeva leggermi dentro.
   
 
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