Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |       
Autore: Blueorchid31    08/04/2016    6 recensioni
Seconda Classificata al Contest " Tra Favole, Miti e Leggende ~ Decostruiamo una storia!' indetto da _Schwarz sul forum di EFP''
Sasuke Uchiha è un uomo ossessionato dal tempo e vive una vita, a suo dire, perfetta. Un evento doloroso lo costringerà a fare ritorno a Parigi dopo svariati anni. Lì si troverà a fare i conti con un segreto che suo padre ha tenuto nascosto da sempre alla sua famiglia e, ovviamente, con una ragazza di nostra conoscenza.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fugaku Uchiha, Itachi, Mikoto Uchiha, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Nome autore (su forum e sito): Sasuk8, Blueorchid31
Titolo storia: 
The second hand unwinds

Fandom scelto: Naruto
Favola scelta: Alice nel Paese delle Meraviglie
Canzone scelta: Once Upon a Time - Lana del Rey



Gentilissimi Lettori,

Credo che sia il caso che io vi introduca questa minilong. Il Contest aveva come tema centrale il ''decostruire'' una fiaba, ovvero dimenticare come questa era fatta, scomporla, e riutilizzarla in un altro contesto. Io ho scelto ''Alice nel Paese delle Meraviglie'' e chi mi conosce da un po' sa che sono letteralmente ossessionata da quella favola, tanto da aver chiamato mia figlia, per l'appunto, Alice. Era da molto tempo che mi girava in testa di scrivere qualcosa che potesse essere in qualche modo attinente e l'occasione l'ho avuta con questo Contest. Ringrazio quindi il _Swarz per averlo indetto e di avermi dato una proroga ulteriore di due ore per consegnarla. Inizialmente avevo scelto una canzone diversa, avendo in mente tutt'altra storia, poi mi sono resa conto che quella di Lana del Rey fosse più azzeccata… e dopo capirete perché.

Alla fine di ogni capitoli troverete delle note esplicative perché durante la narrazione ho inserito alcune citazioni tratte dalla favola, mentre a inizio capitolo, all'interno del banner, troverete un'ulteriore citazione che racchiude un po' ciò che il capitolo contiene. La canzone non la troverete in lingua originale, bensì tradotta in italiano per esigenze narrative. Il titolo è un verso di ''Time after time'' di Cindy Lauper.

Spero che la storia vi piaccia.

P.s. Negli ultimi giorni mi sono concentrata solo sulla stesura di questa fan, ma a breve tornerò con le altre.





Image and video hosting by TinyPic



The second hand unwinds













I





« Bonjour Monsieur, où aller? »

« À l'Hôpital Universitaire Pitié – Salpêtriere, s'il vous plâit. »(1) rispose al tassista, poggiando un gomito sullo sportello e portandosi una mano alla fronte come se quel semplice gesto avesse potuto fare qualcosa per la sua emicrania.

« Vite. » aggiunse, infastidito dallo sguardo dell'uomo, riflesso nello specchietto retrovisore, e dalla sua insostenibile inerzia.

« Bien sûr, Monsieur. » (2)

Le chauffeur de taxi si decise a mettere in moto il mezzo e si incanalò nel caotico traffico dell'autostrada A3 con profondo sollievo da parte del suo indisponente passeggero, il quale mise una mano nella tasca interna della giacca, tirando fuori un orologio a cipolla. Un'anticaglia risalente alla seconda guerra mondiale regalatagli da suo nonno. Un oggetto dal quale non si era mai separato. Era una sorta di amuleto oltre che un caro ricordo: impugnandolo aveva come l'impressione di poter controllare il tempo e così la sua vita. La spasmodica ricerca di un equilibrio, di un ordine imprescindibile nella sua esistenza, lo aveva portato ad avere con quell'orologio, e con il tempo, un rapporto ossessivo. Le sue giornate erano organizzate sin nei minimi particolari e non erano contemplati imprevisti o variazioni di sorta: tutto doveva filare liscio e, soprattutto, dovevano essere rispettati gli orari.

Inutile dire che fosse, quindi, molto contrariato dal ritardo dell'aereo e ancor più dalla lentezza del suo chauffeur de taxi che continuava con insistenza a guardarlo attraverso lo specchietto retrovisore al posto di dedicarsi alla guida: L'Hôpital Universitaire Pitié – Salpêtriere distava una quarantina di chilometri dall'aereoporto, circa un'ora di macchina, ma di quel passo ce ne avrebbero messe almeno due.

« Vite. » ripeté, abbassando gli occhiali da sole sulla punta del naso in modo tale che l'autista potesse incontrare il suo sguardo e leggervi quel messaggio che forse non aveva ben recepito in precedenza.

L'autista staccò immediatamente gli occhi dallo specchietto e li riportò sulla strada, accelerando un po'.

Era in ritardo. Impensabile.

Prese a fissare l'orologio, seguendo con gli occhi la lancetta dei secondi che, inesorabile, procedeva sul quadrante di madreperla.

Tic – Tac, Tic – Tac.

Trovava quel suono irritante. Ogni movimento di quella lancetta equivaleva a un'onta ai danni della sua persona.

Continuò a fissarla con astio, iniziando inconsciamente a muovere in modo ritmico la gamba destra.

« C'est une belle montre vraiment. »(3) osservò il tassista.

Lo ignorò: non lo pagava per ricevere complimenti sul suo orologio, ma per arrivare in fretta a destinazione. Inoltre, quell'improvvisa affermazione lo aveva distolto dall'osservare la lancetta dei secondi che, di conseguenza, aveva avuto modo di muoversi più velocemente.

« Donc… Qu'est-ce qui vous amène à Paris, Monsieur? » incalzò l'uomo, incurante del fatto che il suo passeggero non avesse alcuna intenzione di intrattenere alcun tipo di conversazione. « Travail, amour? » (4) aggiunse con un tono allegro, dimentico della destinazione che gli era stata richiesta.

« Mio padre è morto. » gli rispose, atono, senza staccare gli occhi dall'orologio.

Il tassista da quel momento in poi non proferì più parola. Che avesse capito o meno poco gli importava, dopotutto non erano affari che lo riguardavano, ciò che contava adesso era fermare quell'impietosa lancetta e fare in modo di arrivare il prima possibile per recuperare il tempo perso.

Sorrise amaramente per quell'ultimo pensiero perché, per quanto tentasse di negarlo, era cosciente del fatto che non fosse possibile. Non più.

Forse avrebbe potuto recuperare in parte il ritardo, ma non il tempo. Le lancette avevano compiuto troppe volte un giro completo su quel quadrante dall'ultima volta che aveva visto suo padre, i giorni erano diventati mesi e i mesi, anni.

Quando aveva saputo della sua malattia il suo subconscio aveva rifiutato categoricamente la possibilità che lui morisse: dopotutto è nella natura dei figli credere – sperare – che i genitori siano eterni.

Erano bastate poche settimane per constatare quanto il suo subconscio si sbagliasse e quanto il suo amato tempo fosse stato tiranno tanto da non dargli la possibilità neanche di dirgli addio. Si era sentito vittima di un duplice tradimento e aveva iniziato a provare una strana irrequietezza che era poi tramutata in smania e, infine, in nevrosi. Il rimpianto aveva minato il suo perfetto equilibrio, la sua perfetta esistenza, inculcando in lui un concetto che fino a quel momento aveva ignorato e che, adesso, sembrava aver iniziato a perseguitarlo: essere in ritardo.

E così aveva continuato a osservare ossessivamente la lancetta dei secondi come se il suo sguardo avesse potuto davvero rallentarne l'avanzata o convincerla a fermarsi o, addirittura, tornare indietro, perché era in ritardo, dannazione, e non di un paio d'ore, ma di otto anni.

Anni in cui sarebbe potuto andare a trovare i suoi genitori e suo fratello almeno durante le festività, in cui avrebbe potuto tendere una mano verso suo padre e riappacificarsi con lui.

Troppo tardi.


« Nous sommes arrivés, Monsieur. »(5)gli comunicò il tassista, due ore dopo – come previsto – indicandogli con un dito l'antica struttura ospedaliera.

Respirò profondamente per trovare la forza di scendere da quel taxi come se al di fuori di quella macchina vi fosse stato un baratro.

« Vous sentez vous bien? »(6) gli chiese l'uomo, mostrandosi nuovamente cortese nei suoi confronti.

Annuì debolmente, riponendo l'orologio nella tasca della giacca e tirando fuori il portafoglio.

L'ultima domanda posta dal tassista gli fece guadagnare una ragionevole mancia: in quelle ore era stato talmente impegnato a non arrivare in ritardo da non aver avuto modo di capire come si sentisse davvero.

Ovviamente, a quell'uomo, aveva mentito: non stava bene affatto, anzi provava l'irrefrenabile desiderio di ritornare sui suoi passi, prendere il primo aereo e tornare alla sua vita.

« Je suis vraiment désolé pou votre perte. »(7) gli disse l'uomo, mentre gli consegnava il bagaglio a mano, dandogli conferma del fatto che avesse compreso le sue parole.

Annuì ancora, come ringraziamento, e si diresse verso l'ingresso dell'Ospedale.

Attraversò i rigogliosi giardini antistanti la struttura che per la loro bellezza stonavano alquanto in quel contesto: sarebbero stati più consoni per un museo, per una villa, non per un luogo di sofferenza.

Suo padre si era aggiudicato una camera ardente in quel prestigioso Ospedale a causa della posizione che aveva ricoperto a Parigi in quegli anni. Aveva insegnato, per circa trent'anni, letteratura straniera alla Sorbonne, mentre negli ultimi cinque aveva ricoperto il ruolo di rettore alla Sorbonne Nouvelle III, svolgendo anche il ruolo di mecenate. Inutile dire che fosse un uomo molto amato e stimato da tutti… Già, da tutti … ma non da lui. Il loro rapporto era sempre stato conflittuale, non si era mai sentito davvero capito da suo padre, tanto che dopo la laurea aveva deciso di lasciare Parigi per non consentirgli più di intromettersi nella sua vita. Suo padre era rimasto molto deluso dal fatto che nessuno dei suoi figli avesse deciso di seguire le sue orme: suo fratello si era laureato in giurisprudenza e si era dedicato anima e corpo alla difesa dei diritti umani, mentre lui – e l'onta, se possibile, era stata anche superiore – aveva scelto un percorso scientifico, in netta contrapposizione al suo, prendendo una laurea in fisica. Gli anni dell'università erano stati per lui e suo fratello un vero incubo, date le continue pressioni e l'evidente insoddisfazione del loro padre.


Seguì l'indicazione per l'obitorio, ritrovandosi in un corridoio pervaso da un'innaturale silenzio. Una decina di porte, semi chiuse, si susseguivano sul lato sinistro, mentre sul destro enormi finestre si stagliavano verso il soffitto, decorato con affreschi che, come minimo, risalivano al 1700. La costruzione della struttura originale risaliva, infatti, all'epoca di Luigi XIV e, malgrado fosse stata ristrutturata più volte, aveva mantenuto le medesime caratteristiche architettoniche e soprattutto aveva conservato il suo patrimonio artistico. Affreschi raffiguranti le molteplici sofferenze che l'uomo era costretto a sopportare nel corso della sua vita si alternavano ad altri a sfondo religioso, mentre l'intensa luce del sole che filtrava attraverso le finestre, illuminava quel corridoio deserto in un modo quasi surreale.

Non aveva idea di quale fosse la stanza in cui era stato deposto suo padre e continuò a camminare, udendo l'eco dei suoi passi riverberare su quei muri alti, fino a che non sentì pronunciare il suo nome. Si voltò all'indietro, realizzando di aver percorso quasi tutto il corridoio e che alla sua sinistra erano rimaste solo due porte: la penultima era più alta rispetto alle altre, mentre l'ultima era troppo piccola perché qualcuno potesse entrarci a meno che non fosse stato in grado di rimpicciolirsi. Ipotizzò che si trattasse di uno sgabuzzino e tentò di aprire l'altra che, tuttavia, risultò chiusa.

L'idea di entrare in ogni porta non era da prendere neanche in considerazione e decise, quindi, di mandare un messaggio a suo fratello che, certamente, doveva essere lì.

Qualche secondo dopo sentì scattare la serratura della grande porta e vide comparire suo fratello.

« Sasuke, finalmente! » esclamò, abbracciandolo con forza.

Pur non avendo apprezzato quel ' finalmente ' che di sicuro non era riferito al ritardo, ma al fatto che non si vedevano da parecchio tempo, Sasuke contraccambiò, impacciato, l'abbraccio.

« Itachi. » sussurrò, sorridendo appena.

« Vieni. » lo invitò a entrare il fratello « Mamma sarà sollevata di vederti. » aggiunse, sottovoce.

La stanza era illuminata solo da due candelabri di ottone posti ai lati della pregiata bara di mogano, rendendo l'immagine della salma di suo padre più macabra di quanto già non fosse.

Sua madre, fasciata da un tajlleur nero, era seduta immobile su una sedia di legno al fianco del marito.

« Perché avete chiuso la porta? » bisbigliò Sasuke al fratello.

« Mamma non vuole estranei. » gli rispose « Anche i funerali saranno a porte chiuse. » lo informò subito dopo, lasciandolo un po' perplesso: dopo una vita in cui i suoi genitori avevano vissuto a Parigi, intrattenendo rapporti di amicizia anche con personaggi appartenenti alla classe politica, al mondo dello spettacolo e dell'arte, trovava abbastanza insolita la scelta di sua madre. In vero si sarebbe aspettato un funerale in pompa magna, ma quella notizia in qualche modo gli fece provare una sorta di sollievo.

« Dopo ti spiego. » aggiunse Itachi, invitandolo poi, con un gesto della mano, ad avvicinarsi alla salma.

Sasuke indugiò appena: non era molto sicuro di essere pronto per vedere il corpo senza vita di suo padre. L'ultima volta che aveva visto una persona morta era stato al funerale di suo nonno: era molto piccolo allora e il trauma era stato così forte che, a tutt'oggi, continuava a rivedere quell'immagine nei suoi sogni.

« Sasuke » lo chiamò sua madre, alzandosi dalla sedia per abbracciarlo « Bambino mio, che bello rivederti! » esclamò mentre lo stringeva forte a sé, creando in lui un forte senso di disagio: punto primo, non era più un bambino; punto secondo, non amava essere toccato.

« Ciao mamma, anche io sono contento di rivederti. »

« Hai visto? » continuò la madre, dopo essersi staccata da lui « Alla fine ci ha lasciati. »

Sasuke non riuscì a percepire nel tono della madre quella nota di naturale dispiacere che ogni moglie avrebbe provato in una simile situazione, piuttosto la sua era sembrata una semplice constatazione. Se in quella stanza vi fossero state altre persone quel contegno sarebbe stato anche opportuno, da sua madre, ma essendoci solo loro non riusciva proprio a comprenderlo.

« Già. » annuì lui che, dopo aver sconfitto la paura, decise di sporgersi sulla bara.

Notò che, anche da morto, suo padre fosse straordinariamente perfetto: il rigor mortis non aveva intaccato per nulla l'espressione tipica del suo viso; un'espressione dura, altera… boriosa, aggiunse il suo subconscio.

« È morto serenamente? » sentì di chiedere alla madre.

« Tuo padre non conosceva il significato di serenità. » gli rispose lei con una punta di acredine nella voce.

Sasuke lasciò correre, preferì non approfondire, attribuendo il suo strano comportamento allo shock della perdita. Si concentrò piuttosto su suo padre che con le mani giunte sul petto, stava lì, immobile, ad ascoltarli e, per una volta, in silenzio.



Il funerale si svolse presso la chiesa di Saint-Pierre-de-Montmartre, rigorosamente chiusa al pubblico, come da richiesta di sua madre. Mikoto Uchiha aveva scelto quella chiesa per la vicinanza al loro appartamento in modo tale che se qualcuno avesse scoperto dove si teneva la funzione, avrebbe potuto facilmente defilarsi. Sasuke non riusciva a comprendere per quale motivo sua madre fosse così ossessionata dalla possibilità che qualcuno potesse prendere parte al funerale. Suo fratello la sera prima gli aveva spiegato che quella era stata una delle ultime volontà del padre, ma non se l'era bevuta.

Avevano aspettato in Chiesa l'arrivo del feretro e, appena gli addetti del servizio funebre l'avevano posizionato ai piedi dell'altare, due chierichetti avevano sigillato i tre portali di bronzo dall'interno.

Sasuke fu colto da una spiacevole sensazione di claustrofobia: era imprigionato in una fredda e silenziosa Chiesa in stile gotico, le cui navate alte e spoglie incutevano di per sé una certa soggezione; la bara di suo padre era aperta e un flebile raggio di luce, che penetrava dalle finestre ornate dalle vetrate policrome, puntava proprio sul suo viso. Quella situazione, quel luogo, tutto rimandava a qualcosa di onirico, irreale e Sasuke sperò quasi che si trattasse davvero di un sogno e che potesse risvegliarsi in fretta.

Lo stridio assordante dell'organo lo riportò bruscamente alla realtà.

Un vecchio sacerdote, con indosso il paramento viola, fece il suo ingresso pochi minuti dopo, posizionandosi dietro l'altare.

« In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. »

« Amen. » risposero all'unisono i tre congiunti, mentre dal lato destro dell'altare si propagava un rumore sordo, prodotto dalla porta di legno che collegava la Chiesa alla stanza privata del parroco. Tutti e tre lanciarono uno sguardo in quella direzione, vedendo comparire una ragazza, fasciata in un tubino nero, forse un po' troppo corto per l'occasione, con un cappello nero,a tesa larga, sulla testa e un paio di occhiali da sole, anch'essi neri, con le lenti talmente grandi da coprire buona parte del viso.

« Che cosa ci fa lei qui? Come ha fatto a sapere dove eravamo? » ringhiò Mikoto, a bassa voce, rivolgendosi al figlio maggiore che si era posizionato in mezzo a loro.

« Non ne ho idea. » le rispose Itachi, sempre a bassa voce, facendo spallucce.

Sasuke aggrottò la fronte, perplesso: chi era quella ragazza? Perché sua madre si era agitata così tanto nel vederla?

« Che succede? » sussurrò all'orecchio del fratello.

« Nulla… dopo ti spiego. » gli rispose, evasivo.

Sasuke lanciò un altro sguardo in direzione della ragazza che, procedendo alla svelta in punta di piedi, si era spostata dietro una delle maestose colonne in marmo. La vide abbassarsi, con imbarazzo, l'orlo del vestito che, a causa della breve corsa, si era ulteriormente accorciato e, forse a causa del suo sguardo, nascondersi meglio dietro la colonna.

Sasuke tornò a seguire controvoglia la funzione: quella intrusione imprevista lo aveva incuriosito parecchio e più volte si ritrovò a provare la tentazione di volgere ancora lo sguardo in direzione della ragazza.

Poco prima che il sacerdote pronunciasse l'ite missa est, si voltarono di nuovo tutti e tre in direzione della medesima porta, attraverso la quale, questa volta, la ragazza si era defilata.

Seguirono il feretro con la macchina di Itachi fino al Cimitero di Montmartre dove assistettero in silenzio alla tumulazione. Nessuno dei tre versò una lacrima: lui perché non ne era fisicamente in grado, Itachi per contegno – dopotutto era il fratello maggiore – e la madre…

Perché sua madre non aveva pianto?

Uscendo dal cimitero, vide di sfuggita una tesa nera sfrecciare tra le lapidi: di nuovo quella ragazza.

« Chi era quella donna? » chiese a suo fratello e a sua madre, una volta saliti in macchina.

« Quale donna? » replicò Itachi, fingendo di non capire, mentre sua madre volgeva lo sguardo fuori dal finestrino.

« Mi state nascondendo qualcosa? » insinuò Sasuke che ormai era quasi certo che fosse così, ottenendo come risposta un imbarazzante silenzio.

« Mamma, cosa sta succedendo? » incalzò, quindi, stufo della loro reticenza.

« Non sta succedendo niente, Sasuke. Quella ragazza… » tentò di spiegargli Itachi che si era preparato per quell'evenienza una bugia plausibile.

« Era l'amante di tuo padre. » lo interruppe la madre, con un tono piatto, quasi rassegnato.

« Non ne hai la certezza, mamma. » la rimproverò il figlio maggiore, che a quella storia non ci aveva mai creduto più di tanto.

Itachi, a quel punto, spiegò a Sasuke quanto era accaduto. Dopo che la malattia aveva costretto il padre a letto, lui e la madre avevano preso a occuparsi di tutte quelle mansioni che, di solito, erano imputate a lui, compresa la gestione dei conti correnti e dei risparmi. Avevano scoperto così che il padre era intestatario di ben tre conti correnti e che, uno di questi, intestato non personalmente a lui ma a una specie di associazione culturale, conteneva a una cospicua somma di denaro , di cui ovviamente ignoravano l'esistenza, e che lo stesso veniva costantemente depauperato a favore di un unico beneficiario: Sakura Haruno.

Sakura Haruno, ripeté Sasuke come un mantra nella sua testa, cercando di memorizzare quel nome.

La ragazza non solo riceveva una cospicua '' paghetta '' mensile, ma alloggiava in un appartamento pagato sempre dal medesimo conto corrente.

In pratica era quella che a Parigi si soleva chiamare una '' connasse ''.(8)










Note:




  1. « Bonjour Monsieur, où aller? » ( Buongiorno, signore, dove andiamo?)

    « À l'Hôpital Universitaire Pitié – Salpêtriere, s'il vous plâit. » (All'Ospedale Universitario Pitié – Salpêtriere, per favore)

  2. « Vite. » (In fretta)

    « Bien sûr, Monsieur. » (Certamente)

  3. « C'est une belle montre vraiment. » (È un davvero un bell'orologio)

  4. « Donc… Qu'est-ce qui vous amène à Paris, Monsieur? » (Allora, cosa la porta a Parigi, signore?)

    « Travail, amour? » (Lavoro, amore?)

  5. « Nous sommes arrivés, Monsieur. » (Siamo arrivati, signore.)

  6. « Vous sentez vous bien? » ( Vi sentite bene? )

  7. « Je suis vraiment désolé pou votre perte. » (Sono veramente desolato per la vostra perdita.)

  8. Connasse: letteralmente una '' poco di buono ''.




   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: Blueorchid31