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Autore: Ria-chan    11/04/2016    0 recensioni
Mario ha sempre adorato quell’originale titolo del bar infondo alla strada. Non ne ha mai capito appieno il significato ed ha sempre pensato che 19 minuti per fare colazione, fossero davvero troppi. Lo ha pensato finché, in soli 10 minuti, la sua vita non è cambiata radicalmente. E solo allora ha capito davvero: la vita può cambiare in pochi minuti e si, forse 19 minuti sono ancora troppi in ogni caso. Si siede ancora una volta nel bar, dimentico della sua vita e immagina invece quella dei clienti che affollano il bar.
3 storie che Mario inventa su altrettante persone. Le osserva e si chiede: “ quanti minuti sono serviti loro perché la vita cambiasse radicalmente?”
Genere: Generale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Nickname autore sul forum e su Efp : Ria-chan
- Titolo: Il Bar “19 minutes”
- Genere. Generale, Slice of life
- Avvertimenti. 
- Pacchetto scelto. N° 4 canzoni:
Kaisier Chief, I predict a riot.
Sum 41, Walking disaster.
One Republic, All the right moves.
Sigur Ròs, Hoppipolla.
The Hoosiers, Choices.
- Introduzione. Mario ha sempre adorato quell’originale titolo del bar infondo alla strada. Non ne ha mai capito appieno il significato ed ha sempre pensato che 19 minuti per fare colazione, fossero davvero troppi. Lo ha pensato finché, in soli 10 minuti, la sua vita non è cambiata radicalmente. E solo allora ha capito davvero:  la vita può cambiare in pochi minuti e si, forse 19 minuti sono ancora troppi in ogni caso. Si siede ancora una volta nel bar, dimentico della sua vita e immagina invece quella dei clienti che affollano il bar.
3 storie che Mario inventa su altrettante persone. Le osserva e si chiede: “ quanti minuti sono serviti loro perché la vita cambiasse radicalmente?”
- Varie ed eventuali. La raccolta comprende 1 prologo, 3 mini-storie autoconclusive, legate però, da una trama d’insieme e ovviamente 1 epilogo.
- Note
(1) Kaisier Chief, I predict a riot.
(2) Sigur Ròs, Hoppipolla
(3) One Republic, All the right moves.
(4) Sum 41, Walking disaster.
(5) The Hoosiers, Choices.
 
 

Il  Bar "19 minutes”

1. Ten minutes to live

“19 minuti eh?”
Ci entrava spesso in quel bar, Mario.
Tra tutti quelli della zona, oltre che il più vicino al suo appartamento, era anche quello che preferiva da sempre, poiché all’interno regnava una piacevole atmosfera di calma e tranquillità e di certo:
“Vedere la gente che si ubriaca e fa casino non è propriamente bello” (1).
Si era sempre stupito di come, catturata da quel nome insolito per un bar, la gente se ne stesse seduta ai tavolini mangiando con estrema calma e lentezza; era qualcosa di decisamente insolito, conoscendo la frenesia del mondo appena fuori quel piccolo edificio.
E comunque, continuava a stupirsene anche ora, dopo 6 anni, di come la gente prendesse davvero alla lettera quel “19 minuti”. In effetti.. c’era stato un tempo, in cui perfino lui aveva pensato alla più banale delle risposte
“19 minuti per fare colazione o prendere un caffè…ottimo, in questo bar posso mettere casa!”
Ci pensava sempre ridendoci un po’ su e, ad essere sinceri, più che divertirlo davvero, lo riteneva un piccolo miracolo. Ne aveva bisogno. Ne aveva bisogno davvero, di allungare il più possibile una semplice azione giornaliera, tanto per non lasciare che la vita volasse via, che passasse come un treno tanto veloce da non vederne nemmeno i passeggeri attraverso i finestrini.
Se ne stava lì seduto, al tavolo solito, accanto alla vetrata che dava sulla strada, osservando la gente passare. Ne scrutava i volti, gli abiti, le espressioni e per ognuno immaginava una storia. Una storia fatta di pochi minuti ciascuno poiché, lui, ne aveva solo 19 a disposizione. 19 da trascorrere lì dentro, sia chiaro, perché da vivere gli restava ancora molto, molto, tempo.
“19 minuti eh?....magari anche meno..”
Ora che ci pensava non aveva mai chiesto al proprietario il perché di quel nome tanto originale: semplicemente perché pensava fosse banale quanto quello che lui e tutti i frequentanti immaginassero.
Lo aveva capito solo da poco, che magari potesse nascondere un significato più profondo. Ci aveva pensato quando, in  soli 10 minuti, il suo medico di fiducia gli aveva diagnosticato un cancro.
Non ne servivano 19 a quanto pare, ne bastavano ancora meno, per cambiare una vita.
Non sapeva quanto ancora avrebbe vissuto, Mario. Forse qualche giorno, un mese, due o forse tre; ma quello che ormai gli era chiaro e che la vita può cambiare in pochi minuti ma, non per questo, lui avrebbe rinunciato a godersi il tempo che gli restava.
Dopo la tragica notizia, appresa nel modo più “normale”, semplice: poche parole concrete da parte del medico e un’infinità di scuse…di cosa si scusasse poi, non riusciva a capirlo davvero. Certo non era colpa di nessuno se quello era il suo destino: non lo era né sua, né del medico, né di Dio. Semplicemente quei pochi minuti, riservati ad ognuno per trasformare la propria vita, erano toccati a lui in quel momento, in quel modo e attraverso quella persona. Tutto qui.
Dopo la tragica notizia comunque, aveva deciso di recarsi in quel solito bar. Un motivo in particolare.. no, non c’era. Voleva solo starsene in tranquillità, ad immaginare le vite altrui, a godersi la familiarità di quel posto e.. ad immaginare che 10 minuti della sua vita, 10 in particolare, non fossero mai trascorsi.
Dopo 6 anni ancora sceglieva lo stesso tavolino accanto alla finestra Mario, e con passo incerto ci si dirigeva incontro salutando prima, con un gesto silenzioso del capo, il proprietario che aveva ormai imparato a conoscere.
Si accomodava lentamente, posizionandosi comodamente sulla sedia in metallo grigio resa più confortevole da un cuscino bianco. Si voltò poi verso la vetrata solita, gettandovi lo sguardo oltre: sulla strada. La frenesia della gente non si sarebbe mai stata fermata, si disse Marco, neanche se il mondo stesso fermasse la sua rotazione. La gente sembra sempre non avere tempo: non avere tempo per fermarsi ad aiutare qualcuno, non averne per telefonare ad un amico, non averne neanche per concedersi un attimo di felicità. Per cosa vive la gente, se non riesce mai a fermarsi a vivere davvero?
Ad essere sinceri, neanche lui si era mai soffermato su questi pensieri in passato ed anzi, a dire il vero, neanche lo avrebbe mai fatto, in tutta probabilità, se la sua vita non fosse cambiata. In quell’attimo che se anche fosse durato ore sarebbe rimasto un solo, lungo, attimo nella sua mente, si era dato una risposta consolatoria ma decisamente ironica.
Sorrise stanco e sollevato, provato e leggero, sorrise per non piangere, sorrise perchè alla vita è meglio donare un sorriso che una lacrima:
“pochi minuti. La gente non vive davvero che per pochi minuti. Trascura la vita finché, questa, non cambia radicalmente. Questione di qualche attimo. Eppure…eppure solo così ci accorgiamo di quanto tempo abbiamo già perso.”
Preso per un attimo dai suoi pensieri, dimentico della gente che passava all’esterno del locale, tornò a voltarsi verso l’interno: verso il bancone, i tavoli e i pochi clienti che a quell’ora del giorno affollavano i tavoli.
Li osservò ad uno ad uno. Voleva dimenticarsi di sé per un po’, osservare la vita dall’esterno.
Un anziano, un ragazzo con un dipinto, una coppia e un uomo con un violino.
Chissà quando, e in quanto tempo, la vita di quell’anziano, era cambiata….
 
ATTENZIONE: a partire da questa, e per le altre 3 storie che seguiranno, porrò in corsivo i pensieri di Mario così da facilitare la comprensione.

2. Eleven minutes for happiness
e mi viene sangue dal naso
ma io sono sempre preparato (2)
 
Lo osservò per un po’, senza fissarlo con insistenza per non invadere la sua privacy:
quell’uomo doveva avere forse una ottantina di anni. Era magro, smilzo, i capelli grigi ma non ancora del tutto bianchi tirati indietro, la pelle leggermente abbronzata, gli occhi piccoli, neri come tizzoni ardenti appena spenti ma che ancora conservano il loro calore e il naso fino e dritto.
Cercò di immaginare quell’uomo che vita potesse aver vissuto, quali storie nascondeva, quante volte il suo cuore avesse battuto in preda all’emozione.
Notò poi sotto il naso qualche crosticina di sangue, normale forse a quell’età in cui la pelle è particolarmente sensibile ed i capillari tendono a rompersi con più facilità, eppure…non era questa “normalità” che Mario immaginava per quell’anziano signore. Avrebbe trasformato quel particolare in un segno di vita e da lì iniziò a raccontare a sé stesso….
Il signor Domenico, fu quello il nome che scelse per l’anziano signore, doveva aver passato un fine settimana intenso e stancate. Ne erano un chiaro segno le pesanti occhiaie scure, profonde come solchi e trincee di guerra. Era ovvio insomma che avesse avuto dei giorni difficili. Difficili?....forse no, non erano stati poi così difficili se, sulle sue labbra, si allargava quel sorriso caldo e felice. Non era vistoso, non era un sorriso accentuato, soddisfatto, pieno; era più che altro un sorriso timido, accennato, lucente come il primo raggio di sole al mattino, nascosto, malinconico eppure tremendamente sereno. Un sorriso che, solo quando sei più vicino alla morte che alla vita, puoi permetterti di fare.
Solo due giorni prima, il signor Domenico aveva perso uno degli amici più cari, uno di quegli amici che porti con te per tutta la vita. Lo aveva visto morire sotto ai suoi occhi durante una partita a carte, cadere come un soldato in guerra, colpito al cuore da un proiettile.
Nonostante l’età, essendo ormai entrambi vedovi, erano soliti riunirsi il sabato sera per poter godere l’uno della compagnia dell’altro. Giocavano a carte rivangando i vecchi tempi, quei tempi in cui le ossa e i corpi permettevano loro di vivere la vita e non attendere passivamente la morte. Ricordavano il gruppo di amici che avevano messo su quando ancora erano ragazzi e di come, una volta sposatisi tutti, i rapporti, i legami, quei fili che li univano gli uni agli altri, si erano rotti. Ognuno aveva creato la proprio famiglia, ognuno aveva altro a cui badare. Pensieri, lavoro, preoccupazioni, c’era troppo da fare per potersi fermare a trascorrere una serata insieme o telefonarsi per avere notizie. Semplicemente la vita era scorsa per ognuno in direzioni diverse e non c’erano più piazze lungo il cammino in cui poter sostare e riunirsi nuovamente.
Quella sera, quella sfortunata sera, il signor Domenico aveva perso anche l’ultimo suo amico.
Lo aveva visto piegarsi sul tavolo in mogano con una mano premuta sul petto all’altezza del cuore, con l’espressione sfigurata da un ghigno di dolore e con gli occhi socchiusi. Gli si era precipitato accanto, il signor Domenico, accarezzandogli per un frammento di secondo la schiena prima di correre al telefono più vicino e chiamare l’ambulanza.
Lo aveva stretto a sé, tenendogli la testa poggiata sul braccio ossuto e controllando il respiro che piano piano si era affievolito sempre di più. Lo aveva stretto pregando che la vita non gli portasse via anche quell’ultimo appiglio, quell’ultimo affetto.
Quando arrivò l’ambulanza, purtroppo, era già troppo tardi. Il respiro, così come il motore pompa-sangue che teneva in funzione quel corpo, si era ormai spento.
11 minuti. Ci erano voluti solo 11 minuti perché la sua vita, benché quasi al termine, cambiasse nuovamente. 11 minuti per perdere l’amicizia, 11 minuti per ritrovarsi nuovamente soli, 11 minuti per rassegnarsi: la vita, anche per lui, stava giungendo al termine.
Quella sera rimase solo. Solo con i suoi pensieri, il suo dolore, i suoi fantasmi e le sue ombre.
Non aveva avuto figli, il signor Domenico. Purtroppo, la vita, gli aveva negato anche questa gioia immensa. Ma questo, a dispetto di quanto possa credersi, non lo aveva mai abbattuto realmente anzi, quando poteva, si recava gioioso all’orfanotrofio vicino per dedicare attenzioni ai poveri orfanelli che non trovavano casa. Era una persona estremamente ottimista e buona, il signor Domenico, eppure la vita non guarda in faccia a nessuno e, dopo più di settantacinque anni di vita questo lo aveva capito bene.
Riuscì ad addormentarsi per qualche breve istante solo quando, facendo capolino dalle persiane leggermente inclinate, il sole si stava già svegliando e alzando nel cielo. Quella mattina erano previsti i funerali del suo amico e lui, nonostante la stanchezza, non poteva di certo mancare.
Del resto non sarebbe mancato per nulla al mondo anche se, ad essere sinceri, non aveva mai ritenuto necessario recarsi al cimitero per parlare con una persona cara defunta. Pensava di averle sempre tutte accanto a sé, le persone importanti della sua vita che lo avevano, temporaneamente, abbandonato e per questo parlava loro liberamente, ovunque si trovasse, anche se rischiava di essere etichettato come “pazzo”.
Ma, comunque, quella volta non poteva mancare. Semplicemente non poteva, punto.
Non si preoccupò di indossare un abito elegante o scuro, semplicemente andò vestito come gli era solito: un maglione scuro e un pantalone classico in pesante stoffa marrone. Era sicuro che avrebbe preferito così, il suo amico: confidenza e non formalità.
Aveva assistito a tutta la funzione un po’ in disparte, all’ombra di un albero poco distante dalla lapide e dal resto dei partecipanti a quello spartano funerale.
Se n’era restato pensieroso e afflitto finché, vicino al suo mocassino in pelle nera, non era rotolata una pallina colorata, una di quelle di plastica per cui i bambini vanno letteralmente matti.
Si calò piano per raccoglierla ma, l’età e la fragilità del suo corpo, gli impedirono di afferrarla avvertendolo dello sforzo eccessivo con grossi goccioloni di sangue che piovevano giù dal setto nasale.
Veloce si rialzò tornando in posizione eretta, piegando la testa all’indietro e tentando di arrestare l’epistassi, quando ai suoi piedi udì la voce gioiosa e allegra del bambino che doveva essere il proprietario della pallina
“Hey” il bimbo lo strattonò tirando i pantaloni vero il basso
“Hey, stai bene?”
“Si piccolo, non preoccupar-“
Non ebbe modo di finire la frase che la madre era accorsa pronta ad recuperare il bambino, ma prima ancora ad aiutarlo offrendogli un fazzoletto e sincere parole di ringraziamento e scuse.
Trascorsero l’intero pomeriggio insieme.
Per qualche strano scherzo del destino il bimbo, Luca, non voleva staccarsi dall’anziano signore il quale non aveva perso occasione di giocare con lui e dedicargli tutte le attenzioni e l’amore che possedeva.
“Lei ci sa proprio fare con i bambini! E’ un peccato dover andare via ma si è fatto davvero tardi”
“La capisco, non si preoccupi. E’ ora che torni a casa anche io.”
La mamma faticò non poco a staccare Luca che, artigliato al pantalone del signor Domenico, non voleva saperne di lasciare la presa. Quando infine vi riuscì, osservò l’anziano allontanarsi di spalle.
Un’andatura stanca, provata, lenta ma non per questo triste, anzi…
Le venne spontaneo, corrergli incontro, fermarlo:
“La pre-la prego aspetti! Sa, io sono una mamma single e ho perso i genitori quando ero molto giovane. Luca..”
La donna abbassò la testa, visibilmente imbarazzata, ma riprese a parlare facendosi forza
“Luca non ha mai avuto dei nonni e.. e sembra che lei gli piaccia molto, le andrebbe di …di venirci a trovare qualche volta?”
Sputò tutto di getto, come se avesse paura che le parole potessero morirle in gola e una volta terminato di parlare, quasi si voltò di scatto per evitare di vedere l’espressione, probabilmente infastidita, che il signor Domenico immaginava avesse fatto.
“Con piacere! Con estremo piacere”
La voce sembrava tremante e, effettivamente, lo era.
Quando alzò la testa, la signora, vide piccole e luccicante lacrime rigare quel volto dalla pelle cadente e abbronzata ed allora capì, capì di aver fatto la scelta giusta.
Ahhh, che bella storia.
Probabilmente ora stava aspettando la donna e il piccolo Luca, seduto a quel tavolino, con quel sorriso leggero poggiato sul viso.
11 minuti, e la sua vita era cambiata nuovamente. Aveva perso un amico, certo, ma aveva trovato un nipote. La vita è ricca di sorprese infondo e se non avesse preso parte a quel disgraziato funerale sarebbe rimasto solo fino alla fine dei suoi giorni.
Mario guardò l’anziano un’ultima volta: aveva a disposizione solo 19 minuti e ne aveva consumati già 11.
Una bella storia, questo è certo, ma ora…andiamo avanti..
 
3. Four minutes to love
non importa quanto io ci provi
so che non troverò mai
qualcuno che amerò più di quanto amo te (3)
 
Ancora 8 minuti disponibili.
Ancora 3 storie da immaginare.
3 vite da creare e cambiare.
3 persone a cui regalare o negare la felicità.
Mario spostò lo sguardo alla sua sinistra, al tavolo rotondo su cui poggiava il gomito un giovane ragazzo dai capelli castani portati leggermente lunghi, mossi, a poggiare dietro alla nuca sulla base del collo.
Il viso delicato e femmineo e un’espressione sognante sul viso. Due occhi azzurri, come il cielo limpido d’estate,  attiravano l’attenzione su quel volto dalla pelle chiara, così contrastante con i capelli e le sopracciglia scure. Il naso fine e delicato, il mento poggiato nel palmo della mano e un quadro sulla sedia accanto a sé.
Quel quadro fu la prima cosa che Mario notò. La prima, ovviamente, dopo il volto del ragazzo in questione.
Il dipinto faceva capolino da una busta di plastica sottile, di quelle per la spesa usate nei supermercati di seconda mano e, a intravederlo da poco lontano, sembrava raffigurare un uomo.
Mario non riuscì a distinguere chiaramente se i tratti del soggetto del dipinto fossero davvero maschili o femminili, poiché solo la parte alta fuoriusciva dalla busta e dava modo di essere osservata. Ad ogni modo, dallo sguardo profondo e magnetico, immaginò che su quel quadro vi fosse raffigurato un uomo. Un uomo dallo sguardo verde rubino e questo lo vedeva chiaramente e dai capelli neri come una notte senza stelle. Mario non era omosessuale, o almeno, durante la sua vita, non aveva mai provato attrazione verso nessun uomo eppure.. eppure per un attimo fu certo che, se quell’uomo immaginario fosse stato reale, lui ne sarebbe rimasto incantato come davanti alla più belle delle dee.
Forse fu solo grazie a quel piccolo ma non irrilevante particolare che Mario iniziò ad immaginare la sua nuova storia…
“Jean..un nome adatto, mi sembra..”
Le storie iniziano sempre con un nome e Jean era quello che Mario aveva scelto per il suo protagonista. Jean.. lo pronunciò nella mente più volte e, davvero, non poteva fare a meno di trovarlo perfetto per quel ragazzino esile e dallo sguardo trasognato che occupava il tavolo alla sua sinistra.
Jean, sin da piccolo, era sempre stato un amante dell’arte:
dell’arte, della scrittura, della pittura, della fantasia, dei colori e della magia. Probabilmente tutte cose che, insieme, non significano un bel niente eppure lui stesso, nella sua persona, sembrava riunirle in un connubio perfetto. Disegnava dall’età di quattro anni e, compiuti i tredici anni, aveva deciso di frequentare un’accademia artistica per poter coltivare meglio quel suo dono. Che fosse una penna, un pennello o uno scalpello, Jean era capace di rendere la sua fantasia reale, creando stupende opere e meravigliosi dipinti.
Aveva tentato perfino di “sfondare” nel mondo della pittura e, per quasi un anno, sembrava perfino esserci riuscito; ma poi la vita non sempre prende la direzione che vorremmo e così, a causa della prematura perdita della madre, aveva dovuto abbandonare la sua passione per lavorare e guadagnarsi da vivere, specialmente ora che era solo al mondo.
Per 2 lunghi anni Jean non aveva più toccato un pennello, convinto che, se lo avesse fatto, non avrebbe mai più potuto vivere come stava facendo: si sarebbe rituffato in quel mondo colorato e sfavillante della sua fantasia e avrebbe finito col non avere più denaro, smettendo di interessarsi al lavoro, per mantenersi. Dimentico dell’arte, della fantasia, della felicità, Jean aveva vissuto isuoi ventun anni finché, un giorno, all’uscita concessa per la pausa pranzo dall’ufficio in cui lavorava, non aveva visto una locandina che pubblicizzava una mostra d’arte.
Non era certo una novità che almeno una ogni mese veniva affissa lungo quella strada e infatti, inizialmente, l’aveva fissata con poco interesse, scorrendo le lettere veloci fino all’indirizzo in cui si svolgeva la mostra in questione; ma poi, lo sguardo, era stato attratto da due smeraldi che luccicavano sul fondo della pagina.  In quel piccolo angolo, posta come anteprima, vi era l’immagine di un uomo dai capelli scuri e gli occhi color speranza.
Certo, era giovane Jean, ma a ventun anni sei abbastanza grande da non cadere innamorato di un semplice disegno eppure, in quel momento, la ragione o la realtà non contavano nulla per lui: era semplicemente estasiato, innamorato, adorante. Un lampo a ciel sereno, un raggio di sole che illumina una stanza buia, una fiaccola che si riaccende; perché si, in quel momento in lui qualcosa si era nuovamente riacceso.
Fu così forte quello che provò, per un semplice disegno, che decise di partecipare alla mostra, di cercare quel dipinto meraviglioso, per potersi beare da vicino della sua bellezza.
Non si meravigliò neanche nel notare che la mostra in sé non era molto grande e neanche i quadri particolarmente belli ma, del resto, a lui non interessava altro che quel dipinto, che aveva ribattezzato “la mia speranza”.
Quando finalmente lo trovò, dopo aver vagato per la sala un po’ sperduto, trattenne il fiato avvicinandosi piano alla parete su cui era posto.
Era davvero, la sua speranza e non solo per il colore che suggerivano gli occhi quanto più per il semplice fatto che, quel disegno, lo aveva nuovamente avvicinato al mondo dell’arte. Una speranza, appunto:
Quella di, un giorno, tornare a seguire nuovamente i suoi sogni d’artista.
Lo fissò con intensità, carezzando il viso dalla pelle leggermente scura con lo sguardo. Lo fissò esaminandone ogni tratto, ogni particolare e pennellata. Era davvero una visione sublime tanto che, nonostante fosse leggermente in ritardo per il rientro in ufficio, decise di intrattenersi altri 2 minuti a contemplare ciò che di più bello  avesse mai visto nella sua vita.
Jean era convinto di non essere gay, non che bisogna convincersene del resto: semplicemente lo si è o no e lui, comunque, non aveva mai creduto di esserlo.  Eppure, alla vista di quel volto, si era innamorato. Gli erano bastatati solo una misera manciata di minuti per innamorarsi perdutamente. Per innamorarsi come mai aveva fatto di una donna o di qualsiasi altro essere umano. Per innamorarsi.. di un disegno, certo, ma questo non importava. Sapeva di gente innamorata della propria auto, del proprio cellulare o cane o gatto che fosse, non cambiava poi tanto se lui, invece, si era innamorato di uomo di fantasia.
Si chiedeva solo se, quell’uomo, esistesse davvero. Se fosse esistito almeno, o se fosse morto, sconosciuto, famoso..
“Ti piace? Puoi prenderlo se vuoi”
“Co-cosa?”
“Il dipinto, ovvio!”
Si girò di scatto Jean, catturato e distratto da quelle parole inaspettate ed anche, in minima parte, infastidito per essere stato risvegliato dai suoi pensieri e sogni.
Si voltò verso la voce che proveniva dalle sue spalle sbuffando leggermente e aspettandosi che fosse qualcuno che aveva voglia di prenderlo in giro o, semplicemente, di infastidirlo. Socchiuse gli occhi nel voltare rapidamente il capo e, quando li riaprì, credette di essere alle porte del paradiso.
“T-tu..” indicò l’uomo alle sue spalle per poi voltarsi rapido verso il dipinto, indicarlo a sua volta e rivoltarsi nuovamente verso l’uomo alle sue spalle.
“Si” si limitò a commentare quest’ultimo, accennando un sorriso cortese.
4 minuti. Solo 2 in più rispetto a prima e il suo amore era aumentato ancora. Ora però, diversamente da prima, il suo amore era reale, fisico e possibile, dal momento che l’immagine che lo aveva rapito era esattamente davanti a lui. Certo, parlare di amore era davvero prematuro ma, quello che sentiva come un tempesta nel suo cuore, ci andava decisamente molto vicino.
Solo 4, una manciata di minuti e la sua vita cambiava. Si era innamorato. Di un uomo.
Questo voleva dire che Jean era gay? Probabile, ma cosa importava, in fin dei conti?
“Puoi prenderlo davvero se ti piace tanto. Io non riesco a conservarlo più, dal momento che mio padre lo dipinse prima di morire.”
“Quindi..” accennò timido Jean
“Sei davvero tu l’uomo del ritratto”
“Molto migliorato ma.. direi di si. A meno che mio padre non immaginasse qualcun altro mentre gli ero seduto immobile davanti”
Rise gioioso l’uomo dagli occhi speranza, una risata fresca come l’acqua sul viso d’estate, limpida come il cielo senza nuvole e cristallina come il più bello e fragile degli oggetti.
“Io-io credo che tu sia meglio. Del-del dipinto intendo”
Non poté proprio trattenere l’imbarazzo crescente Jean, visibile grazie al leggero rossore che gli aveva colorato le guance dalla pelle perlacea.
“Io sono Marco. Senti.. domani la mostra sarà finita, ti andrebbe di prendere un caffè insieme non appena sarò libero?”
“Io, cioè, ecco.. non so se.. si. A-a domani allora”
Rispondendo con un nuovo sorriso Marco si stava già allontanando, camminando però, leggermente voltato verso di lui per salutarlo con la mano
“Prendilo, davvero, sarei molto più felice se stesse con te.”
“Lo farò. E comunque io sono Jean!”
Jean urlò quella risposta a voce davvero troppo sostenuta per un luogo di pace e silenzio come lo era una mostra e, infatti, subito si vergognò nuovamente constatando però che mai, fino a quel giorno, si era sentito tanto felice.
“A presto allora. Jean!”
“Che stia aspettando davvero quel ragazzo allora?”
Sarebbe stato davvero meraviglioso se così fosse stato davvero e al pensiero, Mario sorrise intenerito.
4, solo 4 minuti per cambiare e la vita.
 2 minuti davanti ad un dipinto e 2 davanti ad un uomo, per scoprire il vero “sé stesso” e ritrovare la felicità.
“Spero tu sia fortunato, ragazzo.”
 
4. Three minutes for freedom

Non sono stato a casa per un pò di tempo
sono sicuro che tutto è rimasto uguale
mamma e papà entrambi si ripudiano
un figlio unico da incolpare
mi spiace, mamma, ma non mi manchi
non tornerei a casa per niente al mondo..
non sai quello che sono diventato..(4)
 
Il tempo passava davvero velocemente quando si era intenti a “vivere” la vita degli altri e Mario se ne rendeva conto: presto sarebbe dovuto tornare alla sua, di vita, affrontando un destino che non si era scelto ma che la vita, appunto, aveva scelto per lui.
“Non mi resta  molto tempo”  sorrise piano al pronunciarla:
una frase abbastanza pesate considerata la sua doppia valenza.
Era vero che all’interno del locale, secondo l’ insegna, si sarebbe dovuto intrattenere per soli 19 minuti ed ora quindi gliene restavano solo 4, ma era anche vero che nella vita gliene rimanevano pochi di più. Non proprio pochissimi, questo era chiaro, ma comunque, veloci come erano passati quei 15 minuti, così sarebbero passati anche 1 o 2 mesi.
Si decise ad abbandonare Jean per spostare lo sguardo su un tavolino poco più centrale, addossato alla parete opposta alla sua. Un uomo, sulla trentina, vi era comodamente appoggiato sopra. Il volto stanco, provato e le palpebre chiuse, segno che forse stava tentando di riacquistare un minimo di energie o di riposo. Era steso con la testa a poggiare sul braccio e respirava profondamente: sotto di lui un foglio bianco ed una penna.
A ben vederlo, quel foglio bianco era sembrato a Mario un pentagramma e, dalla custodia nera posta in terra tra i piedi dell’uomo, il pensiero del pentagramma sembrava più che plausibile.
Non era molto grande, quella custodia nera: questo escludeva quindi che potesse essere una chitarra o qualcosa di ancora più grande ma, forse, poteva trattarsi di un violino. La grandezza sembrava proprio adatta e, Mario, trovava l’idea davvero poetica e magica:
“Un violino eh? Potrebbe funzionare..”
Ovviamente, tutto ciò che raccontava nella sua mente rimaneva mera fantasia e immaginazione, ma aveva ragione Mario a sostenere che i clienti che affollavano quel giorno il bar fossero ognuno, a proprio modo, un po’ speciali. Magari, e più probabilmente di sicuro, le loro vite non erano affatto come lui le stava sognando eppure, in qualche modo, non riusciva a vedere per loro altra vita se non quella che gli aveva attribuito.
“violino…strada…vediamo un po’ che si può fare.”
Thomas,  non che ci volesse molta immaginazione, ma doveva essere un musicista. Almeno questo è quello che Mario aveva scelto per lui e, al momento, Mario era l’unico Dio creatore e compositore di quella storia. Spettava a lui dettare le regole, insomma  il suo volere, come per ogni scrittore o narratore, era assoluto.
Quindi, Thomas, suonava il violino.
Una passione nata un po’ per caso, tramandata dalla nonna che, quando era piccolo, era solita suonare il violino per farlo addormentare, per farlo tranquillizzare o solo perché era lui a chiederglielo quando aveva bisogno di sentire quelle note melodiose.
Cresciuto in una famiglia con non pochi problemi, la nonna era la sola che era riuscita a conquistare il suo affetto e la sua stima. Voleva un bene totale e sincero a quella donna che, almeno fino all’età di 16 anni, lo aveva sempre accolto a braccia aperte quando fuggiva di casa per scappare ai litighi soliti e continui dei genitori. Aveva creduto che lei sarebbe stata lì per sempre, pronta a tirarlo fuori dall’inferno che quella casa sembrava rappresentare ma, purtroppo, nessuno è immortale e, quando un giorno era andato a casa sua per farle visita, l’aveva trovata a terra, morta. I genitori, sua madre in particolare, non gli erano mai stati vicino quando aveva dovuto superare quel momento difficile, quella scomparsa così tragica, quell’unico appiglio di salvezza. Semplicemente troppo presi a litigare tra loro, ad accusare un figlio che sembrava non volerne sapere di crescere quanto prima e “togliersi dai piedi”, avevano finito per ritenerlo un peso, un estraneo da accudire finché la legge non avrebbe permesso loro di liberarsene.
Ma Thomas non fece mai arrivare quel giorno.
Resistette per un anno, chiuso in quelle mura di fuoco e fiamme e poi, quando il suo cuore era diventato cenere, non aveva retto più. L’età della maturità, comunque, era ormai prossima e sapendo bene che presto avrebbe dovuto andarsene, che lo volesse o meno, aveva semplicemente deciso di catturare quella delicata farfalla che recava sulle ali la scritta “coraggio” e anticipare i tempi.
Preparò il borsone: ci mise dentro solo l’occorrente, solo ciò che poteva indirizzarlo verso una nuova e migliore vita. Lettore mp3, cambi di abiti, portafoglio, risparmi e ovviamente il suo violino.
Era diventato suo quando la nonna era morta. Non lo aveva ricevuto in regalo, cosa che sarebbe probabilmente avvenuta prima o poi ma, il fatto che a nessuno importasse di quell’oggetto, tanto meno ai suoi genitori, lo aveva quindi autorizzato a tenerlo con sé, come ricordo, come speranza, come unico segno di una felicità passata.
Uscì di casa in una notte di pieno inverno: una notte di gelo e vento che avrebbe scoraggiato chiunque ad abbandonare il caldo giaciglio domestico. Ma a Thomas il freddo non spaventava, non dopo aver bruciato all’inferno per tutta la vita.
Si diresse in stazione, senza sapere cosa avrebbe fatto poi, senza sapere se i soldi sarebbero bastati e se fosse riuscito davvero a portare avanti quella fuga appena iniziata. Prese il primo treno in partenza. Si accucciò nella prima poltroncina libera e, stretto il violino al petto, si addormentò. Dove stava andando, quello, non lo interessava affatto.
Raggiunse la stazione solo quando il sole era già sveglio ed una nuova giornata era cominciata. Si sentiva stanco Thomas, quello si, ma anche immensamente sollevato e fiducioso nel suo destino. Purtroppo però, aveva pur sempre 17 anni e iniziare una vita dal nulla, a quell’età, non sarebbe stato affatto facile, specialmente poi, quando non sai dove andare e ti vedi smarrito.
Scese piano gli scalini metallici che separavano il treno dalla banchina, scacciando i pensieri negativi con un gesto della mano: non aveva fretta ora, nessun posto lo attendeva quindi, affrettarsi, non avrebbe avuto senso. Vagò smarrito per la stazione e si fermò infine ad osservare il tabellone delle partenze sperando che, un segno del destino, lo avesse condotto verso un paradiso troppo a lungo negato. Quando però, neanche quel segno sembrò giungere, si sedette a terra, con la schiena poggiata al muro, in attesa.
Di solito, fino ad un anno prima, quando era indeciso, triste o confuso, era la nonna che lo aiutava suonando per lui: quelle note magiche avevano il potere di rasserenare il suo animo, di pittare il cuore di mille colori e sensazioni e di elevarlo fino alla flebile ed effimera felicità. Un giorno, entusiasta del potere magico di quelle note, aveva perfino chiesto alla nonna di insegnargli a suonare quello strumento tanto delicato quanto straordinariamente potente nel suo incantesimo ed aveva scoperto di avere un talento, un dono. Evidentemente quello era il regalo che Dio aveva voluto concedergli per poter cambiare la sua vita.
Se ne rimase per un po’ seduto a terra, sul freddo marciapiede finché non scattò in piedi e, aperto il suo “scrigno del tesoro” prese il violino tra le mani, lo portò al viso e vi adagiò il mento sopra.
Quando prese a suonare, a sfregare le corde accarezzandole con decisione, l’aria intorno a lui vibrò. Sembrò che il tempo si fosse fermato, così come molti, del resto, si erano fermati a godere di quel suono melodioso.
Una musica, di solito, non ha un tempo stabilito, una durata fissa, a meno che non si tratti di una canzone o di un brano già composto. Ma lui, lì, stava suonando seguendo ed ascoltando unicamente il suo cuore e finché la sua anima ne avesse avuto bisogno, avrebbe suonato ad occhi chiusi, piangendo, sorridendo.
La sua melodia durò però solo 3 minuti.
3 miseri minuti in cui, allo stopparsi della musica, la gente radunata si era già dileguata per tornare ai propri pensieri e occupazioni. Solo un uomo, dritto davanti a lui, era rimasto:
“Quanti anni hai ragazzo?”
“17”
“Sei solo?”
“Si”
“Vieni con me. Vedremo di incantare il mondo con quel tuo violino.”
Perché mai avrebbe dovuto fidarsi, Thomas? Quell’uomo, per quanto ne sapeva, poteva essere solo un maniaco, un pazzo, un assassino perfino ma, Thomas, sapeva anche che la vita manda i suoi angeli sotto le più disparate sembianze e forse, il segno che attendeva, era proprio lì davanti a lui.
“Perché?”
“Cosa perché? Non farmi incazzare ragazzo! 3 minuti bastano per riconoscere il talento! Per chi mi hai preso, moccioso?”
Gli porse un bigliettino da visita, l’uomo, ma Thomas lo afferrò passandovi lo sguardo sopra senza però leggere davvero. Ora era chiaro, 3 minuti erano bastati eh? Bene, allora sarebbero bastati anche a lui, perché era chiaro, ora più che mai, che quello era il segno che attendeva dalla vita.
“Un vero dono consiste nel non abbandonare mai il proprio talento e quel violino ne è la prova. Sempre ammesso che…di un violino si tratti…non è vero, Thomas?”
 
5. One minute to say goodbye
Stop giving me choises (5)
 
Si era divertito abbastanza, Mario, ad immaginare e scrivere vite come fosse Dio, a creare e distruggere la felicità altrui, a regalare a quelle persone un motivo e un tempo per cambiare la loro vita.
Ma ormai il tempo, per loro, così come per lui, era ormai scaduto.
Erano trascorsi 18 minuti: 18 minuti che aveva saputo dividere saggiamente per tutte le persone presenti in quel bar. 18 minuti, ed 1 solo mancante.
Ma, si chiese, in un solo minuto è davvero possibile cambiare una vita?
A lui ne erano bastati pochissimi per cambiare le vite di 4 persone eppure, in un solo minuto, dubitava che sarebbe riuscito anche solo ad immaginare un evento tanto eclatante da durare un lasso di tempo così breve e trasformare per sempre una vita.
Si alzò piano dalla sedia, raccogliendo le sue cose e indossando il cappotto, stringendolo al collo come a pararsi da un vento invisibile.
Pensò a quello che a casa gli avrebbero detto, una volta tornato, a proposito della “notizia” che aveva segnato il suo destino. Sorrise a quel pensiero, immaginando parole solite, sentite e lette a proposito di casi come il suo:
“Combatti”
No, lui non lo avrebbe fatto.
Lo aveva deciso in quel momento: non avrebbe combattuto contro il destino perché la vita può cambiare da un momento all’altro e, se per lui erano previste ancora sorprese, a tempo debito sarebbero arrivate.
Strinse la sciarpa intorno al collo, salutò con una rapida occhiata tutti i presenti e con un gesto della mano, accompagnato da un sorriso nuovo, il proprietario.
“Buon fortuna a tutti…”
Ci mise un minuto esatto ad abbandonare quel locale. Non sarebbe mai più tornato ma, almeno, ebbe la conferma che bastano pochi minuti perché la vita cambiasse e, nonostante a lui fosse rimasto poco tempo, di minuti ne aveva ancora a sufficienza.
 
   
 
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