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Autore: Hotaru_Tomoe    15/04/2016    3 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 11

Quando John riaprì gli occhi, fu investito dalla luce, ma non era la spaventosa luce bianca della mente di Sherlock che moriva, erano raggi di sole ed erano gialli e caldi.
Molly era china su di lui e misurava i suoi parametri vitali.
“Sherlock…” fu la prima cosa che disse, agitando le mani nell’aria.
La donna si scostò con un sorriso e nella visuale di John entrò Sherlock, ancora sdraiato supino sul letto, ma con gli occhi leggermente aperti e l’aria smarrita e confusa.
Con il cuore in gola, John mise mano al suo totem, tastando ogni piccola imperfezione del proiettile.
“Sì, ce l’hai fatta” confermò Eames, tirandogli un piccolo pugno sulla spalla; Mycroft e Lestrade erano tornati, e mentre il primo stava confabulando con uno dei medici di Sherlock, il secondo si unì alle congratulazioni di Eames.
“Non avevo dubbi, sapevo che ce l’avresti fatta.”
“Voglio andare da lui” pregò John.
Con l’aiuto del poliziotto, l’ex soldato si alzò dalla poltrona con le gambe ancora malferme e crollò di fianco a Sherlock, prendendogli una mano.
“Ehi… ehi, bentornato.”
Sherlock provò a muovere le labbra per pronunciare qualche sillaba, ma Molly lo fermò: “No, hai ancora il sondino naso gastrico, non devi provare a parlare. Più tardi, dopo gli esami, i medici decideranno se toglierlo.”
Sherlock tentò allora di stringere la mano di John, ma fletté a malapena le dita e gli rivolse uno sguardo confuso.
“Sei stato in coma quasi tre settimane - spiegò il dottore - hanno usato gli elettrostimolatori e un fisioterapista è venuto ogni giorno, ma hai perso lo stesso tono muscolare. Ci vorrà un po’ di tempo prima che tu riesca di nuovo a correre dietro ai criminali.”
“John - Molly lo interruppe posandogli una mano sulla spalla - i medici sono qui e devono portarlo via per fargli una serie di controlli.”
John annuì, si alzò e baciò la fronte di Sherlock, più e più volte, ancora molto scosso per quanto accaduto.
“Ti lascio solo qualche minuto, okay? Il tempo di chiedere agli uomini di tuo fratello di fare un salto a casa mia e portare le mie cose a Baker Street.”
Gli occhi di Sherlock si spalancarono per la sorpresa e John annuì: “Sì, torno a casa.”
Lo baciò di nuovo sulle labbra, goffo e disperato come lo era stato nel sogno, ma quando si staccò da lui sorrise: “E adesso chi è la damigella in pericolo risvegliata dal bacio del principe?”
Sherlock sollevò l’angolo destro della bocca nel suo caratteristico sorriso storto, e mimò un silenzioso “idiota” con le labbra.
Mentre i medici spingevano il letto di Sherlock fuori dalla stanza e Mycroft li seguì, chinandosi sul fratello per raccontargli nei dettagli quanto era accaduto, mentre John esitò: “Forse dovrei andare anch’io con loro.”
Arthur però gli mise una mano sulla spalla e lo fermò: “No, non è una buona idea.”
“Ma io voglio sapere come sta! Non riporterà dei danni permanenti a causa del coma, vero? Dopotutto si è svegliato, quindi…”
“Vorrei dirti che andrà tutto bene, John, ma non posso: di quelli che hanno subito gli effetti collaterali del dispositivo wireless di Edward, Sherlock è il primo ad essersi risvegliato, non abbiamo dati per formulare ipotesi.”
“Allora dovrei proprio andare con lui.”
“No.”
“Perché?”
“Perché Eames mi ha raccontato nel mondo onirico di Sherlock la sua proiezione mentale era quasi sempre al suo fianco, e se continuerà ad essere così, farà molta fatica a distinguere quel sogno dalla realtà, mentre lui deve riabituarsi a vivere in un mondo che ha regole diverse da quelle del suo inconscio” spiegò Arthur con calma.
“Hai ragione” ammise John con riluttanza, e anche per lui riprendere contatto con la realtà non era del tutto facile, infatti continuava a tastare il proiettile che aveva in tasca.
“Noi potremmo ripeterti fino allo sfinimento che tutto questo è reale, ma sarebbe inutile, devi convincertene da solo - gli disse Eames - E prenditi tutto il tempo che ti serve: è stata un’esperienza logorante anche per te.”
“Ogni volta che sei nel dubbio - aggiunse Arthur - rivolgiti all’oggetto che hai in tasca.”
“Quello che Sherlock non ha avuto” osservò John, ritornando sul discorso di qualche ora prima.
“Già. Non voglio nasconderti che la mancanza di un totem sarà un grave handicap per Holmes e le cose potrebbero non essere facili nelle prossime settimane, né per lui, né per te.”
“E cosa possiamo fare? Ci sarà pure una soluzione!” incalzò l’ex soldato.
Arthur non disse nulla, perché non aveva una risposta per lui: molto sarebbe dipeso dalla mente di Holmes e dalla sua capacità di razionalizzare gli eventi vissuti, ma purtroppo l’uomo era rimasto imprigionato a lungo in un sogno senza un totem: questo era un dato di fatto che non si poteva cambiare.
“Il tuo silenzio non è molto incoraggiante, sai?”
“Mi hai detto che Sherlock è una persona razionale - offrì Arthur - ci sono buone probabilità che col tempo le cose tornino come prima.”
“Questo mi rassicura ancor meno.”
“Mi dispiace, vorrei essere più ottimista.”
“Detesto metterti fretta, tesoro - disse Eames - ma il nostro aereo parte fra tre ore.”
“Ma come, ve ne andate così?” domandò John, stranito.
“Il nostro campo di azione sono i sogni e ora che Sherlock si è svegliato non possiamo fare più nulla per aiutarlo, adesso dipende tutto da lui. Inoltre non devo ricordarti che il nostro lavoro non è affatto legale, preferiamo allontanarci dagli ambienti dell’MI5 il più presto possibile.”
“Capisco” rispose il dottore, un po’ demoralizzato da quella risposta, anche se comprendeva le ragioni dei due uomini.
“Buona fortuna, John.”
“Anche a voi.”
Non appena le porte dell’ascensore si chiusero, Eames allungò una gomitata ad Arthur.
“Fai quella telefonata.”
“Io non-”
“Stai pensando di farla da quando Holmes si è risvegliato.”
“È vero, ma sarebbe crudele costringerlo a rivangare di nuovo quella tragedia, proprio adesso che ha trovato pace.”
“Sarebbe ancora più crudele se la tragedia si ripetesse - osservò Eames - quell’Holmes non starà bene per molto tempo, e in ogni caso lui ci deve un favore.”
Arthur ci pensò ancora un attimo, poi annuì, prese il cellulare e compose il numero.

“Ora dovrà restare immobile per circa quaranta minuti” disse l’operatore nel microfono, al di là del vetro.
Mentre il lettino scivolava all’interno della macchina per la T.A.C., Sherlock si concesse uno sbuffo seccato dalle narici: nelle sue condizioni non avrebbe potuto muoversi nemmeno volendo.
In realtà fu grato di trovarsi da solo all’interno dello stretto condotto, perché gli permetteva di piangere in privato la perdita del suo mondo onirico, e di celare a suo fratello e a tutti gli altri il dubbio che, a pochi minuti dal risveglio, già affiorava in lui: si era davvero risvegliato o quello era solo l’ennesimo sogno? Nella sua testa era ancora tutto molto confuso e faticava a separare i margini dell’esperienza onirica che aveva vissuto e quella dove si trovava in quel momento.


John si appoggiò al muro del corridoio dell’ospedale e sospirò pesantemente: dio, era stanco morto.
Arthur era stato decisamente ottimista quando aveva detto che le cose non sarebbero state facili. Erano dannatamente difficili e Sherlock non era per nulla collaborativo: gli esami cui era stato sottoposto avevano escluso danni neurologici a lungo termine, ma il suo processo di guarigione fu lento e in salita.
La lunga immobilità dovuta al coma lo costrinse a sottoporsi a sedute di fisioterapia, che il detective sopportava mal volentieri e, non appena veniva lasciato solo, non faceva gli esercizi che il fisioterapista gli aveva assegnato, preferendo restare seduto a braccia incrociate sul letto a fissare tutti con odio. Inoltre, appena sveglio, i medici si erano accorti che soffriva di afasia e fu quindi necessario ricorrere ad un logopedista per recuperare l’uso della parola, ma Sherlock trovava così umiliante dover ripetere le parole disegnate sui cartoncini colorati, nemmeno fosse un bambino dell’asilo, che impiegava la poca forza che aveva a rovesciare a terra tutto ciò che gli capitava a tiro. Ma il peggio di sé lo dava con lo psicologo che Mycroft gli aveva imposto di frequentare, perché ad ogni domanda o tentativo di approccio del medico, Sherlock opponeva un ostinato silenzio, intervallato solo da sporadici “lei è un idiota”.
John cercava di portare pazienza: da un lato capiva quanto profonda doveva essere la frustrazione dell’amico, costretto a imparare di nuovo a fare cose semplici ed elementari, come stringere le posate o un bicchiere, o recitare uno scioglilingua per riabituarsi a parlare, capiva quanto tutto quello dovesse apparire noioso e inutile a una mente abituata a ragionare a velocità doppia rispetto a tutti gli altri, ma era per il suo bene, come gli ripeteva di continuo, e tuttavia a volte gli sembrava che Sherlock non avesse interesse a migliorare e non comprendesse l’importanza dei piccoli passi in avanti che faceva ogni giorno.
Ma non era solo quello.
John trascorreva buona parte delle sue giornate lì in ospedale: fortunatamente, una volta resasi conto che il loro matrimonio era giunto al capolinea, Mary si era dimostrata sorprendentemente ragionevole, non era ricorsa a minacce di nessun tipo, né fisiche, né di ritorsioni usando Edith come arma di ricatto, e si era rassegnata all’evidenza (probabilmente stava già progettando di ricostruirsi un’altra vita). Non aveva creduto possibile nemmeno per un istante che John riuscisse a salvare Sherlock dal limbo e vedere che invece il legame che li univa era più forte di qualunque macchinazione, le aveva dato tutte le risposte di cui aveva bisogno riguardo al destino del loro matrimonio, infatti stavano mettendo fine alla relazione molto civilmente tramite gli avvocati e questo lasciava a John molto tempo libero da passare con Sherlock, quando questi non era impegnato con le varie sedute riabilitative, spronandolo a fare di più e impegnarsi con la terapia, incoraggiandolo per i suoi progressi e raccontandogli tutte le cose che avrebbero potuto fare una volta che avesse lasciato l’ospedale.
Ma Sherlock non mostrava l’entusiasmo che John si aspettava: annuiva distratto, rispondeva a monosillabi, sempre con la mente altrove, e nonostante lo guardasse sorridendo e dicendogli che non vedeva l’ora di tornare a vivere insieme, John sentiva che non era sincero.
Forse John non era dotato di particolare acume, ma sapeva benissimo a cosa stava pensando Sherlock: al mondo onirico che aveva abbandonato, a quell’altro John, quello perfetto, quello adatto a stare al suo fianco, quello che lui non sarebbe mai stato, al confronto col quale lui usciva sconfitto.
Dopo i primi giorni, anche i loro contatti fisici si erano molto raffreddati: che senso aveva baciarlo, si domandava John, se Sherlock non stava pensando davvero a lui? E in quei momenti provava una rabbia tale che doveva abbandonare la stanza e fare lunghe passeggiate nel cortile dell’ospedale per calmarsi ed evitare di litigare con lui.
Fu durante una di queste occasioni che un uomo biondo e dal sorriso cordiale lo avvicinò.
“John Watson?” domandò con una punta di incertezza.
“Sì, sono io.”
“Ah bene, la stavo cercando - l’uomo sorrise e stese la mano destra - mi chiamo Dominic Cobb e sono un amico di Arthur ed Eames.”
John gli strinse la mano guardandolo leggermente perplesso: “Piacere… uhm… posso fare qualcosa per lei?”
“In realtà mi auguro che sia il contrario. Ha qualche minuto libero?”
John pensò a Sherlock, seduto nel suo letto, che lo guardava ma che in realtà voleva essere con un’altra versione di lui, e annuì, così andarono a sedersi sulle scale di servizio di un’ala poco frequentata dell’ospedale.
“I miei amici mi hanno raccontato cos’è successo a Holmes” esordì Cobb.
“Lavora anche lei con i sogni?”
“Sono un estrattore, sì - Dom lo guardò con attenzione - Se posso permettermi, John, dalla sua espressione mi sembra di capire che le cose con Holmes non stiano andando come lei si immaginava sarebbero state dopo il suo risveglio.”
A quanto pareva Arthur ed Eames gli avevano anche raccontato cosa provava per Sherlock.
“Può dirlo.”
“E come mai?”
“Credevo che Sherlock mi amasse, ma a quanto pare non è così.”
“Gliel’ha detto lui?”
“No, l’ho capito io.”
“Da cosa?”
“Da come mi guarda! Sherlock ha vissuto in un sogno con l’immagine che aveva di me, una figura idealizzata che non esiste e che io non sarò mai, e quando mi guarda è a lui che pensa, ne sono sicuro. È di lui che è innamorato - concluse guardando sconfortato le mani appoggiate in grembo - non di me.”
“È questo che crede?” domandò Cobb con una punta di pietà per lui.
“Lei pensa che mi sbagli?"
“Sì.”
John scosse la testa: “Lei non ci conosce e non ha visto come mi guarda.”
“No, ma ho visto gli occhi di una persona che ha vissuto qualcosa di molto simile di ciò che è accaduto a Sherlock.”
“Chi?”
Dom abbassò lo sguardo sui gradini di marmo opachi e consunti: “Mal, mia moglie. Per me non è affatto facile parlarne.”
Dal suo sguardo si capiva che diceva la verità, che l’argomento provocava a quell’uomo una forte sofferenza, e John lo rassicurò: “Non è obbligato a farlo.”
“Ma lo farò, nella speranza che il mio racconto possa esserle utile in qualche modo. Secondo Arthur potrebbe aiutarla.”
E così Dom gli raccontò tutto, di come lui e Mal finirono nel limbo, di come la moglie si fosse convinta che quella fosse la realtà e di come lui la indusse a risvegliarsi.
“Mal mi amava, amava i nostri figli, ma al suo risveglio l’idea si era ormai piantata dentro di lei e non riuscì più a convincere se stessa di essere sveglia per davvero; all’inizio non lo capii, ma quando lei guardava me o i nostri bambini, dentro di sé pensava che non stava vedendo noi davvero, ma solo l’ennesimo sogno.”
“Che cosa le è accaduto?”
Cobb deglutì e inspirò profondamente: “Mal si suicidò. Credeva che morendo si sarebbe svegliata e sarebbe tornata da me e dai nostri figli.”
“Dio - mormorò John, inorridito - mi dispiace.”
“Io credo che a Sherlock stia succedendo qualcosa di simile: sono certo che non è come lei crede. Non è che Sherlock non la ama, è solo che la guarda e-”
“È convinto di guardare solo un’altra sua proiezione mentale, non il vero me stesso.”
John chinò il capo e si sentì uno stupido per non aver capito cosa stesse passando veramente nella mente di Sherlock ed essere saltato alla conclusione sbagliata senza nemmeno farsi venire dei dubbi al riguardo.
“Esatto: è stato nel Limbo molto a lungo, sono sicuro che la sua mente sia ancora piena di dubbi.”
“E cosa posso fare per aiutarlo?”
“Io mi sono accorto troppo tardi dello stato in cui era precipitata Mal, ma non deve andare nello stesso modo anche per Sherlock. Quello che posso suggerirle è di essere se stesso il più possibile, anche nel peggiore dei modi, e di essere sgradevole, se deve: la realtà ha molti lati spigolosi che la nostra mente, nei sogni, tende a smussare. E poi cerchi qualcosa per ancorarlo alla realtà, qualcosa di inconfutabile, che possa diventare un totem per lui.”
Era tutto molto vago e per nulla semplice, e qualcosa dello sconforto di John dovette trapelare dalla sua espressione, perché Dom si strinse nelle spalle in un gesto di scuse: “Mi dispiace non poterle essere utile più di così.”
“No, no, la ringrazio per essere venuto: se non fosse stato per lei avrei continuato a non capire come stanno le cose e ad essere geloso della controfigura di me stesso.”
Cobb si alzò e gli strinse la mano: “Buona fortuna, John.”
L’ex soldato restò ancora qualche minuto lì sulle scale, ripensando alle sue parole, poi si alzò, raddrizzò le spalle con fare risoluto e marciò deciso verso la stanza di Sherlock.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono, John quasi si scontrò con il fisioterapista che lasciava il piano, sull’orlo di una crisi di nervi dopo l’ennesima seduta con il detective; arrivò fino alla porta e la spalancò con forza, mandandola a sbattere contro il muro e facendo sussultare Sherlock.
"John? Cosa ti pr-"
"Hai finito di fare lo stronzo?" lo interruppe con la voce del Capitano Watson, quella che richiamava tutti all'ordine e non ammetteva interruzioni.
Il viso di Sherlock assunse un’espressione oltraggiata.
"Cosa?"
"Mi hai sentito benissimo: qui tutti si stanno prodigando per farti stare meglio e tu non sai fare altro che insultarli, sei peggio di un bambino viziato. Dici che vuoi tornare a casa? Bene, inizia a dimostrarlo! Da domani tu farai i tuoi dannati esercizi e alzerai le chiappe dal letto, altrimenti te le farò alzare io a suon di calci, mi sono spiegato?"
Sherlock annuì, senza parole forse per la prima volta in vita sua, e dal giorno dopo si impegnò di più nelle varie sedute di riabilitazione per guarire, anche se la sfuriata di John non fu un colpo di bacchetta magica che rimise ogni cosa al suo posto, e di questo il blogger era consapevole, ma era un piccolo passo avanti; comunque non appena fu in grado di restare in piedi qualche minuto da solo, Sherlock fece il diavolo a quattro per poter tornare a casa sua e, vista la sua insistenza, Mycroft finì per accontentarlo, ma solo dopo che John gli promise che si sarebbe preso un lungo periodo di ferie per stargli accanto, perché lo psicologo, con cui Sherlock si rifiutava ancora di parlare, non aveva dato parere positivo.
La sera in cui tornarono a Baker Street, John accompagnò Sherlock in camera, poi tornò in salotto per congedare il fratello.
“Oggi sembra che stia meglio: sono sicuro che essere qui lo aiuterà.”
“Forse - disse il maggiore senza troppa convinzione - ma mio fratello è un abile bugiardo e finora non ha rivelato a nessuno come si senta davvero o cosa gli passi per la testa in questo momento, ma non ho dubbi che l’esperienza che ha vissuto lo abbia segnato. Se dovessi accorgermi che le sue condizioni psicologiche stanno peggiorando, dovrò farlo ricoverare coattivamente in un ospedale psichiatrico.”
“Mycroft, non può!”
“Sarebbe per il suo bene, per evitare che si faccia del male.”
Da ragazzo John aveva svolto parte del tirocinio ospedaliero in una di quelle strutture e gli era servito per capire che la psichiatria proprio non faceva per lui: se chiudeva gli occhi gli comparivano ancora davanti i pazienti urlavano e scalciavano tutto il tempo, stretti nelle camice di forza, oppure fissavano un muro bianco, intontiti dai troppi sedativi, e lui non avrebbe mai permesso che Sherlock facesse quella fine.
“Non ho risvegliato Sherlock da un sogno solo per rinchiuderlo in un incubo.”
“Capisco il suo punto di vista, John, ma-”
“Noi ce la faremo - disse John con convinzione - ce l’abbiamo sempre fatta.”
“Lo spero. Per tutti e due”
Non appena Mycroft fu uscito, chiuse a chiave tutte le porte, spense le luci, si spogliò facendo cadere i vestiti a terra dove capitava, entrò in camera di Sherlock e si infilò sotto le coperte stringendolo a sé, senza dire una parola: aveva bisogno di rassicurarlo e fargli capire che questa volta era tutto vero, che lui era lì e non se ne sarebbe più andato, e lui stesso aveva bisogno di percepire che Sherlock era reale, lì al suo fianco. Davanti agli altri mentiva, esattamente come il detective, ma dopo essere stato nel suo mondo onirico, a volte si domandava se non stesse ancora sognando. Ma almeno lui aveva un totem per ancorarsi alla realtà.
“John…” un sussurro esitante di Sherlock ruppe il silenzio della notte, facendosi strada nei suoi pensieri. Il consulente investigativo non era più affetto da afasia, ma la sua voce era ancora così debole da essere a malapena udibile.
“Sono qui - rispose John, con voce altrettanto flebile - sono qui, Sherlock. Credimi, fallo per noi.”
“Ci provo, ci sto provando” rispose Sherlock, e John gli posò una mano sul viso per farlo voltare e nel buio cercò le sue labbra, in un bacio che finalmente non sapeva più di angoscia e incertezza, ma che iniziava a parlare di sentimenti, di perdono e di promesse.
Le mani di John accarezzarono il suo corpo magro e provato dal lungo digiuno fino al bordo della maglietta del pigiama.
“Posso?” domandò con dolcezza, staccando appena le labbra dalle sue.
Sherlock appoggiò la testa alla sua spalla e annuì silenziosamente, mentre John esalava un respiro tremante tra i suoi capelli e lentamente si fece strada con le mani sotto all’indumento, esplorando la pelle morbida e sconosciuta, stuzzicando appena i peli radi sotto l’ombelico, prima di spingersi adagio sotto all’elastico dei boxer, subito ricompensato da un piccolo singhiozzo che Sherlock camuffò contro il suo collo.
Sherlock vibrava e mugolava sotto le sue carezze e finalmente, dopo un’eternità, anche lui mosse incerto le mani lungo i fianchi di John fino alle cosce, e John sollevò la testa per sussurrargli all’orecchio: “Sì, ti prego.”
Si toccarono, esitanti e impacciati come adolescenti, riverenti e gentili come amanti vittoriani, e fu strano, imperfetto e imbarazzante, quando si sporcarono dei reciproci fluidi e l’odore del sesso impregnò l’aria sotto le lenzuola, ma fu anche caldo, liberatorio e rassicurante, e soprattutto vero.
Quando ebbe ripreso fiato, Sherlock tornò a baciarlo una, due, cento volte, come se ancora non credesse possibile baciare il vero John, e lui era ben contento di dimostrare che poteva farlo ogni volta che voleva, e si lasciò baciare fino a quando non scivolò nel sonno.
La mattina seguente John si destò all’improvviso, perché allungando il braccio sul materasso non trovò Sherlock accanto a sé.
Si tirò a sedere di scatto col cuore in gola, ma per fortuna lo individuò poco lontano, rannicchiato nudo sotto la finestra della camera leggermente aperta, che fissava un angolo di cielo visibile tra i palazzi.
Senza nemmeno darsi pena di recuperare i vestiti, John lo raggiunse e si sedette davanti a lui, lasciandosi scappare una smorfia seccata quando i testicoli toccarono il pavimento freddo.
“Sherlock, tutto bene?” chiese con esitazione, sfiorandogli un ginocchio con la mano sinistra.
“No - rispose Sherlock con una franchezza che lo sorprese - l’aria odora di smog, di pioggia e delle ciambelle fritte dello Speedy’s.”
“È l’odore di Londra” replicò John senza capire.
“Anche nel mio sogno l’aria aveva questo odore, me lo ricordo perfettamente.”
“È perché conosci Londra così bene che ti circola nel sangue” rispose John con un sorriso, ma vide che Sherlock non sorrideva affatto e i suoi occhi erano pieni di dubbi e incertezze.
“Cosa c’è? Dimmelo, Sherlock. Non vuoi parlare con uno psicologo perché lo consideri uno spreco di tempo, e su questo posso anche darti ragione, ma non tenermi più nascosto ciò che provi - lo supplicò - guarda dove ci ha portato e cosa ha rischiato di causare.”
“Quando mi sono svegliato stamattina ho provato a deformare i muri della stanza col pensiero, ma non ci sono riuscito.”
“Certo, nella realtà questo non si può fare. È una buona prova del fatto che sei sveglio, no?”
“Ma a un certo punto nemmeno nei miei sogni potevo più farlo.”
“No, non è così: non ti veniva in mente di farlo perché credevi di vivere in un mondo reale.”
“Però - Sherlock si passò le mani tra i capelli - come faccio a sapere che la realtà è proprio questa? Chi mi dice che non stia ancora sognando? Non ho appigli per distinguere le due cose!”
La sua voce salì di tono insieme alla sua angoscia e John strinse i pugni. Si stava verificando esattamente quello che avevano previsto sia Arthur che Cobb: era rimasto in coma per tre settimane e questo, nel mondo dei sogni dove la percezione del passaggio del tempo era diversa, corrispondeva ad anni interi. Inoltre, prima di quella esperienza traumatica, Sherlock non aveva mai posseduto un totem perché non ne aveva mai avuto bisogno: le indagini oniriche e gli estrattori dei sogni non l’avevano mai interessato e non se ne era mai occupato, quindi ora non c’era da stupirsi che non riuscisse a riprendere contatto con la realtà.
“Anche l’altro, una volta, mi ha detto di essere reale. Magari io sono ancora in coma da qualche parte e là fuori c’è un John che mi aspetta, oppure la mia vita è completamente diversa e io nemmeno mi chiamo Sherlock Holmes, non sono un consulente investigativo, tu non esisti e io ho inventato tutto questo per sconfiggere la monotonia di una vita-”
“No, fermo!” John gli prese le mani che si agitavano nell’aria e gliele strinse forte: doveva trovare subito un modo per convincerlo, per ancorarlo alla realtà prima che la sua mente si incanalasse sugli stessi binari che avevano portato via Mal, la moglie di Cobb, e prima che Mycroft mettesse in atto la sua minaccia di farlo ricoverare.
Se avesse pensato che mostrargli il suo totem potesse servire a qualcosa, l’avrebbe fatto immediatamente, nonostante le mille raccomandazioni di Arthur ed Eames, ma Sherlock non aveva visto il proiettile prima di cadere in coma, quindi per lui non aveva alcun significato. Doveva trovare qualcos’altro che potesse assolvere quella funzione, qualcosa a cui Sherlock potesse appigliarsi.
“Mentre eri in ospedale mi hai raccontato che nei tuoi sogni io e te eravamo amanti.”
“Sì.”
“E com’è stata la nostra prima volta insieme, lì?”
Un accenno di rosa colorò le guance di Sherlock.
“Perfetta.”
“È stato… uhm… un… rapporto completo?” domandò John, arrossendo vistosamente a sua volta.
“Sì” rispose Sherlock in un sussurro.
“Ha fatto male?”
“No, per nulla.”
“Be’, ti posso assicurare che nella realtà non è così, le prime volte non è molto piacevole, fa male e si resta indolenziti per giorni, quando non ci sono perdite di sangue.”
Sherlock spalancò gli occhi per la sorpresa davanti a quella rivelazione e John balbettò qualcosa di vago riguardo agli anni dell’università e alla curiosità di esplorare la sua sessualità, poi gli domandò: “E ieri notte diresti che è stato perfetto?”
Sherlock si morse le labbra ed aggrottò la fronte in un’espressione contrita.
“No, ehi, non prenderla come una critica, non lo è - John gli baciò il dorso della mano destra - è normale che non sia stato bellissimo, perché io non conoscevo il tuo corpo, non sapevo esattamente cosa volevi e cosa ti piace, e nemmeno tu.”
Sherlock annuì: capiva ciò che John stava cercando di dirgli.
“Il John dei miei sogni sapeva sempre esattamente cosa fare e cosa dirmi in ogni circostanza, perché alla fine era solo una proiezione della mia mente.”
“Esatto. Io non sarò mai come lui: a volte mi arrabbierò, sarò uno stronzo, non ti capirò al volo, sarò lento e stupido - ruotò la mano di Sherlock e ne baciò il palmo - e ogni volta che a letto proveremo qualcosa di nuovo probabilmente non sarà come lo avevamo immaginato. Lascia che sia questo il tuo totem.”
“Ieri notte?”
“Sì, ma non solo.”
John si inginocchiò carponi e si allungò verso di lui per baciarlo a stampo sulla bocca e Sherlock non riuscì a mascherare del tutto una piccola smorfia.
“Già, non mi sono ancora lavato i denti, mentre scommetto che il John dei tuoi sogni era sempre fresco come una rosa.”
“Sì” ammise Sherlock con un mezzo sorriso.
“Sofisticato come sei, non avevo dubbi che la tua mente avesse cancellato certi dettagli prosaici.”
“Io non sono sofisticato” protestò Sherlock.
“Davvero? Vogliamo passare in rassegna il tuo guardaroba?”
John aveva ragione: era molto meno arrendevole e più battagliero della sua proiezione mentale e, lentamente, Sherlock sentì di stare recuperando un contatto con la realtà precedente a quell’esperienza onirica.
John si sedette sui talloni e prese le mani di Sherlock, appoggiandole sul suo corpo nudo, guidandole nell’esplorazione, dalle cosce ricoperte di peluria alla pancia e ai fianchi dove aveva accumulato rotoli di grasso, alla spalla ferita in guerra (come aveva potuto dimenticarsi di quel dettaglio?), alle rughe del suo viso, e su fino ai capelli ingrigiti.
“L’altro John non era così e nella tua mente egli sarebbe rimasto eternamente giovane nonostante il passare degli anni, ma questo è quello vero: il mio corpo, a differenza della tua proiezione mentale, cambia e invecchierà, e tu ne sarai testimone ogni giorno che passa.”
“Vuoi… vuoi essere tu il mio totem?” domandò Sherlock in tono incredulo.
“Sì; lascia che sia io la tua ancora, lascia che ti ricordi ogni giorno qual è la realtà.”
“Potrò toccarti?”
“Ogni volta che avrai dei dubbi.”
“Questo potrebbe portare a situazioni molto imbarazzanti.”
“Peggio di Buckingham Palace? È difficile.”
Sherlock divaricò le gambe e lo tirò per le braccia per farlo sedere contro di sé e, nel farlo, John finì per tirargli una gomitata nello stomaco, e Sherlock era davvero troppo ossuto per risultare un appoggio comodo.
Erano entrambi imperfetti, lo erano sempre stati, e più Sherlock ci pensava, più la fantasia vissuta nei sogni con l’altro John gli appariva per ciò che era davvero: un Eden ideale ma irrealizzabile, fasullo come un villaggio medioevale ricostruito ad uso e consumo dei turisti.
Tornò ad esplorare con le mani ogni piega, ogni neo, ogni increspatura del corpo di John, d’ora in poi non solo il suo compagno, ma anche il suo totem.
E mentre la realtà riprendeva lentamente consistenza, concluse che quel mondo imperfetto non gli dispiaceva affatto.
“Sherlock?” domandò John dopo un po’.
“Mh?” mugolò l’altro, mentre percorreva con le dita le sue braccia, memorizzando la curvatura dei muscoli.
“Ora non ti inventerai delle scuse solo per potermi toccare, vero?”
“Ho bisogno di scuse?”
John ruotò la testa e lo baciò sulle labbra: “No, assolutamente no.”
Il suono del campanello interruppe il loro idillio e John si alzò, recuperando una vestaglia e lanciandone una a Sherlock: “È il tuo fisioterapista.”
“Mandalo via, adesso non mi va di fare una cosa così stupida come della ginnastica.”
“Non ricominciare con questa storia - John si piantò le mani sui fianchi e lo guardò severamente - Se vuoi iniziare a vedermi arrabbiato, ti avviso che sei sulla strada giusta.”
Sospirando, Sherlock si infilò la vestaglia e John andò ad aprire la porta.

Ci volle del tempo, tanto tempo perché le cose tornassero alla normalità. Il fisico di Sherlock recuperò abbastanza in fretta, ma la sua mente molto più piano e le prime volte John aveva paura a lasciarlo da solo, specie dopo aver appreso da Cobb il destino toccato a sua moglie. Ora dormivano insieme con regolarità, ma bastava che Sherlock si allontanasse dal letto per uno dei suoi esperimenti o per un attacco di insonnia, per far svegliare John con la tachicardia e il timore che Sherlock potesse farsi del male per scoprire se stava dormendo o meno, e quindi si alzava per controllarlo di soppiatto, ma Sherlock si accorgeva sempre di lui e finiva per abbaiargli contro con stizza, e in quei casi anche John si innervosiva parecchio.
La reazione irritata da parte del detective dipendeva dal fatto che si sentiva sotto controllo come un carcerato, e quello stato di cose non poteva protrarsi per sempre, altrimenti entrambi avrebbero finito per risentirne. Inoltre Sherlock sentiva un bisogno quasi fisico di riappropriarsi dei suoi spazi e della sua indipendenza, com’era prima di cadere in coma, così una mattina il detective decise di affrontare la questione di petto, dicendo a John ciò che non avrebbe mai pensato di dirgli.
“Ormai avrai finito le ferie, non è ora che torni al lavoro?”
Anni prima, quando avevano appena iniziato la loro convivenza, Sherlock avrebbe esultato se John avesse smesso di lavorare per dedicarsi solo ai loro casi, ma adesso non era più così: era lui il primo che doveva convincersi che quella era la realtà, non un sogno, e doveva provarci da solo, senza appoggi e, soprattutto, senza quella stretta sorveglianza che lo faceva soffocare.
John appoggiò il giornale sul tavolo e si umettò le labbra più volte, alla ricerca di una scusa plausibile da potergli opporre.
“Vedi, il fatto è che-”
“John - lo interruppe - se continuiamo a vivere gomito a gomito, finiremo per saltarci alla gola, dimmi che non è così.”
“C’è un po’ di tensione tra noi ultimamente” ammise John.
“E questo nei miei sogni non sarebbe mai accaduto. In fondo è quasi un bene.”
Momenti come quelli erano piccoli tasselli che cementavano in Sherlock la convinzione di essere tornato alla realtà.
“Okay - concesse John - In settimana chiamerò il capo e gli chiederò se ha dei turni da farmi fare.”
All’inizio non fu facile per John: il primo giorno uscì di casa terrorizzato all’idea di tornare e scoprire che Sherlock si era tagliato le vene dei polsi nella vasca da bagno o si era sparato un colpo in testa, e sussultava ogni volta che il suo telefono squillava, ma il suo compagno gli aveva chiesto fiducia, ed era importante concedergliela.
Inoltre, col passare dei giorni, John si rese conto che Sherlock aveva ragione, perché per quanto passare tanto tempo con lui fosse bellissimo, passare tanto tempo a letto con lui fosse incredibile, tuttavia non potevano stare sempre a contatto ventiquattr’ore al giorno: anche lui aveva bisogno del suo spazio, qualcosa di suo che non fosse la vita insieme al suo compagno. Solo quando si scoprì più rilassato e disteso, si rese conto di quanta tensione si fosse accumulata in casa fino a quel momento.
Una sera rientrò trovando Sherlock disteso sul divano, circondato da un caos di fotografie, documenti e verbali di udienze del Tribunale: due settimane prima Lestrade gli aveva chiesto di occuparsi di un caso insoluto vecchio di un anno, e il consulente investigativo aveva accettato, ma finora non era approdato a nulla.
John spostò col piede alcune cartelline per raggiungere il divano, borbottando che lui non avrebbe di certo sistemato, non essendo il responsabile di quel casino, poi sollevò di peso Sherlock per potersi sedere sul divano, e il detective tornò subito a posare la testa sul suo grembo, chiudendo gli occhi.
“Allora?”
“Allora niente, getto la spugna.”
“Sul serio?” Le volte in cui Sherlock si era dichiarato incapace di risolvere un caso si contavano sulle dita di una mano.
“Non sono approdato a nulla in due settimane e senza qualche nuovo elemento, che non c’è, le cose non cambieranno.”
“Mi dispiace.”
“Non devi.”
John lo guardò stupito: in effetti Sherlock non era particolarmente di cattivo umore, mentre le altre volte in cui un’indagine si era bloccata ed era stato costretto a rinunciare, aveva preso la cosa come un terribile affronto personale, tenendo il broncio fino al caso successivo.
“Non fraintendermi - disse Sherlock strofinando la testa sulle sue gambe - è lo stesso dannatamente irritante, ma mi è utile ugualmente.”
“Ti autorizzo a chiamarmi idiota se vuoi, ma non capisco come.”
Sherlock giocherellò con l’orlo del maglione di John e girò leggermente la testa per guardarlo negli occhi.
“Nei miei sogni non capitava mai che non riuscissi a risolvere un caso, perché la mente è sempre in grado di risolvere gli enigmi che sottopone a se stessa.”
Mentre nella realtà Sherlock doveva accettare il fatto di non essere onnisciente e invincibile, pensò John mentre gli accarezzava i capelli, ma decise di non infierire.
“John?”
“Mh?”
“Questo ovviamente non ti autorizza a scrivere del caso irrisolto sul tuo blog” puntualizzò il detective e John rise, prima di chinarsi a baciarlo, incurante dell’espressione impermalosita dell’altro, e finalmente quello spiacevole nodo di angoscia che ancora albergava dentro di lui si sciolse: sarebbe andato tutto bene, l’idea che la realtà fosse solo l’ennesimo sogno poteva dirsi eradicata dalla mente di Sherlock, e il vecchio consulente investigativo era tornato, con le sue idiosincrasie, le sue eccentricità, e tutto il suo essere, che John amava follemente come il primo giorno.

   
 
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