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Autore: Tender Falling Rain    17/04/2016    9 recensioni
"Che stupidaggine! Sto perdendo solo tempo! Stupida Akane e le sue stupide idee. Io sto bene! E anche se non stessi bene, i ragazzi non scrivono i loro sentimenti su un diario. E di sicuro non... piangono..."
Storia tradotta. Link all'originale: https://www.fanfiction.net/s/6293917/1/Stages
Traduzione di Miss Hinako.
Revisione testo di Spirit99
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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NdA: L’ispirazione per questa storia mi è venuta dalla canzone Days dei Rasmus. Dovreste ascoltarla, se potete, prima di leggere la storia, perché crea un po’ l’atmosfera che stavo cercando.

Se non vi è piaciuta la mia storia Semplicità perché era eccessivamente verbosa e usava troppe parole come verbosa, dubito che questa vi piacerà molto di più. Mi piace scrivere storielle divertenti e pucciose come Calligraphy (altra one-shot della stessa autrice, che non ho tradotto, NdT) e di solito queste storie sono ricevute meglio, ma una volta ogni tanto mi viene una voglia matta di provare a scrivere qualcosa che sia un po’ più profondo e significativo. Era questa l’intenzione di questa storia e spero di averne tirato fuori qualcosa di decente. A essere onesti, neanch’io riesco a capire se mi piace e sono mesi che sto lì a cercare il pelo nell’uovo, cambiando qua e là. Ho corso un certo rischio, con un nuovo stile e un soggetto diverso, e credo che o sarà un fallimento totale oppure piacerà.

Devo dire, comunque, che questa non è una storia da scorrere velocemente. Tecnicamente, potreste anche farlo, ma finireste per perdervi un sacco di cose, perché ci sono parecchie sottigliezze che sottintendono quello che sta succedendo veramente, cosa che non sarà affrontata completamente fino ai tre quarti della strada. Quindi, prestate attenzione, renderà la storia più bella, credo.

Oh, e io non possiedo Ranma ½ o alcuno dei personaggi della storia. Che peccato…


NdT: terza e ultima one-shot di Tender Falling Rain. Spero vi piaccia. Un grandissimo e doveroso ringraziamento alla mia beta pro-tempore, Spirit99. È stato un grandissimo piacere collaborare con te per queste due storie. Peccato che non ti piaccia la fantascienza, ahah!

Piccole istruzioni per l'uso
"Questo è parlato"
'Questo è scritto'
Questo è pensato

Ranma fissava con sguardo vacuo le braci del fuoco morente, picchiettando una matita sul taccuino con ritmo ipnotico, indeciso. Dopo qualche istante, sospirò profondamente e aprì il quaderno alla prima pagina, bianca come il resto dei fogli del taccuino vuoto. La matita restò sospesa ancora un po' sulla pagina, prima che Ranma cominciasse a scribacchiare esitante con tratti brevi e indecisi. Dopo aver scritto una sola frase, fece una pausa e guardò le parole sulla carta. ‘Che stupidaggine,’ c’era scritto.

Si beffò immediatamente del tentativo. “Non avrei potuto dirlo meglio,” borbottò sotto voce, prima di gettare il quaderno nella borsa con rabbia. “Che perdita di tempo,” ringhiò.

Distrattamente, raccolse la ciotola in cui aveva mangiato lo stufato e si chinò sulla pentola che conteneva gli avanzi. Sussultò immediatamente, notando che ne era rimasto più di metà. “Ne ho fatto troppo,” osservò, esitando a riconoscere il motivo del suo errore. Senza pensarci, per la forza dell’abitudine, aveva preparato la cena per due invece che per uno. “Che spreco di cibo.”

Si servì lesto un’altra porzione. “Ittadakimasu¹,” sussurrò passivamente, tenendo sollevato il cucchiaio sulla ciotola per lunghi, interminabili momenti, in cui osservò la zuppa con sguardo assente. Poi, piuttosto bruscamente, la sua espressione cambiò e scagliò via la ciotola attraverso la radura, che sbatacchiò con forza e schizzò dappertutto il suo contenuto andando a finire contro un albero, per poi crollare a terra e rotolare via tra i cespugli. Ranma non prestò alcuna attenzione al disastro e affondò pesantemente la testa fra le braccia, a loro volta appoggiate sulle ginocchia.

Per qualche istante nessun suono si udì nella radura, a parte il crepitio della legna sul fuoco. Alla fine sollevò lo sguardo, fissò la causa della sua frustrazione con gli occhi stretti e si alzò in piedi barcollando. Sollevò stoicamente la pentola e la trasportò deliberatamente in un punto apparentemente a caso della piccola radura. “Buon appetito,” disse a nessuno in particolare, mettendo giù la pentola con lo stufato e ritornando al suo posto davanti al fuoco, di spalle alla pentola.

Ranma sospirò di nuovo. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui non avesse desiderato fare il bis. “La mia cucina deve fare proprio schifo,” razionalizzò. Per un po’ si mise ad attizzare il fuoco con un bastone. “Forse dovrei andare a letto.”

Alzò gli occhi al cielo, dove una leggera nebbia arancione illuminava ancora quel poco di orizzonte che riusciva a distinguere attraverso gli alberi. “Non può essere più tardi delle sette e mezza. È troppo presto per andare a letto, adesso. Forse potrei allenarmi un po’,” rifletté ad alta voce. Ma il suggerimento rimase sospeso nell’aria e lui non accennò ad alzarsi. Attizzò il fuoco ancora un po’ e si alzò a raccogliere altra legna, sempre dando le spalle al punto in cui aveva poggiato la pentola con lo stufato.

Gettò dei ramoscelli secchi sulle ceneri e ci impilò sopra la legna con perizia, alimentando la fiamma e lavorando finché il fuoco non scoppiettò vivace ancora una volta. Poi si sedette ad ammirare il risultato, ricordando come il padre gli avesse insegnato ad accendere il fuoco quando aveva solo sei anni. Sotto la guida di suo padre, si era bruciato più volte di quante ne riuscisse a contare. “Stupido vecchio,” borbottò, massaggiando compulsivamente un punto particolare dell’avambraccio, dove la pelle sembrava più chiara ed era increspata per via di una vecchia ustione. “Sempre incosciente, sempre a farmi fare le cose nel modo più difficile possibile.”

Nonostante la noncuranza delle sue parole, Ranma non poté fare a meno di ricordarsi com’era stata eccitante la prima volta che aveva acceso il fuoco tutto da solo. Sorrise, pensando a quanto il padre fosse stato orgoglioso di lui. Ranma aveva imparato la tecnica in men che non si dica e alla fine era diventato così bravo che riusciva ad accendere il fuoco molto più velocemente del padre.

I pensieri svanirono e lui sollevò di nuovo un bastone per attizzare il fuoco. Ma il gesto era inutile e non riuscì a mantenere la sua attenzione, quindi mise rapidamente da parte il bastone e si limitò a fissare la luce del fuoco, che gli faceva bruciare e lacrimare gli occhi per il troppo fumo e calore, mentre si stringeva le ginocchia fra le braccia e vi appoggiava il mento. Annoiato, il suo sguardo si posò sullo zaino e dopo qualche secondo passato a vagliare le opzioni su come passare il tempo, prese ancora una volta il taccuino, anche se con riluttanza.

‘Che stupidaggine,’ lesse, prima di cominciare ad aggiungere qualcosa alla singola frase. ‘…Ma Akane dice che potrebbe servirmi… non lo so, ad affrontare i miei sentimenti o roba del genere. Qualunque cosa voglia dire.’ Fece una pausa per riflettere su quella parola. Sentimenti… Mentre ci pensava, non gli veniva niente in mente. Perlomeno, niente che potesse esprimere a parole. Anche se avesse potuto mettere per iscritto i suoi sentimenti, non credeva di volerlo fare. Quindi pensò bene di spostare l’attenzione su qualcos’altro.

‘Ho preso questo stupido coso solo per farla stare zitta. Quella stupida di Akane. Riesce a essere così testarda, a volte. Ma questo non spiega perché adesso sto perdendo tempo con questa roba. Immagino che sia perché non ho niente di meglio da fare. Ascolterei un po’ di musica o cose così, ma quello stupido del mio vecchio mi ha rotto il lettore cd e io…’ Si fermò di nuovo e cancellò agitato l’ultima riga. Fissò di nuovo la frase, e dopo aver deciso che non bastava limitarsi a depennarla, strappò l’intera pagina dal quaderno e la gettò nel fuoco.

Ignorò il foglio che anneriva e si contorceva, cambiando forma prima di dissolversi nelle fiamme. Invece, rivolse la sua attenzione ad una nuova pagina bianca come la neve e cominciò a scrivere di nuovo, questa volta senza esitazioni. ‘Sono venuto qui per allenarmi, ma dopo non lo so cosa farò. Suppongo che dovrei cominciare a cercarmi un lavoro, per guadagnare un po’ di soldi o cose così e poter badare a me stesso. O partire per un lungo viaggio di allenamento.’ Sospirò, non trovando traccia dell’eccitazione e dell’euforia che era abituato a sentire ogni volta che pianificava un viaggio del genere. All’improvviso, gli sembrava che la sua vita non era stata altro che una serie infinita di viaggi di allenamento, che alla fine non lo avevano portato da nessuna parte e non gli avevano lasciato niente. Il breve periodo passato con i Tendo era stato l’unico momento di tregua e l’unico assaggio di vita normale.

Ranma scosse la testa con violenza per schiarirsi le idee e si accigliò, rendendosi conto della direzione che minacciavano di prendere i suoi pensieri. “Basta,” borbottò, prima di tornare a scrivere. ‘Se non ricomincio a viaggiare, non sono sicuro di cosa fare. Trovare un lavoro, credo, ma io conosco solo le arti marziali. Immagino che potrei aprire un dojo o qualcosa del genere…’

“Naa,” sussurrò, scartando il pensiero quasi nello stesso momento in cui aveva finito di scriverlo. “Un dojo di Arti Marziali Indiscriminate basta e avanza.” Nel suo cuore, sapeva che aprire un dojo tutto suo sarebbe stata un’offesa verso i Tendo. Specialmente verso Akane. Il dojo era suo e occuparsene era sempre stato il suo sogno. Non l’aveva mai detto ad alta voce, ma non ce n’era bisogno. Lui lo sapeva e basta. Era evidente in ogni sua azione. Ogni volta che si allenava sotto il suo tetto, ogni volta che ne difendeva la proprietà, ogni volta che proclamava testarda, “Anch’io sono un’artista marziale, sai!”

Il dojo era importante per lei. Lui non avrebbe mai potuto portarglielo via e, all’improvviso, gli venne in mente che avrebbe dovuto vergognarsi anche solo per aver messo nero su bianco l’idea di aprirne uno suo. Si sentì improvvisamente disgustato e resistette a malapena all’urgenza di gettare nel fuoco anche questo foglio di carta, dopo quello di prima. Invece, ignorò il dolore straziante alla bocca dello stomaco, che liquidò risolutamente come un po’ di indigestione, e continuò a scrivere.

‘Non so da dove mi sia uscita, quest’idea. Immagino che mi sia semplicemente abituato all’idea di gestire un dojo. Con Akane.’ Senza pensare, cancellò l’ultima frase, anche se sapeva perfettamente che era quella la parte importante della sua presa di coscienza. ‘Figuriamoci se non lo capivo quando era troppo tardi.’ Fece una pausa e fissò la pagina, poi scrisse lentamente e con una grafia così lieve che a stento riusciva a distinguere le parole che aveva scritto. ‘Forse mi lasceranno tornare?’

Mordicchiò la matita, reprimendo un’altra ondata di “indigestione”, con lo stomaco che si stringeva dolorosamente. ‘Non è che mi hanno chiesto di andarmene o cosa,’ ragionò speranzoso. ‘Ma non sembra più il posto per me.’ Un’altra pausa. ‘Immagino che non lo sia mai stato.’

Gli era stato permesso di restare dai Tendo per due lunghi anni. Era stata la sua casa. La sua prima vera casa. Ma c’era un prezzo attaccato al suo permesso di soggiorno. Poteva restare lì finché fosse stato il fidanzato di Akane e avesse avuto intenzione di sposarla, un giorno. All’inizio gli dava fastidio, ma alla fine si era scordato di quell’unica condizione, la sua vita lì gli era sembrata naturale e quella condizione, che rimaneva sospesa in un angolo della sua coscienza, aveva smesso di portare con sé un senso di catastrofe imminente.

Ma l’accordo non era mai dipeso da lui. Era stato imposto a lui e ad Akane dai rispettivi genitori. E adesso, quei giorni in cui i due padri impiccioni cercavano di spingerli l’uno nelle braccia dell’altra erano finiti. Erano stati liberati dalla promessa che i due vecchi amici si erano fatti tanti anni prima.

Eppure il dojo Tendo era la sua casa e i Tendo erano la sua famiglia. Il signor Tendo era come uno zio eccentrico e un po’ folle, ma benintenzionato. Kasumi era come una dolce sorella maggiore, che si prendeva cura di lui e di tutti gli altri. Nabiki era come una cugina birichina e combinaguai che lui guardava sempre con diffidenza, ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di trovarla simpatica e di ridere delle sue stranezze. E naturalmente, Akane… Be’…

Akane era…

La sua fidanzata. E casa, per lui, era dovunque ci fosse anche lei. E giusto o sbagliato che fosse, lui desiderava tanto tornare a casa.

La sua presa sulla matita si strinse all’improvviso, quando la mano ebbe uno “spasmo” e si serrò involontariamente mentre ricominciava a scrivere. ‘Che cos’è una casa, comunque?’ Solo porsi questa domanda lo faceva sentire vuoto, perché sapeva perfettamente che per la maggior parte delle persone la risposta era semplice. “Ma non per me,” borbottò agitato. Aveva trascorso un’infinità di anni alla ricerca di una casa, senza neanche rendersi conto che stava cercando proprio quello. Era la cosa che mancava nella sua vita. E quando aveva pensato di averla trovata, si era sentito così stranamente in pace con il mondo. Ma la pace non era fatta per lui e neanche il dojo Tendo, perché non appena aveva cominciato a sistemarsi e a sentirsi sicuro, le mura di cristallo delle sue illusioni gli erano crollate addosso ed una voce cupa lo aveva preso in giro, dicendo, “Scusa tanto, ma non era per te. Vai avanti, il tuo viaggio non è ancora finito.”

“Andare avanti dove?” chiese alla voce impietosa nella sua mente. “Io non voglio andare da nessun’altra parte!” Gli occhi di Ranma si strinsero e lui si arrabbiò con i suoi stessi pensieri. Erano i pensieri di un uomo debole e lui di certo non aveva intenzione di scrivere una cosa stupida come quella. Oltretutto, non è che non avesse altre opzioni. Aveva una valanga di opzioni. Sorrise e scrisse questo invece, continuando a ricordare a se stesso di non avere bisogno dei Tendo.

‘Mi serve sempre un piano, però. Qualcosa da fare. Forse potrei ancora insegnare al dojo Tendo,’ scrisse speranzoso, senza rendersi conto della rapidità con cui i suoi pensieri e i suoi piani erano tornati ai Tendo. ‘Non so proprio cos’altro potrei fare, a parte forse viaggiare per tutto il Giappone e sfidare altri dojo. Sì, e distruggere l’eredità di altre scuole di Arti Marziali? Ne ho avuto abbastanza, per ora.’

Tutt’a un tratto, non ci vide più bene e si asciugò gli occhi con la manica per liberare il campo visivo, per poi riprendere in fretta a scrivere per nessun altro motivo se non quello di distrarsi. ‘Giusto. Me ne ero quasi dimenticato. La Scuola di Arti Marziali Indiscriminate Saotome ha subito un colpo mortale oggi, grazie a me. La Scuola Tendo non vorrà avere più niente a che fare con me. Sono una maledizione…’

‘Ma che m’importa, se non mi vogliono? Sto meglio senza di loro e il loro stupido dojo. Sto benissimo qui dove sono. Anche se non posso restare accampato per sempre in questa radura. Dovrò andare da qualche altra parte, prima o poi. Ma quando lo farò, avrò sempre la mia tenda, almeno. E, ehi, ho passato più notti a dormire sotto questa tenda che sotto il tetto dei Tendo, comunque. Semmai è questa tenda la mia casa. Dopo tutto ho trascorso sedici anni di vita con questa tenda, viaggiando con papà per tutto il paese nel nostro dannato viaggio di addestramento.’

Si accigliò, immaginando ancora una volta il suo futuro, ed ignorò la strana stretta allo stomaco che gli faceva venire voglia di piegarsi in due dal dolore. Non voleva ammetterlo nemmeno con se stesso, ma vivere di nuovo in quel modo sembrava così squallido e senza senso. Non serviva più ad uno scopo. Era solo una strada da percorrere, senza fine. Una strada da percorrere da solo.

Ranma non voleva stare solo. ‘Mi chiedo dove starà mamma, adesso. Potrei sistemarmi con lei, ma sto arrivando ad una fase della vita in cui dovrei essere io a prendermi cura di lei, non il contrario. Devo trovare un modo per mantenere tutti e due, adesso.’

Cominciò a valutare le sue cosiddette “opzioni”, principalmente per necessità e non certo perché le apprezzasse sul serio. ‘Mi chiedo se le piacerebbe andare in Cina. Vivere con le amazzoni? Probabilmente no. Shampoo non le è mai stata troppo simpatica, comunque. E sono certo che non le piacerebbe molto vedere il suo figliolo ‘virile’ trattato come un cittadino di seconda classe. Ukyo? Sarebbe meglio. Almeno potrei contribuire dando una mano con il ristorante, in qualche modo, ma… io non la amo. Neanche Shampoo, se è per questo. Però devo fare qualcosa e… Oh, ma quanto sono patetico? Voglio dipendere da una donna per mantenermi? Pare che alla fine io sia veramente un parassita, proprio come quello stupido buono a nulla del mio vecchio…’

Ancora una volta, strappò la pagina dal quaderno e la gettò nel fuoco, rifiutandosi di guardarla e limitandosi a ricominciare a scrivere.

‘Ma non so cosa fare, adesso. E non so dove andare… voglio tornare là, ma non so se posso e…’ La matita si spezzò all’improvviso fra le dita e lui la gettò nel fuoco, frustrato. Sentiva che stava andando a fondo. Gli stava sfuggendo tutto di mano, una cosa dopo l’altra, senza che lui potesse fare niente. Si sentiva inutile. Impotente. Debole. Era questo lo scopo di questo stupido diario? Se era così, non ne aveva bisogno.

“Al diavolo!” imprecò. “Non mi sta aiutando affatto! Stupida Akane e le sue stupide idee,” urlò. “Pensa di sapere tutto. Ma i ragazzi non scrivono diari. I ragazzi non stanno lì a pensare ai propri sentimenti. I ragazzi non piangono…”

Guardò in cagnesco la pagina che aveva di fronte, non avrebbe saputo dire per quanto tempo, finché delle gocce cominciarono a caderci sopra e lui chiuse il quaderno di scatto, sollevando lo sguardo verso il cielo senza nuvole. “Sembra che piova,” osservò, portandosi le sue cose nella tenda prima che le condizioni meteorologiche potessero contraddirlo. Si stese nel sacco a pelo e fissò il soffitto di tela.

“E già. Questa è la vita. Io e te, vecchia tenda. Ne abbiamo passate tante insieme e supereremo anche questa senza problemi, che ne dici?” Aspettò, ma non ci fu nessuna risposta e lui si accigliò al suono del silenzio. Non che si aspettasse di sentire alcunché, ma mancava qualcosa. Era tutto troppo silenzioso.

Sospirò e si girò su un fianco, chiudendo gli occhi e cercando di dormire. Provò a meditare e a schiarirsi le idee, ma il vuoto e il silenzio erano assordanti e c’era sempre quel qualcosa che mancava e che lui non voleva riconoscere, ma che continuava a rodergli l’anima come una fastidiosa puntura di zanzara che non si può fare a meno di grattare. O forse, più precisamente, una vecchia ustione guarita più di dieci anni prima.

“Inspira, espira, inspira, espira…” Continuò il mantra, concentrando inutilmente tutta la sua attenzione sull’atto e il pensiero del respirare, mentre i minuti passavano senza che se ne accorgesse. Ma non servì comunque a niente. Non riusciva a dormire. Mancava qualcosa.

Prima che fosse costretto ad ammettere cosa fosse quel qualcosa, le sue orecchie allenate furono messe in allarme dal rumore di un ramoscello che si spezzava sotto il piede di qualcuno, seguito da un’imprecazione sussurrata a bassa voce. Tirò un sospiro di sollievo per la distrazione in arrivo e, senza che potesse controllarlo, un lieve sorriso si fece strada sul suo volto. Heh. Lo sapevo! Lo sapevo che sarebbe venuta a ficcare il naso, prima o poi… Non poteva certo lasciarmi in pace. Provava sentimenti contrastanti sul fatto che lei fosse qui, ma almeno le era grato perché il suo tempismo non avrebbe potuto essere migliore.

Ascoltò con attenzione i passi leggeri ed esitanti che si fermavano, poi ci fu un fruscio tra i cespugli, che indicava il recupero della ciotola dal posto in cui l’aveva gettata prima. Riusciva quasi a vederla davanti ai suoi occhi, mentre dava uno sguardo all’accampamento con occhio critico e preoccupato. Sapeva perfettamente cosa stava pensando di lui.

Il pensiero lo fece vergognare. Eppure in quel momento non gli importava. Una parte di lui era semplicemente troppo felice che lei fosse qui, anche se non poteva ammetterlo con se stesso o con lei.

Perché è qui? si chiese. Akane. Era sempre stata un mistero insondabile per lui. Un minuto lo odiava e lo riduceva quasi in fin di vita a forza di picchiarlo, e lui non voleva avere niente a che fare con lei. Ma poi, un attimo dopo cominciava a ridere o sorrideva e… il suo cuore si fermava.

E lei si preoccupava per lui. Piangeva per lui quando stava male. Lo aiutava quando ne aveva bisogno. Questo lo terrorizzava, pur sapendo che non era questa la sua intenzione. Non era abituato a dipendere da qualcuno, a contare sul fatto che qualcuno lo aiutasse. Era abituato a badare a se stesso. Non voleva avere così tanto bisogno di lei. Lo rendeva debole e allo stesso tempo lo rendeva forte. Sentiva di valere di più quando era insieme a lei, ma sapeva che nel momento in cui avesse cominciato a fidarsi e a dipendere da lei, sarebbe stata la fine. Avrebbe perso. E quando lei lo avrebbe lasciato, lui non sarebbe stato più in grado di andare avanti da solo.

Ed era per questo che lei era qui dopotutto, no? Per dirgli addio? Per confermare i suoi sospetti sul fatto che non ci sarebbe più stato un futuro per loro. “Molto bene, allora. Se è così, le farò vedere che sto bene da solo. Non ho bisogno di lei, né di nessun altro… va tutto bene. Sì. Gliela farò vedere…”

Ascoltò ancora i suoi piedi che riprendevano a muoversi, incedendo leggeri sul terreno e fermandosi proprio davanti alla tenda.

“Ranma?” chiamò infine lei, esitante.

“Sì, Akane, che c’è?” ripose lui con voce calma e controllata.

Il fuoco dietro di lei proiettava la sua sagoma sulle pareti della tenda e lui guardò la sua immagine agitarsi goffamente, prima di rispondere. “Ti ho cercato tutto il giorno. Che ci fai proprio qui, tra tutti i posti che potevi scegliere?” chiese.

“Dormo,” rispose lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“…” Lei esitò. “Sono solo le otto e mezza,” gli fece notare alla fine.

“Ah,” rispose semplicemente lui. Poi, dopo un’altra pausa, fece un respiro profondo, indossò la sua solita maschera di sicurezza e aprì la cerniera della tenda per uscire. Le sorrise, in piedi di fronte a lei. “Allora suppongo che non ci sia motivo di dormire, giusto?”

“Suppongo di no,” osservò lei incerta. Lui notò che i suoi occhi gli stavano esaminando il volto con piglio indagatore e, deciso a non mostrarle niente che potesse farla preoccupare, le voltò le spalle e indicò l’accampamento con un gesto teatrale.

“Benvenuta nella mia umile dimora,” scherzò amabilmente. “Non è molto, lo so, ma posso dormire quando voglio e mangiare tutto quello che mi va e finché mi va,” disse, prendendole la ciotola di mano e sorridendo riconoscente. “Oh, e soprattutto non c’è nessuno che mi distrae dagli allenamenti,” sorrise di nuovo, cercando di dimostrarle che stava benissimo da solo, anche se sospettava che i suoi sforzi fossero inutili, perché lei a stento poteva vederlo al buio. Tuttavia, sperava che almeno riuscisse a sentirlo nella sua voce. Non riusciva proprio a sopportare il pensiero di farla preoccupare inutilmente, specialmente considerando il fatto che andava tutto bene.

Akane si limitò ad osservarlo con un’espressione perplessa, prima di rispondere. “È, uhm… È carino.” Deglutì e si agitò irrequieta ancora una volta, guardandosi intorno imbarazzata. “Ma-Ma Ranma,” balbettò a disagio, e c’era una nota comprensiva nel tono della voce che lui trovò estremamente irritante e non desiderava altro che farla scomparire. Giurò immediatamente che questa sarebbe stata la sua missione personale. “Voglio dire, perché qui? È così… così… tetro…”.

“Solo di notte,” disse lui con una scrollata di spalle, ignorando il vero significato delle sue parole. Lei lo guardò dritto negli occhi, mettendo bene in chiaro con un semplice sguardo che non aveva nessuna intenzione di lasciar perdere.

“Lo sai che non è questo che intendo. Voglio dire… non è qui che… che lui… ehm…”

Il finto sorriso di Ranma vacillò brevemente, ma riprese rapidamente il controllo di se stesso e continuò con la recita. “Ah sì?” chiese con finto sbalordimento, esagerando nel dare l’impressione di guardarsi intorno. “Ah. Immagino che tu abbia ragione. Non ci avevo nemmeno pensato. Ci siamo allenati in così tanti posti e qui, in particolare, non ricordo più quante volte. Suppongo di essere venuto qui per la forza dell’abitudine, senza pensarci.” Parlava a vanvera, ma nonostante il tentativo, si vedeva che non gliela dava a bere e lo irritò ancora di più vedere il suo sguardo fisso sulla pentola, con un’espressione di angoscia a stento contenuta.

Lei sapeva. Questa era una cosa che odiava di lei. Era troppo intelligente. Aveva scoperto che non c’erano più molte cose che riuscisse a nasconderle. Lei vedeva tutto. Anche lui vedeva tutto di lei. Non gli sfuggiva molto, di certo non il modo in cui le tremava leggermente il labbro o il fatto che tenesse la mascella serrata per trattenere le lacrime non versate, incapace di distogliere lo sguardo da quella maledetta pentola. Stava cercando di essere forte per lui, lo sapeva.

Frustrato e agitato dai suoi crucci inutili, si affrettò a rientrare nella tenda per prendere una seconda ciotola dallo zaino. Potevano anche non essere capaci di ingannarsi l’un l’altro, ma lui non aveva intenzione di smettere di provarci.

“Hai fame?” le chiese, cercando disperatamente di continuare la conversazione e dimostrarle che non c’era niente che non andasse; a questo scopo, soffocò le sue ansie e si trascinò a forza verso la pentola, versandole una porzione nella ciotola senza aspettare la sua risposta. “Ne è rimasto un bel po’ e non è niente male, modestia a parte. Era da un po’ che non mi preparavo da mangiare. Avevo paura che venisse fuori una schifezza. Invece non è niente male!” Rise nervosamente. “Scusa, devo averlo già detto, eh? Be’, comunque, ecco qui,” terminò e tornò a mettersi di fronte a lei, con la ciotola in mano e un’aria d’attesa, sperando che lei la accettasse. Sentiva che non gli sarebbe dispiaciuto tanto che lei rimanesse lì, se solo avesse smesso di… preoccuparsi.

“Grazie,” sussurrò lei, prendendo la ciotola e fissandola per un attimo, proprio come aveva fatto lui prima. Alzò gli occhi per incontrare i suoi e con suo grande sollievo fece anche lei un sorriso forzato, decidendo di assecondare la sua distorsione della realtà, e indicò il fuoco. “Ti dispiace se mi siedo?” gli chiese.

“Accomodati pure,” disse lui, scrollando le spalle indifferente, ma sorridendo contento fra sé, mentre entrambi si avviavano a sedersi intorno al fuoco. La osservò piegare le gambe sotto il corpo e sfilarsi uno zaino dalle spalle, poggiandolo a terra con cura prima di rivolgere di nuovo la sua attenzione allo stufato. L’attenzione di Ranma, invece, rimase sullo zaino, ansioso di sapere a che servisse ma troppo timoroso per chiederglielo. Lo zaino, un oggetto apparentemente semplice, era qualcosa di nuovo su cui fissarsi e portava con sé una lista infinita di domande, per lui. Perché si era portata uno zaino? A che serviva? Cosa c’era dentro? Le cose di Akane? Quanto tempo pensava di rimanere? Oppure era pieno della roba di Ranma?

Lui aveva lasciato casa sua in tutta fretta e non aveva avuto il tempo di raccogliere tutti i suoi averi. Quindi era plausibile che lei fosse venuta lì soltanto per portargli il resto della sua roba, pensando che sarebbe stato troppo imbarazzante per tutte le persone coinvolte se lui fosse mai tornato a riprendersi le sue cose. Questo, naturalmente, avrebbe confermato i suoi sospetti di non essere più il benvenuto in casa Tendo. Le spalle gli si incurvarono, al pensiero, mentre la sua mente cinica lo convinse senza troppo sforzo che fosse questo il motivo più logico per farla venire qui. Pff. Tanti saluti alla mia idea di insegnare là. Non vogliono neanche che li vada a trovare!

Eppure Ranma rimase aggrappato ad un barlume di speranza. Forse i Tendo non volevano più vederlo, ma Akane almeno era venuta qui apposta per lui. Forse per l’ultima volta. O forse l’aveva perdonato per quello che era successo e non le importava di ciò che era stato detto. Forse lo zaino conteneva le sue cose. Forse anche lei aveva lasciato il dojo. Forse era lì perché…

“Ranma? Mi stai ascoltando?”

“Eh?” Gli occhi tornarono di scatto al viso preoccupato e perplesso di Akane.

“Ho detto che è molto buono.”

“Oh, uhm, grazie. Sono contento che ti piaccia.”

“Mi piace davvero,” sorrise. “Immagino che sia positivo che uno di noi due sappia cucinare.”

Lui drizzò le antenne a questa affermazione, studiandola da vicino mentre rispondeva. “Non che abbia importanza, adesso…” suggerì.

Lei sollevò curiosa un sopracciglio, continuando a mangiare. “Che vuoi dire? C’è una ragione per cui adesso dovrebbe avere meno importanza di prima?”

“Suppongo di no,” disse lui, chiedendosi se non stesse vedendo troppe implicazioni dove non ce n’erano. Dopotutto, lei sembrava non essersi proprio accorta dei suoi pensieri, perché scrollò le spalle e si concentrò di nuovo sul pasto. Lui continuò a guardarla, non volendo ammettere di sentirsi stranamente in pace per la prima volta in tutta la giornata.

Era sorpreso da quanto fosse felice di vederla. Lei lo stava davvero infastidendo a non finire con le sue domande, le sue allusioni e il diario che gli aveva dato… Bleah! Era impicciona e invadente e lui le aveva ripetuto fino alla nausea che voleva solo essere lasciato in pace. Eppure eccola lì, seduta accanto a lui a mangiare il suo cibo, davanti al suo fuoco, nel suo accampamento…

E io non voglio che se ne vada… Il pensiero gli crollò addosso come un muro di mattoni. Deglutì a disagio, incapace di rimandarlo indietro una volta espresso nella sua mente. La verità era che si sentiva frastornato e speranzoso e di nuovo vivo solo ad averla accanto a lui ancora una volta, ed era sbalordito da come era stata capace di alleviare senza sforzo il suo malessere nel momento stesso in cui era arrivata. Gli aveva dato un motivo per crederci e una speranza che forse le cose sarebbero davvero tornate a posto, dopo tutto. Non per finta. Davvero, sinceramente… a posto…

Forse mi stavo solo preoccupando per niente, rifletté brevemente. Heh. Probabilmente è qui perché vuole supplicarmi di tornare o qualcosa del genere… pensò con desiderio e gli occhi tornarono a poggiarsi sullo zaino.

Questa volta lei si accorse del suo sguardo. “Ah sì,” disse, mettendo giù la ciotola e frugando nello zaino. “Ti ho portato un po’ della tua roba,” disse e le speranze di Ranma si frantumarono all’improvviso, quasi con la stessa rapidità con cui si erano formate. “Il tuo cappotto invernale,” continuò lei tirandolo fuori. “Oh, e anche qualche altra cosa. Temevo che potessi avere freddo qui.”

“Uh uh,” rispose lui con aria assente, allungando il collo per guardare meglio dentro lo zaino. Non poté fare a meno di notare che non gli aveva portato tutto, sebbene lo zaino fosse piuttosto pieno, anche dopo che aveva finito di passargli roba. Ok, pensò, trovando di nuovo una ragione per sperare. Non c’è motivo di saltare alle conclusioni. Forse non intendeva dire niente di particolare. Forse davvero voleva solo portarmi dei vestiti più caldi…

Prese un respiro profondo e aprì la bocca per testare la sua teoria. “Già… Mi dispiace aver lasciato tutta quella roba. Io, uhm, passerò a prendere il resto dopo il, ehm…” Lei sussultò e lui si fermò, tossendo per cambiare argomento.

Lei rimase con lo sguardo basso per un attimo e quando infine lo sollevò, il suo sorriso era goffo e forzato. “Non c’è bisogno. Non ci dà fastidio. La tua… La tua roba può restare lì per tutto il tempo che vuoi.”

Lui tirò un leggero sospiro di sollievo. Ok, quindi posso tornare, almeno a fare visita, ma… Si accigliò, cercando di capire il significato della sua affermazione. Aspetta un attimo, la mia roba può restare lì e io no? Cazzo! imprecò dentro di sé. Perché deve essere così vaga? si lamentò, non avendo ancora ricevuto la risposta definitiva che stava cercando. Posso tornare? voleva chiederle.

Però non glielo chiese e lei non rispose e, mentre lei tornava a frugare nello zaino, lui riprese a chiedersi perché poi gli importasse così tanto. Non ho bisogno dei Tendo. Non ho bisogno del dojo. Ho la mia tenda, ho le arti marziali, questo è tutto quello di cui ha bisogno un ragazzo come me. Non ho bisogno né di Akane né di nessun altro.

“Ah, ecco, ti ho comprato questo per il tuo compleanno, ma ho pensato che forse era meglio dartelo adesso,” disse lei, passandogli un nuovo lettore cd.

“Oh, uhm, grazie,” disse lui, prendendo il lettore e fissandolo, e i suoi pensieri si concentrarono più sui motivi per cui gliel’aveva dato in anticipo che sul regalo in sé e per sé. Me lo sta dando adesso perché pensa che ne ho più bisogno adesso, oppure perché pensa che non ci vedremo quando sarà davvero il mio compleanno? Decise che pensare a tutti questi “se” e “ma” lo avrebbe di certo fatto impazzire, quindi mise da parte le domande e le sorrise. “È praticamente perfetto, in questo momento,” disse amichevolmente. È un bel regalo. Servirà a coprire la mancanza di rumore…

Lei sorrise, contenta di aver fatto una cosa giusta. “Già be’, quello vecchio sembrava proprio sul punto di morire, quindi…”

Si portò immediatamente una mano alla bocca e per un attimo sembrò inorridita. Lontano dall’essere sconvolto o arrabbiato, però, lui le era grato per il suo piccolo errore e in qualche modo l’espressione che aveva sul viso gli sembrò divertente. Improvvisamente, scoppiò in una risata fragorosa e all’inizio lei saltò su sorpresa, poi strinse gli occhi e le labbra e lo guardò torva. “Cavoli, Akane,” scherzò lui. “Sei proprio un’imbranata, anche con le parole!”

“Be’, scusa tanto!” sbuffò lei, incrociando le braccia sul petto e incenerendolo con lo sguardo.

“No, no, non ti preoccupare. Ma smettila di essere così gentile, ok? Mi fai venire i brividi. Non c’è motivo di essere preoccupata per me. Io sto bene.”

“Davvero?” chiese lei scettica.

“Sì,” annuì lui con sicurezza; fiero della sua abilità di dirlo così facilmente ad alta voce. “Sono solo rimasto un po’ scioccato, questo è tutto. Il momento non era proprio quello adatto.” Continuando a parlare, lanciò uno sguardo al punto a caso nella radura dove prima aveva messo la pentola. “All’inizio ho pensato che stesse meditando e poi ho pensato che si fosse addormentato mentre meditava,” disse roteando gli occhi. Ma poi tutt’a un tratto, la sua facciata gioviale crollò e gli occhi si chiusero per nascondere tutto, come se davvero il pensiero l’avesse colpito per la prima volta. “Avrei dovuto controllarlo prima,” continuò. “Forse…”

In un attimo, lei gli si era avvicinata e la sua piccola mano aveva coperto quella di Ranma. Lui sollevò lo sguardo per incontrare i suoi occhi. Sapeva già quello che avrebbe detto, ma aveva comunque bisogno di sentire quelle parole, anche se alla fine non avrebbero significato nulla per lui.

“Ranma, non avresti potuto sapere in alcun modo che sarebbe successa una cosa del genere. E poi il dottore ha detto che se ne è andato molto in fretta e…” la voce le si strozzò leggermente e lei dovette fare una pausa prima di continuare. All’improvviso, tutta l’attenzione di Ranma era concentrata sul suo viso piuttosto che sulle sue parole e si accorse di essere incantato dal modo in cui le lacrime non versate che le riempivano gli occhi ne cambiavano la tonalità, dall’intenso color cioccolata che gli era così familiare ad un ipnotico e luminoso color ambra che non aveva mai visto prima. Poi le ciglia si abbassarono per un istante e le lacrime furono libere di scivolare via, scorrendo lungo le guance come piccoli fiumi. Lei lo guardò di nuovo, con un’angoscia così pura che per un attimo fu lui a voler consolare lei, dimenticandosi che era così triste per causa sua. Come se possedesse una mente autonoma, la sua mano si posò sul viso di Akane, asciugandole le lacrime con il pollice e coprendole la guancia con il palmo con fare rassicurante. Lei sorrise tremante e sollevò una mano per poggiarla sopra la sua e lui avrebbe voluto concentrarsi solo sul suo sorriso e sulla sensazione che gli dava sentire la sua mano sulla propria. Ma sfortunatamente, la sua voce lo risvegliò dall’incantesimo in cui era caduto.

“Non è stata colpa tua, Ranma,” sussurrò, supplicandolo di capire. Le parole furono come una scarica elettrica che lo riportò bruscamente alla realtà. Si irrigidì e a lei sembrò quasi di riuscire a vedere le barriere che tornavano al loro posto. “Non… Non avresti potuto fare niente,” insistette disperata, ma lui si stava già allontanando.

“Sì, lo so,” disse in modo molto poco convincente, scrollandosela di dosso e girandosi ad esaminare il suo nuovo lettore cd. “Ehi, che figata, prende anche la radio? Ingegnoso.”

Akane si accigliò. “Non diceva sul serio, sai?”

“Eh?” chiese distrattamente Ranma.

“Mio padre. Non diceva sul serio. Era solo sconvolto e scioccato e… Non pensa davvero che sia colpa tua.”

“Oh, cavoli. Lo so,” rispose lui, ancora una volta in modo molto poco convincente. “Non è mica preoccupato per questo, vero?”

Continuava ad armeggiare con il lettore e lei continuava a guardarlo preoccupata, rifiutando di farsi scoraggiare dalle sue domande. “Voleva che ti dicessi che gli dispiace.”

Ranma si fermò, mentre gli interrogativi sul perché lei fosse lì tornavano ad essere in prima fila nella sua mente. “È per questo che sei venuta?” chiese a bassa voce.

La domanda, in qualche modo, riuscì a confonderla. “No! Cioè, sì. Cioè… Be’, questo è uno dei motivi, però ero anche preoccupata e…”

“Te l’ho già detto, Akane, non voglio la tua pietà. Sto bene,” ringhiò lui, un po’ più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Fortunatamente, lei era immune ai suoi scatti di rabbia e continuò imperturbata.

“Ranma. Tu non stai bene. Come puoi stare bene? Tuo padre è appena… Lui è…”

“È morto!” urlò Ranma. “Ok? È morto. Sei contenta, adesso? L’ho detto! Non lo nego più. Sono andato avanti. Complimenti per avermi fatto superare quel famoso primo stadio del lutto di cui non finisci mai di parlare! Qual è il prossimo, eh?”

“La rabbia,” rispose lei seria in volto, per niente sconvolta dal suo comportamento.

“Pff,” sbuffò lui, sentendosi leggermente imbarazzato. Quindi si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la radura per cercare di calmarsi. Una parte di lui voleva farlo solo per dimostrarle che si sbagliava. Voleva dimostrarle che non era arrabbiato e che non era in lutto e, cosa più importante, che lei non poteva prevedere il suo umore basandosi su uno stupido libro sul lutto che aveva letto.

Lei però non si arrese, decisa ad affrontare la questione. “Il funerale è venerdì,” disse. “Pensi di poter scendere abbastanza a lungo dalla tua preziosa montagna e partecipare?”

“Sì, ci sarò,” sbottò lui, ficcandosi le mani in tasca e dando un calcio alla polvere.

“Bene,” disse lei. “Tua madre temeva che non saresti tornato in tempo. Anche lei è sconvolta, sai.”

Lui trasalì, sentendosi un po’ colpevole. “Sì, sì,” borbottò, mentre l’agitazione svaniva del tutto. Alla fine la smise di piangersi addosso e ritornò vicino al fuoco, dove lei sedeva in silenzio a mangiare lo stufato, con un’espressione fissa in una maschera concentrata e immutabile. Lui sospirò e si lasciò cadere pesantemente accanto a lei, preparandosi per il secondo round della discussione. Tuttavia, lei non diede segno di essersene accorta, cosa che lo frustrò ancora di più.

Incrociò le braccia sul petto e mise il broncio come un ragazzino, guardando di sfuggita la sua faccia testarda. Oh, ha già finito di parlare? Aprì la bocca diverse volte per poi richiuderla ripetutamente, prima di trovare finalmente la frecciata perfetta, a cui era sicuro che lei avrebbe risposto. Fece un sorrisetto, sentendosi già la vittoria in tasca. “Pensavo che si dovesse essere gentili con le persone, quando sono in lutto,” la punzecchiò.

“E io pensavo che tu stessi bene,” rispose lei anche troppo in fretta, senza neanche distogliere lo sguardo dal fuoco.

Il sorrisetto svanì immediatamente e lui si voltò dall’altra parte con un sonoro “Pff.”

Inutile dire che la risposta di Akane lasciava molto a desiderare. Lei non gli stava dando neanche un po’ del confortante botta e risposta che era quasi diventato il sale della sua vita. Le lanciò un’occhiata di sbieco, mentre spolpava lo stufato su cui stava enfaticamente concentrando tutta la sua attenzione, anche lei con un’espressione agitata sul viso. Mentre la osservava, l’espressione di Ranma si addolcì, lasciando il passo ad un’ondata improvvisa di affetto e di tenerezza per quella strana ragazza che non era mai stata quello che lui credeva di volere, ma era sempre stata esattamente quello di cui aveva bisogno. Odiava doverlo ammettere, ma Akane era una buona amica. La migliore amica che potesse mai desiderare. Quel genere di amica che era sempre brutalmente onesta con lui e non si limitava mai a dire quello che voleva sentirsi dire. Poteva sempre fare affidamento sul fatto che Akane gli avrebbe detto l’amara verità che doveva affrontare, anche a costo di cacciargliela a forza in gola se necessario. Ci teneva troppo a lui per non dirgli quello di cui aveva davvero bisogno, anche se voleva dire farlo arrabbiare con lei, e lui sapeva anche che in qualsiasi circostanza lei ci sarebbe sempre stata per lui, almeno finché il destino non li avesse separati.

Gli sembrava tutto così strano. I suoi sentimenti per lei erano così contraddittori da mandarlo in confusione. Non riusciva minimamente a capire come fosse possibile che lei avesse la capacità di fargli saltare la mosca al naso ed esasperarlo come nessun altro, eppure allo stesso tempo… non poteva sopportare di starle lontano. Non aveva senso.

Suppongo che questo voglia dire che sono innamorato di lei… Non che abbia più importanza, ormai.

La sua espressione diventò più curiosa, mentre continuava a fissarla e rifletteva su cosa avrebbe significato per loro due la morte di suo padre.

Avrebbe voluto essere certo che non sarebbe cambiato niente fra loro. Avrebbe voluto essere certo che sarebbero rimasti insieme per sempre. Non riusciva a immaginare la sua vita senza di lei. Non voleva perderla. Aveva già perso abbastanza e sentiva che lei era l’unica cosa che gli impediva di crollare.

Ma non sapeva più come fare a tenersela stretta.

Ci siamo fidanzati solo per via dei nostri padri. Abbiamo passato tutto quel tempo a combattere contro questa cosa e adesso… Be’, immagino che adesso siamo liberi. Il signor Tendo probabilmente la smetterà di farci pressioni. E poi ha messo bene in chiaro quello che pensa di me.

Voleva che ti dicessi che gli dispiace,” le parole di Akane riecheggiarono nella sua mente. Si chiese se le cose stessero davvero così, o se non fosse solo una cosa che lei si era inventata per farlo stare meglio. Il padre di Akane lo aveva davvero perdonato così facilmente? Non sembrava una cosa che uno dimentica così rapidamente. Dopotutto, il miglior amico del signor Tendo era morto e Ranma non poteva fare a meno di sentirsi responsabile. Io sono responsabile… pensò, mentre la realtà gli crollava addosso ancora una volta, spingendolo ad allontanare l’unica fonte di conforto di cui esitava persino a riconoscere l’esistenza. Non mi merito neanche la sua amicizia, figuriamoci… Deglutì e bloccò il pensiero sul nascere, preferendo seguire il filo del ragionamento precedente, che trovava più rassicurante.

“È stata colpa mia, sai,” ammise lentamente, consapevole solo in parte di parlare ad alta voce. “Sono stato io a decidere di venire qui per allenarci. Anche se sapevo che non si era sentito bene, ultimamente… Non so cosa mi sia venuto in mente. Forse pensavo che si era impigrito troppo e un po’ di esercizio gli avrebbe fatto bene. Lui non voleva venire. Avrei dovuto prenderlo come un segno. Non aveva mai rifiutato di partire per un viaggio di allenamento, prima. Ma alla fine è venuto lo stesso. E poi non abbiamo fatto altro che litigare, proprio come al solito. E lui se ne è andato laggiù a meditare, tutto arrabbiato,” disse, indicando di nuovo quella maledetta pentola con un gesto spasmodico. “E io l’ho lasciato lì,” urlò, e continuò la sua invettiva, alzando il tono della voce con le emozioni che andavano sempre più fuori controllo. “L’ho lasciato lì per tre ore! Sarei dovuto andare prima a controllare. Avrei dovuto sapere che qualcosa non andava. Non avrei dovuto portarlo quassù. Era un posto troppo isolato e io non ho potuto trovare aiuto in tempo e…”

“Ranma, smettila!” urlò lei. “Ti prego! Non serve a niente. Nessuna di queste cose ha più importanza ormai e tu lo sai. Anche se avessi fatto tutto per bene, non sarebbe cambiato niente. Sarebbe morto lo stesso. Non è stata colpa tua!” insisté.

Lui serrò le mascelle, rifiutando di accettare quello che lei aveva detto, e fissò le fiamme.

“Ranma? Mi hai sentito? Ho detto che non è stata…”

“Sì sì, ti ho sentito. Smettila di ripeterlo, adesso.”

“Allora guardami.”

Lui sospirò in maniera esagerata e girò gli occhi verso di lei, guardandola arrabbiato. “Che c’è?”

“Ranma,” cominciò lei. “Non è stata…”

“Lo sai qual è l’ultima cosa che gli ho detto?” chiese lui interrompendola. Lei rifletté per un momento se chiederglielo o no, poi si limitò a scuotere la testa in segno di negazione. “Gli ho detto ‘Crepa, vecchio stupido!’ ” Akane trasalì e abbassò tristemente lo sguardo, mentre lui sorrideva cupo, provando un piacere perverso nell’aver vinto questa piccola battaglia. Lo aveva costretto a guardarla per dimostrargli di non essere disgustata da lui e lui le aveva dimostrato che si sbagliava, invece, costringendola a distogliere lo sguardo per il ribrezzo. Perché era vero. Lui era davvero un essere spregevole.

“Coraggio,” la punzecchiò, sentendo che non sarebbe stato soddisfatto finché non lo avesse odiato come si odiava lui. “Prova a risolvere questo, adesso. Prova a mettere le cose a posto. Ti sfido.”

“Non posso,” sussurrò lei.

“Non puoi?” sbuffò lui. “Oh, ma che brava Akane, complimenti! Questo sì che è d’aiuto!”

Lei ricambiò il suo sguardo truce, ma rifiutò di arrendersi. “Ti sto solo dicendo la verità. Io non posso risolverlo, perché non c’è niente da risolvere. La morte fa schifo. Fa male. È così che funziona. È la dimostrazione che ci tenevi.”

Lui sbuffò ancora una volta, ma non poteva negare che lei avesse guadagnato terreno con questa affermazione e, sentendosi di nuovo a disagio, distolse ancora lo sguardo da lei. “Sì, già, se ci tenevo, non si è visto di certo.”

“Non serve a niente rimpiangere quello che hai detto e quello che non hai detto,” sussurrò lei. “Ma una cosa la so di sicuro. Tuo padre era molto orgoglioso di te.”

Lui alzò gli occhi al cielo a questa affermazione. Gli sembravano parole assolutamente scontate e senza senso e voleva che lei la smettesse di parlare. “Sì, come vuoi tu, Akane. Solo dacci un taglio, va bene? Non mi stai aiutando affatto. Va’… vattene a casa, ok? Non ti voglio qui. Non ho bisogno né di te né di nessun altro!” insisté.

“Di’ pure quello che vuoi, ma non ti libererai di me così facilmente. Tuo padre non ti odiava e neanch’io ti odio.”

Ranma sospirò, perdendo improvvisamente la voglia di controbattere. Lei avrebbe vinto di nuovo e avrebbe smascherato il suo bluff senza problemi. Akane era irritante, ma lui non voleva davvero che se ne andasse e lo sapevano tutti e due. Però c’era una specie di malsana soddisfazione a fare la parte del martire e aveva voglia di crogiolarsi nella tristezza e provocarla, giusto per vedere fino a che punto lo avrebbe sopportato. Avrebbe sopportato parecchio e senza battere ciglio. Questo era certo. Per cui era inevitabile che lui decidesse di arrendersi.

Odiava perdere, anche ad una stupida battaglia verbale. Forse voglio davvero che se ne vada. Non voglio parlare di queste cose. Perché non lo capisce? Gli pareva quasi di vedere le rotelle che giravano nella sua testolina, mentre rifletteva sulla prossima risposta da dargli, e aspettò che parlasse con un misto di aspettativa e paura. Quando alla fine parlò, le parole che uscirono dalla sua bocca furono le ultime che lui si aspettava di sentire.

“Io ti odio,” sussurrò solennemente Akane.

“Scu-Scusa?” chiese lui, confuso e sorpreso che lei potesse dire qualcosa che addirittura lo facesse sentire peggio di come già stava. Ma poi lei continuò e lui capì.

“È l’ultima cosa che ho detto a mia madre. Le ho detto che la odiavo.”

“O-Oh,” sospirò lui, timoroso di ammettere quanto si sentisse sollevato dalle sue spiegazioni. Ma poi pensò a quello che aveva detto. “Oh!” disse ancora una volta, sbalordito dalla sua improvvisa ammissione. Non gliel’aveva mai detto prima. “Perché?”

Lei rise amaramente. “Non me lo ricordo neanche. Credo che avesse accidentalmente gettato nella lavatrice uno dei miei peluche preferiti e l’aveva rovinato o qualcosa del genere… E poi è morta,” disse bruscamente. “È successo all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. Proprio com’è successo a tuo padre. E naturalmente mi sono sentita un mostro per un sacco di tempo. Non riuscivo a perdonarmi, sapendo che era morta pensando che la odiassi. Ma alla fine mi sono resa conto che non era vero. Mia madre sapeva che io le volevo bene. Dubito altamente che l’ultima cosa a cui ha pensato siano state le parole che le ho detto. Eppure vorrei davvero che l’ultimo ricordo che ho di lei fosse più piacevole. Ma so che anche se lo fosse stato, avrei trovato qualche altro motivo per sentirmi in colpa. Che non la aiutavo abbastanza in casa, che passavo più tempo ad allenarmi con papà che con lei o… qualcos’altro.” Scrollò le spalle. “È normale sentire la mancanza delle persone che amiamo e avere dei rimpianti, e quando non riesci a capire perché è successa una cosa, è naturale voler dare la colpa a qualcuno e la persona più facile da incolpare sei te stesso.”

Lo guardò, seduto in silenzio alla luce del fuoco, e vide che stava assimilando quello che aveva detto, anche se aveva la mascella serrata e stava facendo del suo meglio per farselo scivolare addosso. Sorrise con affetto, pensando che lui era fatto così, era un combattente nel profondo dell’animo, testardo fino alla fine.

Si piegò in avanti e gli diede una pacca d’incoraggiamento sulla spalla. “Mi dispiace che tu abbia perso tuo padre, Ranma… Ma devi sapere che questa è l’unica cosa che hai perso. Tutti quanti noi… siamo ancora qui. Non è cambiato niente.”

Lui incrociò il suo sguardo. “Niente?” chiese speranzoso, guardandola di nuovo.

“Niente…” rispose Akane con un sorriso, prima di tornare allo stufato.

Rimasero seduti in un silenzio confortevole, mentre Ranma rifletteva su quello che lei aveva detto. Non sapeva perché, ma era ancora pieno di dubbi. Non era soddisfatto. Non era sicuro. In fin dei conti, lei non aveva ancora risposto alla domanda più importante di tutte. O forse aveva risposto, ma lui non era pronto ad accettarlo. Dopotutto, una parte nascosta di lui sentiva ancora di essere responsabile e di non avere il diritto di tornare là. E lui non voleva illudersi con false speranze, aveva troppa paura di quello che sarebbe successo se avesse scoperto che si sbagliava e che in realtà non poteva più restare a vivere con loro.

Un altro pensiero, poi, ronzava in un angolo della sua mente. Si sentiva in pace con lei seduta accanto, anche in silenzio. Poteva opporre resistenza e negarlo quanto voleva, ma la verità era che per qualche strano motivo, per quanto fosse irritante e invadente, la voleva accanto a sé. Era questo il suo posto. Sempre accanto a lui. E sapeva che una volta andata via, lui sarebbe stato di nuovo perso. Non voleva che se ne andasse.

Era questo il problema. Il suo essere lì lo rendeva incredibilmente felice, ma allo stesso tempo gli faceva un male cane. Perché sapeva che quando se ne sarebbe andata, lui si sarebbe sentito mille volte più vuoto di prima.

Riusciva a stento ad ammetterlo a se stesso, però, figuriamoci con lei, e non aveva idea di come fare per chiederle di restare. Anche se ci fosse riuscito, cosa le avrebbe chiesto esattamente? “Ehi, Akane, vuoi passare la notte qui?” Sì, certo, andrà benissimo. Di sicuro capirà una cosa per un’altra.

Eppure, la sua preghiera silenziosa gli rimbombava nella mente, anche se si rifiutava di riconoscerlo. Resta con me. Stanotte. Sempre. Ti prego, non lasciarmi di nuovo da solo… Sentiva che lei era la chiave di tutto. Ma non riusciva a dirlo e non voleva ammettere quanto avesse bisogno di lei. Perché il pensiero di perderla lo spaventava e non riusciva ancora a comprendere pienamente il perché. Tutto quello che sapeva era che, per qualche strano motivo, sarebbe andato tutto bene se solo lei fosse… rimasta.

“Gochiso sama deshita²!” annunciò lei e Ranma sobbalzò leggermente, colto alla sprovvista dall’improvvisa affermazione. Lei non diede segno di accorgersene e si limitò a passargli la ciotola con un sorriso imbarazzato, senza traccia dell’evidente rabbia di prima nella sua espressione. “Grazie, Ranma. Era davvero delizioso.”

“Sì, certo. Va bene,” disse lui semplicemente, prendendo il piatto senza sapere cos’altro aggiungere. Si misero a fissare il fuoco, entrambi nervosi e agitati, e fra di loro calò un silenzio imbarazzante.

Akane si guardò intorno a disagio, per un attimo, e si morse il labbro. “Già, be’… ehm… probabilmente vuoi andare a dormire. Voglio dire, sono già…” si fermò, guardando l’orologio, e si accigliò. “Le nove,” finì, sentendosi piuttosto stupida. Da quando conosceva Ranma, non lo aveva mai visto andare a letto così presto. “Già… è proooprio tardi…”.

“Gii-ààà,” disse Ranma incerto, strascicando le parole e cercando ancora di farsi venire in mente un modo per chiederle di restare. Non voleva apparire debole, come se avesse bisogno di lei, ma allo stesso tempo non voleva che pensasse che lui non la volesse lì o che avesse iniziato a disturbarlo. Dopotutto, era venuta qui per aiutarlo e lui era stato scontroso e antipatico, cosa che non aveva fatto altro che spingerla ancora di più verso di lui. Però il suo orgoglio ancora non voleva farle sapere che aveva bisogno di lei, e di certo non voleva chiederle di restare e rischiare che lei fraintendesse e lo prendesse per un pervertito.

“Allora… ehm… forse dovrei…” cominciò Akane, alzandosi in piedi con lentezza esagerata. Poi, mentre si metteva lo zaino in spalla, si stiracchiò in modo teatrale, come se fosse stanca morta. Si spinse addirittura fino a sbadigliare, per fare scena. “Mmm, credo che dovrei tornare a casa…”

“G-già, credo di sì,” rispose Ranma tetro, chinando il capo, piuttosto arrabbiato con se stesso per essersi arreso così facilmente.

Non si accorse, però, che Akane stava studiando attentamente la sua reazione e aveva capito in un istante tutto quello che l’orgoglio e la paura gli impedivano di dire o di chiedere. Le sue labbra si incurvarono brevemente in un lieve sorriso, poi sospirò sonoramente e incrociò le braccia sul petto. “Sul serio, Ranma, sei un cretino mastodontico!”

“Eh?” chiese Ranma stupefatto, sollevando di scatto gli occhi su di lei. Decisamente non erano queste le parole che si aspettava di sentire in quel momento.

“Sono venuta fin qui per portarti la tua roba e tu mi mandi a casa nel bel mezzo della notte costringendomi a trascinarmi giù da queste montagne al buio? Ma insomma! Che bella gratitudine. Potresti almeno invitarmi a restare qui stanotte!”

“Aspetta… Che hai detto?” la bocca si spalancò e lui si affrettò a richiuderla di scatto. “Vuoi restare qui stanotte?”

Lei fece un sorrisetto trionfante, poi roteò enfaticamente gli occhi e lasciò cadere a terra lo zaino. “Ok, se insisti.”

Nonostante quel suo modo di fare impudente, tipico di una che ti ha appena messo nel sacco, lui non poté fare a meno di sorridere ed esalò un sospiro di sollievo che non si era neanche accorto di trattenere. Quando poi lei si lasciò cadere sulle ginocchia e tirò fuori il sacco a pelo dallo zaino, il sorriso di Ranma si allargò ancora di più, perché si rese conto che aveva avuto intenzione di restare fin dall’inizio.

Insieme, pulirono in fretta l’accampamento, cosa che Ranma aveva trascurato di fare prima, e sistemarono le cose di Akane e il suo sacco a pelo nella tenda di Ranma, sentendosi entrambi un po’ imbarazzati. Qualche minuto dopo, coi visi in fiamme, si stesero ai lati opposti della tenda, dandosi le spalle. Nonostante l’imbarazzo creato dalla sua presenza, lui si sentiva più a suo agio di prima. Invece del silenzio, poteva ascoltare il suo respiro e si chiese distrattamente se Akane russasse come suo padre. Il pensiero gli fece venir voglia di ridere. Chissà perché, ne dubitava, anche se era un maschiaccio.

Ma Akane era oppressa dai suoi pensieri e alla fine ruppe il silenzio con un improvviso, “Ehi. Mi sono appena accorta…”

“Che c’è, Akane?” sbadigliò lui assonnato, fingendo disinteresse, mentre lei girava su se stessa e si appoggiava su un gomito per guardare nella sua direzione.

“Immagino che non dovremo più preoccuparci del fidanzamento, giusto?” cominciò lei a disagio.

Lui si raggelò. “Uhm, già…” rispose lentamente, agitato. Sta scherzando? Se ne è accorta solo ora? Se la immaginò a rimuginare, a passare in rassegna gli stessi pensieri che erano venuti in mente a lui, a considerare tutte le implicazioni una per una. E mentre lei rifletteva, lui vide tutti i suoi sogni e le sue speranze andare in pezzi intorno a lui e il senso di pace sparire, perché lei era sempre stata la chiave di tutto.

Una vita. Una casa. Un amore. Un futuro.

Gli era scivolato via tutto dalle dita in un istante e nonostante il fatto che lei fosse lì con lui, proprio dove voleva che fosse, e sebbene fosse consapevole di amarla e si sentisse sicuro del fatto che anche lei tenesse davvero a lui…

Niente di tutto questo importava… Era troppo tardi, adesso, per sistemare le cose fra di loro. Era finita…

L’aveva persa.

Non erano più fidanzati. Non c’era nessun obbligo. Non c’era più motivo di sposarsi.

A meno che…

“Ehi, Akane?”

“Mmm?”

Lui deglutì aspramente, prima di trovare il coraggio. Oh, al diavolo! Fallo e basta…

“Mi sposi lo stesso?” chiese.

Lei si irrigidì e si prese un momento per riflettere, poi si limitò ad annuire.

“Ok,” rispose, nello stesso momento in cui lui si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo. Lei sorrise e scivolò più vicina a lui, con le braccia di Ranma che si sollevavano automaticamente ad avvolgerle la schiena, poi continuò. “Ma ad una condizione.”

“E quale sarebbe?” chiese lui esitante.

“Domani possiamo andare a casa, per favore?”

“A casa?” Gli occhi di Ranma si riempirono di lacrime, e mentre l’ultima delle sue paure scivolava via, sorrise, la strinse forte a sé ed immerse il viso nei suoi capelli.

“Sì, certo,” disse felice, con la certezza che sarebbe davvero andato tutto bene. Non sarebbe rimasto solo. Aveva qualcuno da amare e, cosa altrettanto importante, aveva una casa. “Affare fatto, Akane.”

“Bene,” sorrise Akane, chiudendo gli occhi e cominciando ad appisolarsi. Fu allora che a Ranma venne in mente una cosa che lo fece scoppiare in una breve risata.

“Che hai da ridere?” chiese lei.

“Stavo pensando… Ehi. Terzo stadio. Patteggiamento!”

Akane rise brevemente anche lei. “Stupido,” mormorò. “Non credo significhi questo…”


1. Ittadakimasu: espressione tipica giapponese prima di cominciare a mangiare. Di solito viene tradotta con "Buon appetito", ma significa più qualcosa di simile "Ricevo con gratitudine questo cibo".
2. Gochiso sama deshita: questa invece si dice alla fine del pasto, e significa qualcosa come "era buonissimo".

NdA: la storia prende il nome dagli Stadi del Lutto. Stadio 1 Negazione, Stadio 2 Rabbia, Stadio 3 Patteggiamento, Stadio 4 Depressione, Stadio 5 Accettazione. Solo che non ho sentito il bisogno di analizzare gli altri due :)

Scusatemi. Non lo so se questa LUNGA storia giustifichi davvero far fuori Genma, specialmente per ragioni inspiegabili. Ma sto cercando di scrivere cose diverse ed è interessante immaginare come reagirebbero i personaggi ad una vera tragedia, al lutto e al dolore.

Mi piace esplorare nuovi territori per Ranma e Akane e vedere come rispondono. Sono entrambi piuttosto prevedibili nella maggior parte delle circostanze, ma mettili fuori dalla routine ed è tutta un’altra cosa e tutto può succedere. Mi piace pensare che non siano solo una coppietta carina da cartone animato e che abbiano quello che ci vuole per una relazione solida, basata su una comprensione profonda e l’abilità di esserci sempre l’uno per l’altra. Questa cosa credo decisamente che ce l’abbiano, come coppia. In ogni circostanza, anche se litigano, sono sempre disposti a sacrificare qualsiasi cosa per aiutare l’altro e questa cosa di loro mi piace. Nonostante i difetti e i problemi, sono altruisti l’uno con l’altra, quando conta davvero. Ranma e Akane sono a posto, per come la vedo io.

Mi piace anche chiedermi cosa succederebbe se il fidanzamento fosse cancellato. Lascerebbero perdere oppure si darebbero una mossa e rivendicherebbero la loro relazione per se stessi? Io spero nella seconda.

Ok, questo è tutto. È tardi e credi che dovrei postare questa cosa prima di cambiare idea. Come ho detto prima, non so ancora se mi piace. Mi sembra che le immagini siano un po’ deboli e non so se i sentimenti di Ranma sono davvero venuti fuori. La mia esperienza con il lutto è che ti frattura la mente e i tuoi processi mentali cominciano a degradare e ad andare fuori controllo e la tua attenzione non è sempre dove vorresti che fosse. Ecco perché i pensieri di Ranma andavano un po’ al vento, ma forse è sembrato solo che fosse il mio stile ad andare al vento! Ahah!

   
 
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