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Autore: Stray_Ashes    22/04/2016    4 recensioni
“Gerard correva, da tutta la vita, e l’inchiostro se lo sentiva scorrere nelle vene, nero, intenso, dall’odore chimico e pungente, intriso di immagini e parole, bisognoso di carta su cui essere steso.
Gerard amava pensare che la sua arte gli entrasse dentro, abbastanza nel profondo da oltrepassare la pelle e strisciargli nel cuore, assecondare la forza dei battiti e correre su fino al cervello, per nutrire i suoi pensieri.
Frank voleva essere libero, libero dall’obbligo di sentire tutti giorni quelle voci, quelle grida, che lo accusavano, lo assillavano, spietate...
Frank era da solo. Aveva pensato così di poter essere al sicuro, protetto dalle lingue taglienti degli altri, ma non era vero.
La verità, era che Frank aveva un disperato bisogno di qualcuno, per ritrovare sé stesso.
E Gerard, invece, non aveva bisogno di nessuno, non finché qualcuno non avrebbe avuto bisogno di lui.”
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«Perché non mi hai lasciato morire...?»
«Perché non c'era abbastanza tristezza nei tuoi occhi, Frank.
Perché, dietro le tue iridi, c’era ancora della luce.
E non mi piacciono, gli sprechi.»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Runaways Bleed Ink
to Death
 
 

1. Sharp & Chemical (Prologue)




Il tempo era un inganno.
Ma questo, la sanno già bene tutti; a Gerard però piaceva ribadirlo, perché era importante ricordarsi di essere ombre che andavano e venivano a seconda del sole e della luce. Le persone dimenticavano di essere fantasmi passeggeri, foglie che vivevano d’estate e morivano d’autunno, neve che cadeva in inverno e si scioglieva in primavera, oppure molto prima.
Dietro non restavano che acqua e scheletri sottili, trasudanti di ricordi che sbiadivano nel tempo.
Il mondo contava i secondi, e quindi i minuti, e poi gli anni, per rendersi lo scorrere delle situazioni, relativamente presenti, calcolabili, semplici, sotto controllo.
L’uomo semplificava le cose perché aveva una mente piccola.
E anche lo spazio, anche quello sembrava un’illusione, la pellicola di una cassetta riavvolta di fretta, che a volte s’inceppa, si accortoccia, si interrompe, e poi riprende a scorrere follemente, confondendo gli occhi ed ingannando la mente.
Gerard lo vedeva fuggire, lo spazio, quello che comprendeva la stelle se sollevava il mento, quello che teneva su la luna come fosse un neo; e quasi ovunque tu andassi, ovunque tu scappassi, come fosse lo sguardo di un quadro suggestivo, il viso pallido e morto della luna ti seguiva. Come un giudice, che giudicava muto senza grazie né condanne.
Sotto al cielo scuro, tra fantasmi di fabbriche, case e muri, in un’infinità confusa di diapositive, fuggiva il mondo della Terra e dell’innegabile Natura; l’uomo ci vagava in mezzo e ci restava appiccicato, come una farfalla su una striscia di miele: restava lì a leccare la sostanza dolce, fino a consumarla, e poi sarebbe stato condannato a morire immobile, impotente, intrappolato, eppure ancora immancabilmente affamato ed insaziabile.
Non c’era miele e non c’era colla che bastasse mai. Non c’era spazio e non c’era risorsa.
Gerard abbassò il mento, premendo la fronte contro il finestrino gelido, e sentii i brividi sgattaiolare in un fremito giù lungo le braccia, sotto le maniche della felpa grigia, fino alle dita affusolate e macchiate di china.
La china. L’inchiostro... Gerard se lo sentiva scorrere nelle vene, nero, intenso, dall’odore chimico e pungente, intriso di immagini e parole, bisognoso di carta su cui essere steso, racchiuso da vene ed arterie ormai simili a punte di pennini. Gerard amava pensare che la sua arte gli entrasse dentro, abbastanza nel profondo da oltrepassare la pelle e strisciargli nel cuore, assecondare la forza dei battiti e correre su fino al cervello, per nutrire i suoi pensieri.
Forse era così davvero, forse era per questo che la sua pelle era pallida, bianca come porcellana, anziché rosata... ma probabilmente no, d’altronde Gerard aveva visto il suo sangue fin troppe volte, ed era sempre stato irrimediabilmente rosso. Uh, il suo era un gran bel rosso, comunque.
Sogghignò, piano, socchiudendo le palpebre e inumidendosi le labbra.
Il cappuccio gli nascondeva il volto dal resto del mondo, ma Gerard sentiva, nel flusso dei suoi pensieri, l’ovattato chiacchiericcio delle persone circondarlo, respirargli sul collo, in quel vagone stretto e sporco che, nella notte, carcassa di metallo su rotaie arrugginite, sballottava pigro e strideva, ferro contro ferro.
Macabro. Truce. Sapeva di città.

Poteva sembrare che Gerard si dimenticasse dell’esistenza del mondo e delle persone, che si perdesse in sé stesso, fissando punti immobili o seguendo il mondo vorticare appena oltre il vetro, ma realtà era che il suo cervello non si spegneva mai, che lo volesse o meno: le sue orecchie sentivano tutto, la sua pelle avvertiva i cambi dell’aria, le sue narici coglievano l’essenza delle persone che gli passavano accanto, e bastava l’aroma sbiadito di vaniglia, o una goccia di colonia, che nella frazione di un istante nella sua mente si creava una piccola storia, per ogni piccolo uomo, a cui generava una privata piccola realtà, e poi Gerard la dimenticava, con la velocità con cui l’aveva pensata.
Ecco: due posti avanti a lui, sedeva un uomo dallo sguardo triste, vecchio, arreso a un’esistenza vuota, lo sguardo di chi si accontenta di una pensione, di qualche ricordo di ieri e visite di nipoti troppo alle prese con la loro vita giovane, troppo giovane per amare davvero un anziano.
Gerard non sarebbe mai invecchiato così. Si ripromise che sarebbe morto, prima, piuttosto.
Chissà cosa pensava l’uomo, mentre risistemava gli occhiali scivolati sul naso e sbadigliava, senza la forza di portarsi la mano a coprire la bocca. Probabilmente, l’uomo, uhm... Mr. Wright, ecco, era stato benestante ma con dei problemi ai denti, e lo confermò lo scintillio dell’oro dentro il suo sbadiglio; il vecchio signore era stato sposato, ma evidentemente la storia era andata a male, a giudicare dalla striscia di pelle chiara dell’anulare sinistro. Forse, aveva litigato con la moglie, la quale gli aveva rotto un vaso sulla testa – mancava una striscia sottile di capelli appena sopra la tempia, come lascito di una cicatrice – e il povero Mr. Wright, aveva dovuto trovare una casa piccola in cui vivere da solo, seguendo i tre figli da lontano e vestendo sempre gli stessi quattro vestiti, dai colori cupi, distaccati, intrisi di vecchie abitudini.
Mr. Wright aspettava di morire di vecchiaia – o d’infarto, chissà, o forse crepacuore – proprio come una volta aspettava di poter timbrare il cartellino, nel ufficio in cui un giorno lavorava.
Quella era un’esistenza vuota.
Oppure no. Forse, al povero Mr. Wright la moglie era morta tanto tempo fa, e lui aveva tenuto i figli, creando piccole copie di sé, e adesso aveva solo molto sonno e molta voglia di tornare a casa, per sorseggiare minestra guardando un programma Tv futile e idiota.
A Gerard, questa seconda opzione parve più plausibile, quindi la tenne come buona. Anche se era un’esistenza vuota tanto quanto lo era prima.
L’ipotetico Mr. Wright si alzò, prese la borsa e uscì dalla carrozza per scendere alla stazione successiva, andando forse verso casa, per rilassarsi, o forse andando verso un bar, per potersi ubriacare.
Fatto stava che Mr.Wright sparì, tornò ad essere un’ombra e Gerard dimenticò la sua storia.

Tutto questo era un buon allenamento, per Gerard, lo aiutava a capire le persone, in modo che non potesse mai diventare come ciò che aveva appena conosciuto. L’esistenza delle persone che studiava, era sempre triste, e piatta. A volte aveva visto persone relativamente felici, ma banali; a volte aveva visto dei suicidi, ma non si era interessato di cercarli sul giornale del mattino, il giorno dopo; e altre volte ancora, Gerard aveva incontrato randagi e fuggitivi come lui. Questi ultimi erano i suoi preferiti, perché difficili da catalogare, da decifrare: c’era sempre una storia diversa dietro, e spesso era tragica, dalle mille sfaccettature. Quelle erano persone che avevano detto basta, un giorno, e si erano tolti dalla testa i piedi della loro stessa vita, alzandosi per iniziare a correre. Questa consapevolezza lo faceva sentire sicuro: nessuno poteva decifrare lui, perché Gerard correva già da tutta la vita.
Lui, quelle rare volte che sollevava lo sguardo ed incrociava gli occhi delle gente, non poteva non chiedersi chi stesse guardando, quale fosse la loro vita.
Si chiedeva se quello appena oltre il colore delle iridi, era dolore vero o se solo l’ombra di un film visto da poco.
Se quella macchia di sale, acqua e mascara sotto le ciglia fosse stata una lacrima, una frazione d’istante prima di salire su quel treno.
Se il sorriso di denti gialli e segnati dal fumo, fosse il sorriso sincero di chi non aveva paura, o quello tirato di chi non sapeva più come arrivare a domani.
Se la voce roca e rovinata di chi gli chiedeva il permesso di sederglisi accanto, era appena sopravvissuta a lunghe grida rabbiose, o a corti tragici litigi.
Si chiedeva se l’odore di alcool nei loro respiri aveva un perché. In genere, sì, l’aveva. Vedeva molti disperati fuggire come lui, su quei treni. Senza dove e senza meta.
Si chiedeva questo, si chiedeva che nome avessero, se avessero un cuore vuoto o pieno, se avessero la mente del sognatore e dell’artista, come lui, se si accorgessero di quanto effimera fosse la vita, di quanto infinite fossero le possibilità che l’Universo non finisse dove finivano i pianeti.
Sì, Gerard si chiedeva questo. Poi ghignava, scuoteva la testa e ricordava che non gliene fregava niente. Le persone erano noiose, con i loro problemi futili, strascichi di cenere e brace, vermi e tarme al loro capezzale, abbastanza fragili da spegnersi appena la vittima moriva. E nessuno avrebbe mai ricordato cosa era successo a quella persona, quali erano state le sue persecuzioni. Ai nati di domani non importava per davvero dei dolori dei morti di ieri.
Questa consapevolezza lo rincuorava, gli ricordava che lui non era importante per nessuno al di fuori di sé stesso, che i suoi problemi inseguivano lui e lui soltanto, come cani da caccia dai denti già sporchi dal sangue di vecchie battaglie; quando Gerard sarebbe morto, il mondo non se ne sarebbe accorto; quando Gerard avrebbe smesso di correre e fuggire, i suoi drammi e i suoi tormenti gli avrebbero assalito da dietro la schiena, schiantandosi come auto contro un muro, attraversandolo gelido come fantasmi, spezzandogli le vertebre ed incrinando le costole, scavando in fondo fino al cuore, per farlo implodere e far schizzare frammenti di vetro tutt’attorno. I suoi tormenti se li sarebbe portati dietro, sotto terra, attraverso l’Inferno, attraverso le fiamme e le pietre, le sabbie e le grida, le lacrime che per lui nessuno avrebbe mai pianto.
Lacrime mai versate erano più crude di quelle sprecate, piante su mattonelle consumate da milioni di passi, o quelle sparse su lapidi di marmo: le lacrime mai versate si portavano dietro la parte fredda, insensibile, indifferente, della sopravvivenza umana, fatta della stessa sostanza dell’aria. Nulla.
Meglio, pensava Gerard, non voleva che qualcuno piangesse per lui, perché portarsi certi pesi sulle spalle mentre si strisciava fino all’Inferno, rischiava di farti inciampare ed incastrarti tra le spine delle rose.

Gerard avrebbe voluto andarsene inosservato, un giorno. Non aveva paura, di morire, ma non aveva fretta, le sue gambe erano ancora forti, i suoi occhi grandi, verdissimi, attenti, la sua mente calcolatrice e veloce, e poteva ancora fuggire lontano, Gerard, lontanissimo, oltre i limiti di cui i muti gli avevano parlato, quelli che i sordi avevano sentito urlare, gli stessi limiti che i ciechi affermavano di aver visto, tinti di rosso, là in fondo alla strada.
Gerard pensava ai mille treni dalle mille destinazioni, città dai mille nomi e dai mille abitanti, dalle mille finestre e le mille milioni di prospettive.
Gerard pensava ai luoghi bui, ai vicoli, alle scappatoie, alle scale, alle strade, i lampioni e i marciapiedi, le opportunità e le possibilità, di perdersi e non tornare mai indietro.
Avrebbe voluto non tornare indietro mai. Avrebbe voluto perdersi guardando il cielo di una città senza nome, in cui la gente non si fermava a guardarlo, a giudicarlo.
Gerard voleva dimenticare i quattro muri grigi intrisi del sapore del fumo e dell’alcool, voleva dimenticare l’infanzia lì racchiusa, lì rinchiusa, una presenza tormentata, che come un fantasma avrebbe continuato per l’eternità a sbattere la fronte contro la stessa parete, senza ricordare come fare a passarci attraverso.
Gerard voleva dimenticare le urla di suo padre, il rumore delle bottiglie che si spezzavano, voleva dimenticare i vomiti mischiate al sangue, voleva dimenticare le botte e i lividi. Voleva dimenticare le porte sbattute con forza.
Gerard voleva dimenticare l’odore acre di sua madre, la sua pelle consumata, straccia, vecchia, voleva dimenticare l’odore dello spirito che le usciva dalla bocca, lo spirito che le aveva cancellato l’anima. Voleva dimenticare le sue mani che tremavano, i suoi momenti di pazzia e di lacrime mischiate al mascara, che colavano, inesorabili, gocce di vetro che cadendo al suolo s’infrangevano, lasciando di sé una pozza lucida... e in quella pozza affogavano le loro vite, a loro volta frammenti di uno specchio gettato al suolo, sul cemento di una strada trafficata.
Gerard voleva dimenticare le lacrime di suo fratello, le mute urla che gli si nascondevano dietro gli occhi, quelle che Gerard aspettava venissero fuori, che si unissero alle sue, perché gridassero insieme contro il mondo: Gerard, da solo, non aveva più voce da sprecare. E suo fratello, taceva.
Gerard voleva dimenticare il casino. Voleva cancellare l’odore. Voleva cancellare le immagini. Voleva eliminare il termine famiglia.
Il casino.
Il casino.
L’Inferno.
La solitudine, assoluta ed assordante, rilassante, temuta ed agognata. Gerard non voleva nessuno, non aveva bisogno di nessuno; e non lo pensava per sembrare forte, Gerard aveva un quoziente intellettivo abbastanza alto da non aver davvero bisogno di nessuno, finché nessuno aveva bisogno di lui. Si era sempre bastato. Per quasi diciotto anni. Gerard era forte, ma era anche effimero, sfuggente.
Era un vagabondo, e fuggiva da solo. Sarebbe sempre fuggito da solo.

Gerard voleva solo perdersi, non tornare mai più indietro, non salire mai più su un treno alla ricerca di una città a caso. Voleva fermarsi in un posto, in cui l’aria gli avrebbe slegato il nodo che sentiva alle budella; e allora forse poi morire.
Lo voleva, ne era quasi certo, eppure tornava sempre indietro, tornava sempre nell’inferno angusto e grigio che era casa sua, nell’Inferno in cui mancava solo il fuoco: sì, si ripromise, un giorno avrebbe acceso quel fiammifero, e avrebbe sentito l’ebbrezza di ridere in faccia a Cerbero e Caronte.
Tornava nel New Jersey, nella città violenta e interessante che odiava e rispettava.
Non sapeva perché... o forse sì?
Forse, Gerard stava solo aspettando che passasse il treno giusto.
E fino a quel momento, doveva respirare l’aria umida della sua stazione.
 
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Una goccia di sangue cadde al suolo, e un’altra con lei.
La stanza era vuota, silenziosa, muta, immobile. Testimone discreto di piccole tragedie.
Sui muri bianchi rimbalzavano respiri veloci, flebili soffi raschianti che gli strisciavano fuori dai polmoni, mentre guardava il sangue cremisi aprirsi in un fiore sul pavimento di marmo.
Frank deglutì brevemente, appoggiato al muro e piegato su sé stesso, le mani sulle ginocchia, la testa e i suoi pensieri altrove, gli occhi socchiusi verso il sangue e le orecchie ad ascoltare grida... le grida di ieri? Le grida di oggi? Già poteva immaginare le grida di domani.
Sorrise amaramente, e dopo aver tossito un ultima volta, si tirò su e lasciò sbattere la nuca contro la parete, la bocca ancora socchiusa alla ricerca di aria.
Odiava la sua salute instabile. Odiava aver dovuto correre in quel modo, ferito e nero per i lividi; la mascella doleva, il campo visivo del suo occhio sinistro era ristretto, le caviglie tremavano come budini e ancora sentiva l’adrenalina accaldargli la pelle.
I capelli scuri gli si erano appiccati alla fronte per il sudore, e Frank si ripromise di correre – no, camminare – a casa non appena si fosse ripreso, perché aveva decisamente bisogno di una doccia. I suoi zii erano a lavorare, poteva entrare tranquillamente dalla porta, senza dover sgattaiolare furtivamente nella finestra del bagno, per non far vedere troppo le macchie di sangue e il labbro spaccato. Era la nota positiva di fare a botte sul retro della scuola, potersela filare senza dare nell’occhio, e quindi avere un pomeriggio libero in più.
Libero da cosa?
Frank non lo sapeva più. Odiava dover stare a scuola, ma odiava non esserci, perché a quel punto era da solo, e quando era solo le colpe tornavano da lui, lo assillavano e tormentavano. Ultimamente, neppure più la musica riusciva a colmare i suoi sensi di vuoto... e solo le ferite aperte, le discussioni accese, la rabbia scaricata nelle risse, gli insulti, fatti da lui e riferiti a lui, gli ricordavano che era ancora vivo.
Frank era da solo. Aveva pensato così di poter essere sicuro,protetto dalle lingue taglienti degli altri, ma non era vero.
Si sentiva perduto, ignorato, e con i giorni che passavano, tutto cominciava a perdere gradualmente senso. E lui stava sempre più male, e si costringeva ad essere sempre più solo.
«Smettila di fare la ragazzina...» mormorò a sé stesso, ora che il respiro gli si era regolarizzato. Lasciò andare un sospiro sonoro, che rimbombò per le pareti abbandonate, e tese le membra per mettersi del tutto in piedi.
Ma le grida ancora gli rimbombavano nelle orecchie, assillanti, spietate, e ogni giorno s’alzavano di tono, e sembravano avere sempre più ragione. Ignorò il falso incoraggiamento che si era dato prima, perché era debole, lo era sempre stato e lo sapeva.
No, non sarebbe andato a casa.
Aveva bisogno di fare visita al cimitero.
Ora, per un motivo. Domani, forse, per un altro.

La verità, era che Frank aveva un disperato bisogno di qualcuno, per ritrovare sé stesso.

E Gerard, invece, non aveva bisogno di nessuno, non finché qualcuno non avrebbe avuto bisogno di lui.

Nell’aria densa di gennaio, si sentiva nell’aria un odore acre, intenso, un sapore simile a quello della pioggia, che era umido, selvatico, o forse più affine a quello dell’inchiostro... che era penetrante, chimico e pungente.


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***

Beh, ecco un nuovo progetto, che spero, davvero spero, di riuscire a portare avanti... poiché il personaggio di Gerard è ispirato a me stessa, se non contiamo il fatto che lui è più forte di me...
Per dire due cose, ci ho pensato su qualche tempo, e... anche se sono arrugginita con le narrazioni, e la cosa che mi viene meglio sono quei viaggi mentali e i rigiri filosofici e psicologici, mi sono buttata in questo progetto sperando nel meglio. Perlomeno, ho già il capitolo 2.
Spero che andando avanti vi piaccia, avrei davvero bisogno di un commento, perché è tutta una cosa nuova... è anche la prima Frerard un po' più "seria", temo, tanto che sono indecisa sul rating... beh, se vorrò scrivere scene rosse per la prima volta, di certo avvertirò.. ditemi voi.

Altra cosa che vorrei mettere in chiaro... la copertina della storia l'ho creata io, montando insieme due miei disegni a penna e aggiustandoli tra tavoleta grafica e Photoshop (eh, Gee aveva i capelli bianchi in partenza) sono abbastanza soddisfata di come è uscita fuori. Se volete vedere i disegni originali, potete fare un salto nella mia pagina di Deviantart, li trovate facilmente.

Considerando che scrivo strano, spero di poter fare un buon lavoro. E spero di innamorarmi davvero, di questa storia. Spero che ve ne innamoriate anche voi, forse, un giorno, se capita.
Grazie mille per l'attenzione,
_StrayAshes_


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