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Autore: Mana Sputachu    22/04/2016    6 recensioni
Ero convinta della bontà delle nostre leggi, che sposare l’uomo che mi avrebbe battuta fosse la cosa migliore, senza accorgermi di come il nostro modo di vivere funzionasse finché limitato a quelle montagne.
Ero libera come un uccello in gabbia, ma per rendermene conto avevo, ironicamente, dovuto attendere il momento in cui mi avrebbero davvero dato quella libertà.
Non perché la meritassi, ma perché era la mia punizione.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cologne (Obaba), Mousse, Shan-pu
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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6. Never say never

 

Child, don't you worry

It's enough you're growing up in such a hurry.


 

27 Dicembre 1990

 

Mai come in questo periodo il Neko Hanten è in piena attività: l’ultimo giorno dell’anno è vicino e tra ordinazioni, prenotazioni dell’ultimo minuto e cene aziendali non c’è quasi mai tempo di fermarsi a riposare.

L’unico momento che Shan-Pu riesce a dedicare a se stessa è al mattino presto, dopo aver pulito la cucina e preparato il necessario per l’apertura all’ora di pranzo, poco prima di passare alla pulizia della sala: mette via le pentole, prepara una tazza di tè e prende posto ad uno dei tavoli. Mousse in genere è ancora addormentato a quell’ora, e Shan-Pu non lo disturba. Quei venti minuti di tranquillità sono tutti per lei.

Oggi ha deciso che ha voglia di aggiornare il suo diario, così lo tira fuori dalla tasca del grembiule assieme ad una penna e comincia a sfogliare le pagine fino a trovarne una bianca.

 

Il trentuno dicembre si avvicina.

Quale momento migliore per tirare le somme e fare un bilancio degli ultimi mesi?

Credo che “turbolenti” non inizi nemmeno a descriverli: la mia vita per come la conoscevo è stata letteralmente rivoltata come un calzino, pestata e poi riconsegnatami con un biglietto che diceva “Tieni, divertiti a rimetterla insieme”. Definizione un po’ melodrammatica magari, ma abbastanza fedele ai fatti. La bomba che mi è stata lanciata addosso ha cancellato quelle che credevo essere le mie certezze e i miei punti di riferimento, costringendomi a mettere in discussione la mia intera esistenza.

Ciò in cui avevo sempre creduto, quelle leggi amazzoni che avevo sempre ritenuto giuste e insindacabili mi si erano ritorte contro a causa di un mio errore, che avrei potuto evitare se solo fossi stata capace di portare a termine la mia missione… o se semplicemente mi fossi decisa ad affrontare la realtà. Mi sarebbe bastato aprire gli occhi per rendermene conto, ma tenerli chiusi era infinitamente più comodo. E aggrapparmi alle leggi della mia tribù giustificava tutto.

A mia discolpa posso dire che non ho mai conosciuto altro se non quello che mi veniva insegnato a Joketsuzoku: fino a sedici anni non ho mai avuto alternative, qualcuno che mi dicesse che non esisteva solo quel modo di vivere, che forse avrei potuto scegliere un percorso diverso; ma quando poi mi sono trovata in Giappone, immersa in una cultura differente dalla mia, ho preferito fare un passo indietro e rimanere fedele ai miei principi di amazzone, ripetendomi che quelle regole erano valide ovunque.

Perché temevo di scoprirmi attratta da quelle novità.

 

Si ferma un attimo e inspira.

 

Ho fatto cose deplorevoli in Giappone.

Cose di cui ora mi vergogno, ma che sul momento ritenevo lecite pur di arrivare al mio scopo: sposare Ranma.

Credevo che quella fosse una giusta forma d’amore l’unica, dato che non ne conoscevo altre.

Più ci penso più mi rendo conto di quanto sia… malato, primitivo obbligare qualcuno a sposarti perché ti ha battuto in combattimento. Qualcuno che nemmeno conosci.

Ho negato l’evidenza per anni, trincerandomi dietro le regole della mia tribù e crogiolandomi nella fantasia di un ragazzo che esisteva solo nella mia testa: io non sono mai stata innamorata di Ranma Saotome, io amavo l’idea che mi ero creata di lui e che ovviamente non combaciava con quello vero. Se penso a quante volte Mu-Si, seppur accecato dalla sua stessa gelosia, ha cercato di aprirmi gli occhi… e io ho sempre risposto con la violenza verbale e la crudeltà perché mi rifiutavo di credere alle sue parole. Non potevo accettarlo, non volevo: significava ammettere la sconfitta, aver sbagliato e tornare a casa con la coda tra le gambe, umiliandomi davanti all’intero villaggio.

Piuttosto mi sarei accontentata di un amore falso, costruito a tavolino.

 

Un rumore sommesso di passi strascicati la distrae. Si volta verso le scale ma non vede nessuno: una porta che si chiude al piano di sopra, qualche attimo di silenzio, acqua che scorre e di nuovo passi. Shan-Pu sorride, pensando che probabilmente Mousse si è appena svegliato per la sua solita routine bagno-altri cinque minuti a letto-sveglia definitiva.

 

Probabilmente mi ripeto come un disco rotto, ma se sono qui a scrivere e con un ristorante avviato lo devo a Mu-Si. Mi è stato vicino quando non meritavo altro che sdegno, mi ha teso una mano e mi ha aiutata a rimettermi in piedi.

Non c’è stato… altro, dopo quell’incidente. Non era il momento e non so se lo sarà mai. E ora come ora non mi interessa nemmeno scoprirlo, perché è ormai ovvio che io e i gesti impulsivi abbiamo un rapporto disastroso. So però che gli devo tanto, e anche se lui continua a dire che è una stupidaggine so di dovergli restituire più favori di quanti possa farne in una vita intera.

Ranma, invece…

 

Si morde il labbro, indecisa sulle parole da usare; scrive un kanji, poi due, poi li scarabocchia con la penna e ritenta.

 

Ranma non lo vedo da tanti mesi, ormai.

Ammetto di non aver mai provato a cercarlo, lui ha fatto altrettanto, e a questo punto non so se si tratta di un senso di colpa particolarmente persistente o semplicemente considera la questione chiusa; se così fosse credo non me la prenderei nemmeno… per quanto un chiarimento sarebbe la giusta conclusione, mi rendo conto di avergli reso la vita un inferno negli anni passati, e dal suo punto di vista un mio silenzio è probabilmente una benedizione.

Kasumi dice che è ancora molto dispiaciuto e che non sa se sia giusto o no venire a parlarmi; lei nel frattempo ha mantenuto la sua promessa di continuare a farmi visita portando con sé qualcuno dei suoi dolci fantastici: è una bizzarra abitudine che si è venuta a creare, ma che non mi dispiace affatto.

Una volta è venuta insieme ad Akane, qualche settimana dopo la sua prima visita.

Era pomeriggio, il ristorante ancora chiuso e lei si era presentata alla mia porta per fare ammenda.

 

*

Ferma sull’uscio, Akane la osserva.

Non muove un muscolo né distoglie lo sguardo da Shan-Pu.

Quest’ultima, presa in contropiede, sente l’amazzone sopita dentro di lei svegliarsi e prepararsi alla battaglia, vecchie abitudini dure a morire.

“Non sono qui per combattere” la precede Akane quasi leggendole nel pensiero, ma è solo l’esperienza a guidarla.

“Perché sei qui allora?” chiede Shan-Pu, diffidente. “Cosa vuoi?”
“Io… volevo sapere come stai” ammette Akane, spiazzandola: di tutte le ragioni che ha ipotizzato in quei pochi istanti quella è l’ultima che poteva aspettarsi. Una risatina alle sue spalle la coglie di sorpresa, e voltandosi si ritrova a guardare Mousse che ridacchia: sospetta che il papero fosse già al corrente di questa visita, o che semplicemente si aspettasse una reazione così sospettosa da parte sua.

Shan-Pu volge di nuovo lo sguardo verso la minore delle Tendo, e solo in quel momento nota Kasumi alle sue spalle, che le sorride benevola e le fa un cenno d’assenso. Anche Kasumi sa, solo lei sembra essere all’oscuro di tutto — come sempre, pensa, ritrovandosi intrappolata in un momento che sembra la metafora della sua vita negli ultimi anni.

Appurato che non può tirarsi indietro decide di sedersi a un tavolo, facendo cenno alle due sorelle di prendere posto; Mousse si rifugia in cucina con la scusa di preparare del tè.

“Allora, cosa vuoi Akane?” chiede di nuovo Shan-Pu, saltando a piè pari i convenevoli. Akane sorride, per nulla sorpresa: “Te l’ho detto, volevo sapere come stavi.”

Shan-Pu fa una smorfia: “Mi perdonerai se non ti credo” ammette, e l’altra si lascia sfuggire una risatina: “Non mi aspettavo niente di meno da te. Sempre sul piede di guerra… o sulla difensiva.”

Quell’ultima affermazione punge sul vivo Shan-Pu e provoca l’amazzone dentro di lei, la cui sete di vendetta e rivalsa non si è mai placata: la sente crescere e cercare di uscire, di saltare al collo di Akane Tendo come ha sempre desiderato fare. La tentazione è forte e per un attimo il suo autocontrollo vacilla.

“Dico sul serio, Shan-Pu. Volevo sapere come stavi dopo quello che è successo mesi fa e… quello che è successo in Cina.”
Shan-Pu alza gli occhi e li rivolge a Kasumi, che subito si scusa: “Non volevo sbandierare ai quattro venti i tuoi problemi, ma lei e Ranma si chiedevano come mai il ristorante avesse riaperto, e del perché la nobile Obaba sembrasse svanita nel nulla… ti chiedo perdono” sussurra, e Shan-Pu le fa un cenno con la testa lasciando intendere che va tutto bene: non è qualcosa per cui vale la pena arrabbiarsi, e in fondo se l’era aspettato che prima o poi venissero a sapere la verità. E poi, come Kasumi le aveva detto la volta precedente, i segreti non durano in casa Tendo.

“Non c’è molto da dire” sospira, “cerchiamo di andare avanti e ristorante per fortuna va bene.”

“Davvero? E per quel…” si ferma Akane, forse cercando le parole più giuste per chiedere senza risultare priva di tatto; Shan-Pu intuisce la domanda e fa un mezzo sorriso: “Provo ad abituarmi. Non è cosa che posso cambiare… non è bello, ma non posso neanche farci nulla. Solo conviverci.”

Stranamente ammetterlo la fa stare meglio. Non è qualcosa che può cambiare, come ha detto prima, ma averlo detto ad alta voce non l’ha annientata come temeva, né causato una crisi isterica. Invece sembra finalmente averlo accettato: sono qui, sono rotta, ma sono viva e posso continuare a camminare.

Sente finalmente di essersi tolta un enorme peso dal cuore, e smette di trattenere il respiro come ha fatto nell’ultimo mese.

“Senti io… volevo solo chiederti scusa.”

La voce di Akane la distoglie dai suoi pensieri.

“So che non servono a nulla, che sono solo parole, ma è giusto che lo faccia. Non volevo che le cose finissero in questo modo, non lo voleva nemmeno Ranma…”

Nel sentire il suo nome Shan-Pu si irrigidisce appena e Akane sembra notarlo.

“Quando vorrai, se vorrai… anche lui vorrebbe chiederti scusa.”

La cinesina non risponde, limitandosi a distogliere lo sguardo.

“Beh, credo sia tutto. Ma se dovessi avere bisogno di qualcosa” insiste Akane ma Shan-Pu alza gli occhi, di nuovo sulla difensiva, e quando parla è l’amazzone che cerca ancora di uscire: “Non ho bisogno di niente. Me la cavo da sola.”

L’altra però non demorde e invece di aggredirla a sua volta sorride: “Lo so e non lo metto in dubbio. Se così non fosse il ristorante non avrebbe mai riaperto” risponde. “Però davvero, se mai dovessi aver bisogno di qualcosa, anche di un aiuto qui al ristorante… beh, sai dove trovarmi.”

Shan-Pu è incredula ancora una volta: Akane Tendo, la sua rivale numero uno, è lì a tenderle la mano. Senza secondi fini o bizzarre vendette, solo interesse sincero per lei, che aveva cercato di rovinarle la vita in tutti i modi.

Sente un pizzicore agli occhi e improvvisamente si vergogna tantissimo.

“Tu pessima cuoca” borbotta, “ma… grazie” aggiunge, in un sussurro appena udibile. Ma chi di dovere sembra averlo percepito: “Non c’è di che” ridacchia Akane, e poco dopo Mousse accompagna lei e Kasumi alla porta. Li sente scambiarsi saluti e la promessa di tornare a trovarli.

Dentro di lei l’amazzone si cheta, deponendo finalmente le armi: la vittoria più importante, quella con se stessa, l’ha appena portata a casa ed è l’unica che conta.

«Non era poi così difficile, eh?» la punzecchia Mousse, che schiva appena in tempo una scarpetta e se ne torna in cucina ridacchiando.

«Idiota» borbotta Shan-Pu fra sé e sé, ma stavolta è certa di non pensarlo sul serio.

 

*

 

Inutile dire che, ancor più della visita di Kasumi, quella di Akane mi aveva lasciata decisamente a bocca aperta.

Le avevo reso la vita un inferno eppure era venuta a scusarsi e addirittura offrire il suo aiuto, quando avrebbe potuto tranquillamente lavarsene le mani e continuare felice con la sua vita.

Forse sta qui la differenza tra me e lei: al posto suo io l’avrei considerata un problema in meno e archiviata come tale. Meno avversari tra me e l’ambito premio. Akane però non è cresciuta a Joketsuzoku, lei ha avuto una famiglia amorevole e insegnamenti più… civili, per così dire. Io non avevo i mezzi per capire come vivere in quel mondo: per me tutto si divideva in vincitori e vinti, e ogni trucco era valido pur di finire nella prima categoria, anche quelli più infimi.

Akane invece non aveva bisogno di qualche stupida trovata per conquistare Ranma, pur senza rendersene conto: le era bastato sorridere e aiutarlo ogni volta che si presentavano delle difficoltà, anche quando lui non se lo meritava. Come fece con me quel pomeriggio.

Fu una grande lezione di umiltà. E anche lei, come sua sorella, mantenne la promessa di tornare a trovarmi di quando in quando (ma con il divieto assoluto di mettersi ai fornelli).

 

Per un attimo i suoi occhi indugiano su una frase detta da Akane.

“Quando vorrai, se vorrai… anche lui vorrebbe chiederti scusa.”

 

Ho ripensato spesso a quelle parole.

Ci ho rimuginato vagliando ogni ipotesi, chiedendomi come avrei reagito se l’avessi visto davvero, per poi lamentarmi che tanto non avrebbe mai avuto il coraggio di farsi vivo.

Ma la verità è che nemmeno io ho mai mosso un dito perché ciò accadesse.

Non avrei mai alzato la cornetta per prima, questo è sicuro, ma anche semplicemente prendere l’argomento durante una delle visite di Kasumi o Akane avrebbe potuto portare finalmente alla rottura di questo impasse che ormai dura da tanti mesi: io troppo orgogliosa per fare la prima mossa, lui probabilmente ancora convinto che sia troppo presto per presentarsi qui.

Forse è giunto il momento di smuovere un po’ le acque.

Forse potrei provare a chiedere notizie a Kasumi, la prossima volta.

Forse è finalmente ora di mettere l’orgoglio da parte e dimostrare di essere cresciuta, soprattutto a me stessa.

 

Un saluto biascicato da parte di Mousse le dice che è quasi ora di mettersi a lavoro. Mentre rimette il diario nella tasca del grembiule qualcosa cade fuori dalle pagine: un piccolo foglio di pergamena con su scritto il carattere cinese del qi, della forza interiore. L’aveva scarabocchiato la bisnonna tanti anni fa, quando Shan-Pu era ancora bambina, e l’aveva regalato a lei affinché la forza non le mancasse mai.

 

Non ho notizie della bisnonna dal giorno del processo a Joketsuzoku, così come non ne ho di mio padre né Mu-Si di sua madre; se provassero a contattarci rischierebbero la vita, e se ci provassimo noi le lettere non giungerebbero mai a destinazione.

Ogni tanto mi chiedo come sta la bisnonna, se sta bene ed è ancora in salute, se quanto è successo ha avuto ripercussioni sulla sua vita al villaggio.

Ogni tanto mi chiedo se mi pensa.

Per quanto all’apparenza potesse sembrare assurdo, so che mi voleva bene: mi ha cresciuta al meglio delle sue capacità seguendo le nostre leggi, provando a fare di me l’amazzone perfetta.

So di averla delusa e questo ancora mi addolora.

Mi piacerebbe poterle scrivere per dirglielo, che non deve più preoccuparsi per me (se ancora lo fa); che non sono diventata la guerriera che sperava, ma sono diventata una donna forte. Che sono cresciuta e ho imparato a camminare sulle mie gambe, ma senza rifiutare l’aiuto degli altri come invece ci imponevano le nostre leggi.

Mi piacerebbe renderla orgogliosa di me.

È in momenti come questi che mi ritornano in mente le parole di Kasumi, quando venne a trovarmi la prima volta: Magari l’ha vista come un’opportunità di una vita migliore per te, lontana dalle vostre leggi… un’occasione per essere libera” mi disse.

Non so se abbia ragione. Una parte di me è intimamente convinta che la bisnonna avesse pensato più alla sua situazione che alla mia, in quel momento.

Eppure ci sono giornate come questa in cui mi piace pensare che Kasumi Tendo avesse ragione, e che questo fosse l’ultimo regalo per me da parte della bisnonna.

 

Il rintocco dell’orologio comunica che sono le otto e non c’è più tempo per poltrire.

Shan-Pu ripone il diario in tasca e si avvia in cucina: accanto alla finestra passavivande, sulla parete, c’è una bacheca in sughero che da sempre viene usata per le comande e le liste della spesa; Shan-Pu prende il foglietto di pergamena con il simbolo del qi e lo appende accanto agli altri, così da poterlo vedere sempre.

Affinché la forza di andare avanti non le manchi mai.


 

And nobody knows what's gonna happen tomorrow

So don't let go, now we've come this far.

Hold my hand please, understand me - we're never alone.


 

Soundtrack: What happens tomorrow - Duran Duran


 

***

Ed eccoci all'ultimo capitolo di Nobody's wife.
Ammetto che il poco feedback ricevuto mi ha davvero fatto temere delle mie capacità di fanwriter (già non altissime) e aver scritto castronerie, ma in ogni caso sono contenta di aver scritto questa storia: era un piccolo quesito sulle leggi amazzoni e su Shan-Pu che andava raccontato, e non lo potevo tenere per me. :)
Ringrazio i pochi che hanno letto e recensito e chi mi ha seguita fin qui in silenzio, significa tanto per me! Grazie!
Vi lascio come sempre con i link a cui potete trovarmi (qui e qui), se volete fare due chiacchiere o anche solo lanciarmi i pomodori. XD
Alla prossima. :)

Mana

   
 
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