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Autore: _Sarah_Hemmings_    26/04/2016    0 recensioni
Whatever: Letteralmente "qualunque cosa". Whatever era Luke Hemmings. Qualunque cosa può essere buona o cattiva. Lui era la seconda.
"Te ne stai andando ancora! Fanculo Hemmings, ti odio" urlai con tutta la rabbia che avevo. A passo svelto mi raggiunse, mi prese per le spalle e mi spinse violentemente contro il muro freddo e scrostato facendo aderire il suo corpo al mio. La mascella serrata, il fiato corto, negli occhi la tempesta nera e buia; le sue mani premevano energicamente sulle mie spalle. Emanava rabbia e odio. Era pronto ad esplodere, come un ordigno distruggendo tutto ciò che avesse attorno. Me.
"Ora mia ammazza" pensai.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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La mattina seguente riuscii a non vomitare l'anima per tutto lo schifo che avevo ingerito la sera prima. Dentro di me sapevo che, forse, era anche merito di Luke, ma ammettere che quel ragazzo mi avesse aiutata mi faceva venire l'orticaria.

A scuola non ero intenzionata, ancora più del solito, a spiccicare parola con qualcuno, a maggior ragione che Calum quella mattina non c'era. "Indigestione" aveva detto Ashton. Non mi stupiva, con tutte le schifezze che aveva mangiato la sera prima in camera nostra.

Chissà perché quel giorno, con il mal di testa che mi martellava e il sonno che mi incideva due occhiaie viola sotto agli occhi, Luke, entrando in classe si sedette vicino a me. Senza dire niente, prese posto e iniziò a smanettare con il suo telefono.

Io non avevo la minima voglia di parlare, ancora meno di litigare, ero uno straccio. Mi chiesi che cosa ci fosse realmente dietro quel ragazzo così strano, era amico di mio cugino in fondo, qualcosa avrebbero dovuto avere in comune. Ma come per Ashton non riuscivo a decifrare quello che gli passasse per la testa. Come quando giri i canali in televisione e ti ritrovi un film già iniziato i cui dialoghi non avevano un senso, perché ti eri perso tutta la parte precedente. Luke era il film già cominciato.

«Prego, per ieri sera» sospirò lui girandosi verso di me «L'aspetto non è dei migliori, ma almeno sei in piedi» concluse scrutandomi il volto

Avevo un aspetto orribile, questo lo sapevo, sentirmelo dire da uno stronzo come lui era tutt'altra faccenda. Ma ero talmente stanca, scocciata che «Bhe, grazie» biascicai posando poi la testa sul banco usando il mio stesso braccio come cuscino.

Non mi resi nemmeno conto di averlo ringraziato fino a che «Ma allora sai parlare anche senza insultare» proferì lui, alzando le sopracciglia e tirando fuori un mezzo sorriso

«Ne sei capace anche tu, a quanto vedo» con gli occhi ancora chiusi. Sentivo il suo sguardo addosso, è una sensazione strana, quando ti senti osservato. Sei come in bilico, non sai se girarti e osservare chi ti guarda o fare finta di niente.

Aprii gli occhi, per ritrovarmi i suoi azzurri, cristallini che mi guardavano «La rabbia è come il fiato, Shine. Se la trattieni troppo muori soffocato, se la butti troppo fuori rimani senza respiro»

Che cosa ne sapeva lui, della rabbia, di cosa provoca nelle persone. Quella rabbia che ti corrode dentro, che ti fa venire mal di stomaco, che ti fa chiudere la gola. Quella che ti fa irrigidire, che ti porta a diventare l'ombra di te stesso. E tu ci provi, a tenerla dentro, ma più la tieni più stai male. Però, quando la tiri fuori distruggi indistintamente tutto quello che hai intorno

«E tu cosa ne sai» abbassai la voce, il professore era entrato in classe e stava già iniziando a spiegare, incurante di fare l'appello

«Lo so. Ci somigliamo più di quanto credi» 

Io non credo proprio, gli avrei risposto. Un brivido mi percorse la schiena. Non gliela avrei data vinta.

La cosa che più mi lasciava senza fiato era la tranquillità con cui mi stava parlando in quel momento, una tranquillità che non faceva parte del Luke Hemmings con cui avevo avuto a che fare negli ultimi giorni. Cercavo di raccogliere le parole nel casino che era la mia testa dolorante, confusa da quei modi di fare così diversi e così distanti tra loro.

Sembrava soddisfatto dall'avermi lasciata senza parole e, quell'espressione sul suo viso, riportò indietro il Luke che era stato nei giorni passati

«Sembri psicopatico, cambi modi di fare, atteggiamenti ed espressioni nell'arco di qualche secondo. Cos'hai che non va» dissi alzando piano la testa dal banco

Fece spallucce e «Adattamento» rispose «In questo modo alcuni animali riesco a sopravvivere anche in habitat che non gli appartengono, si adattano e sopravvivono» concluse girando poi la testa e facendo finta di scrivere sui fogli davanti a lui quello che c'era scritto sulla lavagna

Pensai che era vero, ognuno di noi impara ad adattarsi a ciò che ha intorno, impara a sopravvivere. E se non ci riesci? Muori.

 

Camminavo abbastanza spedita verso gli appartamenti, ma appena fuori dal cancello della Borton «Shine, aspetta» mi girai e mi ritrovai Luke di fronte «Ashton ha detto che ha da fare e torna tardi e ha chiesto se ti accompagnassi in camera» disse quasi sbuffando.

«Che idea del cazzo» gli risposi. Non capivo come mio cugino potesse avere avuto un'idea così stupida, come potesse davvero credere che io e Luke potessimo camminare uno di fianco all'altro come se niente fosse, come se la sera prima non avessi cercato di mettergli le mani addosso

«Guarda che nemmeno a me va a genio la cosa, ma gli devo un favore» disse posizionandosi una sigaretta tra le labbra e porgendomi il pacchetto pieno. Ne presi una, quasi stupita da quel gesto.

«Se non mi parli abbiamo risolto ogni problema» sorridendo con la sigaretta tra le labbra. Imitavo il suo sorriso spocchioso e se ne accorse, perché una breve risata uscì dalle sue labbra

Il mal di testa continuava a tormentarmi e, come se non bastasse, mi chiedevo che cosa avesse da fare Ashton, perché non poteva portarmi con lui. Quando abitavamo nella nostra città non c'era un posto dove andasse senza di me, sempre insieme. 

Sono questi i momenti in cui ti rendi conto che le cose cambiano, le persone cambiano. Ti rendi conto che cose che fino a del tempo prima erano impensabili, assurde, folli, ora erano reali e mai ti saresti aspettato una cosa del genere. Fa anche male, sapere che le persone cambiano e vanno avanti e forse tu, invece, rimani ancorato al passato. Senza nessuna volontà di andare avanti, vivendo in esso.

Sentivo il cuore che iniziava a battermi più forte e il respiro farsi corto. Ashton era sempre più lontano e me ne stavo rendendo conto solo adesso, che era più vicino che negli ultimi due anni, dove la vicinanza era data da chiamate e messaggi. Con quelli niente sembrava cambiare.

Ma ora ero sulla strada di una casa che non era la mia, con un ragazzo che non era Ashton.

Eravamo davanti ai tre edifici, stavamo attraversando il cortile interno e iniziai a respirare più affannosamente. Rallentai il passo sperando di non uscire di testa.

Luke se ne accorse e si fermò anche lui, mi guardava cercando di capire cosa stesse succedendo. Ma cosa ne vuoi sapere, tu, cosa te ne frega degli altri avrei voluto dirgli se avessi avuto abbastanza aria nei polmoni per farlo

Vedevo dei puntini neri vorticare davanti ai miei occhi, mi piegai con le mani sulle ginocchia stringendo il tessuto dei miei jeans, i capelli scuri mi ricadevano su tutto il viso. Il respiro sempre più corto, il cuore che martella nel petto come se volesse uscire, le orecchie tappate e sensazione di gelo e calore insieme. L'attacco di panico stava peggiorando.

Improvvisamente sentii due mani posarsi sulle mie spalle e spingermi a sedermi per terra. Luke si era avvicinato silenziosamente, mi aveva fatto sedere sul marciapiede e, con una mano sotto il mio mento mi tirò su il viso facendo incontrare i miei occhi verdi con i suoi. Cercai di  guardare altrove. Respiravo a fatica, mi sentivo vulnerabile. 

Senza dire niente Luke premette più forte le dita sul mio mento per spingermi a guardarlo. Quegli occhi mi fecero venire ancora di più la pelle d'oca, la testa continuava a girarmi. Iniziò a respirare rumorosamente, inspirando ed espirando l'aria, imponendomi di seguire il suo respiro dal ritmo più lento.

Mi guardava a cercava di far assecondare la mia respirazione alla sua. Non so quanto tempo andammo avanti così, ma piano piano iniziai a respirare meglio e il cuore smise di lacerarmi il petto.

Mi sembrava fossero passate delle ore e non solo pochi minuti, la stanchezza che ti porta un attacco di panico te la puoi solo immaginare, ti sembra di aver camminato per chilometri.

Mi prese per le spalle e mi aiutò ad alzarmi continuando a stare in silenzio. Non volevo parlasse, ma il silenzio a volte fa più rumore. Ti spacca i timpani perché iniziano a fare rumore i tuoi pensieri. Faceva schifo stare male, soprattutto davanti ad altre persone, soprattutto davanti a uno come Luke che, ci avrei giurato, avrebbe preferito lasciarmi lì in mezzo a crepare.

Invece mi portò in camera, mi prese le chiavi dallo zaino e aprì la porta non senza fatica. Lanciò il mio zaino e la sua borsa in un angolo, prese dell'acqua dalla cucina e mi porse il mio telefono «Chiama Ashton» disse, senza nessuna espressione sul volto.

«No» risposi immediatamente. Guardavo la sua mano che stringeva il telefono. Era piena di piccoli taglietti, alcuni freschi, alcuni vecchi che ormai avevano lasciato delle cicatrici lattee sulla sua pelle già chiara. Le nocche erano rosse e sbucciate.

«Chiamalo e digli di tornare, o lo chiamo io» disse lanciando il telefono sul letto di fianco a me. Poi si appoggiò alla scrivania e si passo una mano tra i capelli biondi, come se quello stanco fosse lui

«Ti ho detto di no» Era già abbastanza avere avuto una crisi davanti a lui

«Non lo sa che hai attacchi di panico, non è vero?» il tono di chi sapeva già la risposta

«Non sono affari tuoi, Luke» sputai acida. La vulnerabilità non era una mia caratteristica, mai mostrarsi deboli davanti agli altri. In un mondo così stronzo appena mostri una crepa ci si infilano dentro e ti devastano.

«La prossima volta ti lascerò rimanerci secca sul marciapiede allora» rispose seccato

«Bene» risposi sorseggiando l'acqua

«Hai bisogno di altro?» chiese dirigendosi verso la porta afferrando la sua borsa

Io non ci volevo stare da sola, non volevo ritornasse un altro attacco di panico mentre ero da sola, ma non glielo dissi a Luke. Orgogliosa fino al midollo, avrei sputato sangue piuttosto che scoprirmi

«No» non lo ringraziai nemmeno. A quelli come lui, se dai anche una minima soddisfazione, se gli fai capire che avevi bisogno di loro è finita. Ti hanno in pugno. «Non dirlo, ad Ashton» mi uscii dalle labbra secche mentre mi distruggevo le nocche graffiandomele con le unghie. Forse mi aveva già in pugno

Il biondo lasciò la porta mezza aperta con la mano appoggiata alla maniglia, mi guardò, un piccolo sbuffo lasciò la sua bocca, seguito da un sorrisetto amaro e «Quando torna digli di chiamarmi» e si chiuse la porta alle spalle

 

Quando Ashton rientrò io avevo già fatto cena ed ero sul balcone a fumarmi una sigaretta. Sentii solo la porta cigolare, chiudersi e poi il rumore delle doghe del letto che scricchiolavano sotto il peso di mio cugino.

Rientrai ed era già sotto le coperte, mi dava le spalle. «Dove cazzo sei stato tutto questo tempo» perché, forse, la cosa che più odiavo non era non sapere dove fosse stato, ma che mi avesse lasciata da sola

«In giro, ora sono stanco, lasciami stare» per lui la conversazione era finita lì. 

Gli andai vicino e lo presi per le spalle, facendolo girare verso di me. Credevo di avere il diritto di sapere con quale faccia tosta mi avesse lasciata da sola tutto il giorno, con chi fosse stato, dove.

La sua espressione dura non cambiò di un millimetro quando io aggrottai le sopracciglia guardando quegli occhi ambrati e verdi, così simili ai miei, spiccare in mezzo ad livido scuro che gli incorniciava l'occhio destro. Il sopracciglio aveva un taglio profondo con del sangue rappreso.

«Che cazzo hai fatto» mi uscì solo, la rabbia che cresceva dentro mi spezzava, lo stomaco faceva male, quasi da farmi piegare in due

«Niente, vado a lavarmi» disse cercando di alzarsi dal letto. Una smorfia di dolore gli incupì il volto e «Togliti la maglia, Ashton» gli ordinai seria

«No» rispose sostenendo il mio sguardo. Lo sapeva, lo stronzo, che avevo capito

«Togliti quella cazzo di maglia» gli intimai ancora una volta alzando il tono di voce

E se la tolse con una lentezza assurda, perché gli faceva un male cane, perché aveva il petto ricoperto di graffi di un rosso vivo e l'addome pieno di macchie viola, rosse e gialle, vecchie contusioni.

Mi venne da vomitare, a guardare quel corpo giovane così martoriato, sentivo che avrei potuto rigettare fuori tutta la cena.

«Chi è stato» gli chiesi tra i denti, cercando di trattenermi dall'urlare per liberare i polmoni da quel peso che mi schiacciava il petto

Non mi rispose, si rinchiuse nel silenzio che spacca mille vetri e te li conficca nella pelle, facendoti capire che non sono affari tuoi, che non ti devi impicciare nei problemi degli altri. Ma i problemi di Ashton erano i miei, e mi sentivo in diritto di appropriarmene.

Era la seconda volta, che tornava in camera con il corpo segnato, ma voleva continuare ad ignorare la cosa. E come una brava stronza presi ancora del ghiaccio, della crema e del disinfettante e iniziai a mettere a posto il danno. Ferirsi per poi farsi medicare, questo fanno le persone. A quelli come noi hanno insegnato a leccarci le ferite da soli, solo io e mio cugino, ce le medicavano a vicenda

Ashton ogni tanto faceva delle smorfie di dolore, il disinfettante bruciava ed io glielo premevo ancora più forte sui graffi «Mi fai male così» sibilò tra i denti

«Te lo meriti» gli risposi continuando a passargli il cotone sul petto. Ed era vero, se lo meritava il dolore che gli procuravo io.

Ci eravamo curati molte ferite, nel corso degli anni. Quando mi ruppi il labbro cadendo dalla bici o quando mi sbucciai le ginocchia fino alla carne scavalcando il muretto del manicomio abbandonato. Quando lui fece a botte con un ragazzo alle medie avendo la peggio, o quando cademmo insieme dal motorino.

Ma mai, ci curammo le ferite del cuore, perché quelle non si rimarginano.

Era come se quella persona lì davanti fosse sconosciuta, perché con quella pelle così distrutta mi stava sbattendo in faccia il cambiamento, non era più mio cugino Ashton, era solo Ashton e basta.

 

   
 
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