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Autore: johnlockhell    27/04/2016    5 recensioni
La scoperta del segreto di Mary è l'ennesimo trauma che la vita non ha risparmiato a John Watson. Anche dopo il ritorno a Baker Street, si trascina depresso nella routine quotidiana sotto il peso della consapevolezza che tutto quello in cui spera si distruggerà. Sherlock non può più sopportare di vedere l'amico, la luce dei suoi occhi, in questo stato afflitto. Nonostante le emozioni e interazioni umane non siano il suo forte, per farlo reagire e rimettere le cose a posto è pronto a ricorrere a qualsiasi espediente. Ma Londra non lascia mai un attimo di respiro, e c'è sempre un crimine da risolvere dietro l'angolo. [Pairing: Johnlock, accenno di Warstan]
Dal Capitolo 6: “Quello che intendo dire, è che sei tu a farmi questo effetto. Sei sempre e solo tu, John.”
Dal Capitolo 8: Aveva fatto un sogno assurdo quella notte, e il vago ricordo del sogno, la sua immagine sfocata, non si cancellava dalla sua testa. Aveva sognato di baciare Sherlock.
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 9 – Rage and Devotion

 

Due giorni dopo il ritrovamento del corpo del bambino nel parco, Sherlock e John si trovavano di nuovo a bordo di un taxi in direzione dell'abitazione dei Larson. E non pianificavano una visita di piacere.

I due erano seduti sul sedile posteriore, a pochi centimetri di distanza, eppure così lontani. John aveva ancora solo un paio di labbra in mente, nonostante cercasse di costringersi a pensare a quelle di Mary e a mettere ordine fra le idee su come ricostruire la sua famiglia e la sua vita, anche se le vicissitudini del caso erano una distrazione così piacevole. Sherlock era stato iperattivo per entrambi i giorni. Non aveva smesso un attimo di ripercorrere i dettagli del caso, di lamentarsi che la dichiarazione di colpevolezza della madre del bambino non avesse senso, di cercare di incontrarla al commissariato anche se Lestrade l'aveva esplicitamente bandito per cercare di affrontare la situazione con la dovuta tranquillità, di compensare all'inattività facendo ancora più calcoli e ricerche sull'omicidio. Forse si era fermato solo per dormire qualche ora, ma a giudicare dalle occhiaie sempre più marcate John aveva qualche dubbio. Non che lui stesso riuscisse a dormire bene in quei giorni, stava lontano dai pisolini sulla poltrona solo per mantenere un certo decoro. Ma sembrava che Sherlock davvero non volesse fermarsi un secondo, come se cercasse di tenersi sempre occupato per distrarsi da qualcos'altro che gli ronzava in mente, proprio come John. Anche in quel momento, non smetteva di tamburellare con le dita sul bordo del sedile anteriore, impaziente per il traffico congestionato, e non smetteva di parlare.

“Non è possibile che ci voglia così tanto,” sbuffava, “per quando saremo arrivati la figlia della Larson sarà già diventata maggiorenne!”

Il principale soggetto della fissa di Sherlock nei due giorni era stata proprio la bambina. Fra il suo mutismo e il legame col fratello, anche John aveva pensato che fosse più coinvolta con la sparizione e morte del bambino di quanto sembrasse, ma Sherlock non aveva voluto fare nessun commento o ipotesi, come sempre, finché non fosse stato il momento giusto.

“Non esagerare, siamo arrivati,” John canzonò Sherlock, scorgendo all'orizzonte il profilo del quartiere in cui abitava la famiglia Larson.

Arrivati all'imbocco della strada, parcheggiarono, pagarono il tassista – o meglio John dovette pagare, al solito – e scesero dalla vettura. Raggiunsero la casa, e dovettero suonare due volte perché, anche se era ovvio dai movimenti dentro all'abitazione che ci fosse qualcuno, non sembravano intenzionati ad aprire. Alla fine, la signora Larson comparì alla porta e la aprì appena per guardare fuori, lasciando il chiavistello inserito.

“Smettetela di suonare,” fu così che salutò Sherlock e John, “o sveglierete mia madre, si è appena addormentata.”

“Sembra molto affezionata all'atmosfera della prigione, signora,” le rispose Sherlock, “visto che sta vivendo da reclusa in casa.”

“Per favore, abbiamo avuto i giornalisti qua fuori per tutta la mattina,” la signora Larson era stremata, “andate via, lasciateci stare.”

“Purtroppo non è possibile,” le negò Sherlock, “e lei sa che se c'è qualcuno che può aiutarla siamo proprio noi.”

La Larson, rassegnata, richiuse la porta, tolse il chiavistello, e li lasciò entrare.

Percorsero l'ingresso, entrarono nel soggiorno dove erano già stati due giorni prima, ma proseguirono oltre, sorpassando la figura addormentata della donna anziana stesa sul divano cercando di non fare rumore, ed entrando nella cucina adiacente. La figlia della Larson era seduta al tavolo, e la madre accostò la porta al loro passaggio, lasciando qualche dito di spazio per tenere d'occhio la vecchia sul divano.

“Ciao,” John salutò la bambina, che non accennò ad alzare gli occhi dal foglio su cui stava disegnando con delle matite colorate.

“Ancora non parla,” disse Sherlock alla signora Larson, che scosse la testa in segno di conferma.

I tre si sedettero al tavolo, la donna accanto alla bambina, Sherlock e John al lato opposto.

“Lestrade ci ha avvisato ieri sera che è stata rilasciata dall'arresto preventivo per inconsistenza delle prove,” continuò Sherlock, “ovviamente.”

La donna annuì. “Mi hanno rimandato a casa sicuri che non potessi scappare da nessuna parte in ogni caso in queste condizioni,” accennò alla figlia e alla madre che dipendevano completamente da lei, “e non hanno emanato nessuna accusa nei miei confronti, hanno solo ordinato una perizia psichiatrica per i prossimi giorni.”

“Certo che non possono accusarla, perché non è stata lei,” precisò Sherlock, “nonostante la sua falsa confessione.” La signora Larson rimase impassibile. “E non ha bisogno di nessuna perizia, lei è perfettamente sana di mente e sa esattamente cosa sta facendo. Sta proteggendo qualcuno.”

La signora Larson sorrise amara. “Non è così.”

“È quello che fa sempre,” intervenne John, a supportare l'argomentazione di Sherlock, “si occupa di tutti, si prende cura di sua madre e dei suoi figli praticamente da sola, e anche adesso non sta smettendo di proteggerli.”

“La mia protezione non è servita a nulla,” rispose dura la donna, “non ho mai potuto evitare che accadessero le cose peggiori, quindi che senso avrebbe continuare?”

“Perché non può smettere,” le rispose Sherlock, “anche adesso, non può evitare di cercare di contenere i danni, e proteggere sua figlia. La vera responsabile dell'omicidio.”

La bambina smise di colpo di disegnare, rimanendo paralizzata in una posizione statica.

“Ma cosa sta dicendo!” urlò la signora Larson, prima di rendersi conto del volume della sua voce. “Cosa sta dicendo?” ripeté a voce più bassa, lanciando un'occhiata verso il soggiorno per verificare che la madre non si fosse svegliata.

“La verità,” rispose Sherlock. “L'ho letto chiaramente nei suoi occhi sulla scena del delitto. Appena John ha menzionato la possibilità che i segni di strangolamenti fossero consistenti con la stretta delle mani di un bambino, è intervenuta dichiarando la sua colpevolezza per scagionare sua figlia,” spiegò il detective, mentre la donna abbassava gli occhi verso il tavolo, non sapendo come controbattere di fronte all'esplicazione spiazzante di quello che aveva fatto, “e d'altra parte come non sospettare di sua figlia, che ha mostrato un comportamento così alterato negli ultimi giorni.”

“Capisco perché l'ha fatto, è normale reagire istintivamente per proteggere le persone che amiamo,” continuò John, mentre le immagini di tutte le volte che si era cacciato nei guai per Sherlock gli punzecchiavano la memoria, “ma in questo modo fa del male a sua figlia. Se è davvero stata lei,” accennò rimanendo implicito, per non turbare la bambina che osservava con la coda dell'occhio, “ha bisogno di essere seguita da un esperto, della consulenza di uno psicologo, del supporto di assistenti sociali e di un centro specializzato.”

“Non mi farò portare via mia figlia da strizzacervelli e assistenti sociali!,” sbottò la Larson poggiando i pugni sul tavolo mentre le lacrime le riempivano gli occhi, gettando via la copertura con cui aveva cercato inutilmente di proteggere la figlia e rivelando la verità della deduzione di Sherlock. “Non posso permettere che la allontanino da me, che venga rinchiusa in chissà quale struttura di sostegno che la trasformi in una vera criminale.” La bambina, ancora pietrificata davanti al suo foglio, venne percorsa da un tremito all'udire le parole della madre e la possibilità di essere portata via. “Sappiamo tutti che il sistema non funziona,” aggiunse la donna, “ho già perso un figlio, non posso perdere anche l'altra.”

John fece un respiro profondo. Riusciva a capire la posizione della donna, ma allo stesso tempo era necessario intervenire per il bene della bambina stessa. La situazione era brutta e non c'era nessuna scelta facile, ma comunque dovevano prendere una decisione. E lui, che stava fuggendo dalla sua scelta personale sulla sua vita e famiglia, sapeva bene quanto rimandare e cercare di nascondere i problemi sotto al tappeto non fosse la soluzione giusta.

“Nessuno sta dicendo che sua figlia è una criminale,” disse alla fine, “ma se ha commesso davvero un gesto così grave non può fare finta di nulla. Devono essere approfondite le motivazioni. Se c'è un disturbo psichiatrico ha bisogno di aiuto. Deve essere supportata da dei professionisti per gestire il trauma ed essere rieducata anche se è stato solo un incidente. Magari è stato solo un litigio fra bambini finito male, eh, è andata così?” chiese John alla bambina, abbassando il capo per cercare di guardarla negli occhi che teneva bassi nascosti dietro ai capelli.

Provava una grandissima pena per la bambina e sua madre, e sentiva una forte empatica per la loro famiglia andata distrutta in un momento. Sarebbe stato il destino anche della sua di famiglia, con Mary? Sarebbe stato anche lui un padre assente che era sempre lontano, e ancora non aveva trovato il modo di tornare neanche per un fatto sconvolgente come la morte di un figlio?

“Come potrebbe continuare a vivere come niente con l'assassina di suo figlio?” fece Sherlock senza andare troppo per il sottile, severo e senza tatto. Perché la sensibilità emotiva non era il suo forte, ma anche perché sapeva che era il modo per ottenere una reazione. E infatti la Larson, sentendo la questione posta in questi termini, venne come trafitta da una fucilata.

Con gli occhi sgranati, si portò una mano alla bocca per soffocare un singhiozzo, cancellando una lacrima che si stava affacciando sulla guancia. “Non possono portarmi via anche lei,” ripeteva fra sé e sé, sconvolta, senza sapere cosa fare, “non possono.”

Anche la bambina era percorsa da tremiti che facevano trapelare il suo forte stato d'ansia, che un abbraccio e una carezza materna non sarebbero stati sufficienti per alleviare. Ma in quel momento gli occhi di Sherlock scesero sul foglio fra le mani della bambina, cogliendo i tratti di quello che stava disegnando.

“Oh!” esclamò stupefatto il detective, la faccia mossa dalla sorpresa, “oh!”

“Cosa?” fece perplesso John, irrigidendosi sulla schiena e guardandolo con la fronte corrucciata.

Con un gesto repentino, Sherlock allungò un braccio verso il disegno della bambina e glielo tolse dalle mani, facendolo scorrere sulla superficie del tavolo per portarlo dal suo lato, sotto i suoi occhi.

“Nessuno presta mai attenzione ai disegni dei bambini!” disse enfaticamente Sherlock, osservando il disegno che aveva di fronte nascosto fra le mani, e che pareva contenere tutte le risposte. “Sua figlia ha preso molto da lei, signora Larson,” le disse, guardandola con aria eccitata che non poteva riflettersi nel volto stanco e confuso della donna sconvolta, “avete lo stesso istinto di protezione verso le persone più deboli e indifese.”

“Di che si tratta, Sherlock?” fece John, che prima non aveva fatto caso a cosa stesse disegnando la bambina, e adesso non riusciva a vedere il disegno per le braccia di Sherlock che lo coprivano alla vista.

Istintivamente, John afferrò la mano di Sherlock, che sedeva al suo fianco, con la sua mano, per spostarla di qualche centimetro dal foglio e riuscire a vedere il disegno. Una mossa avventata, che gli si ritorse contro. Il contatto delle sue dita contro la mano di Sherlock era eccessivamente piacevole. La morbidezza del palmo della mano su cui affondò il pollice, le nocche ruvide contro cui sfiorò i polpastrelli. Una mano lunga, affusolata come quella di un pianista, con una nota femminile nella sua delicatezza, ma anche estremamente virile per la forza delle dita e le vene esposte. Per un attimo, John avrebbe voluto provare la carezza di quella mano sulla sua pelle, avrebbe voluto poter avvertire il tocco di quei polpastrelli sulle sue labbra, ospitarle nella sua bocca, assaggiarne il sapore con la lingua, prima di passare a baciare il loro proprietario a fondo, realizzando il sogno che aveva fatto su Sherlock giorni prima e che ancora minacciava di affiorare nella sua mente ogni volta che si distraeva.

John spostò la mano di Sherlock dal disegno e rimase a toccarla per qualche secondo di troppo, mentre la sua mente correva. Prima che qualcosa iniziasse a scaldarsi anche al di sotto del tavolo per colpa dei suoi pensieri impertinenti e fuori luogo, John si costrinse a lasciar andare la mano di Sherlock, e portò le proprie dita alla cintura, per ostacolare e celare il movimento che minacciava di animarsi nei suoi pantaloni. Con uno sforzo di concentrazione, spostò gli occhi sul foglio.

Il disegno ritraeva tre figure umanoidi dall'aspetto abbozzato e stilizzato come solo una bambina poteva realizzare, ma erano chiaramente distinguibili. Due personaggi piccoli, un maschio e una femmina, e una più alta, con i capelli grigi, anziana. Senza particolare sforzo deduttivo, era chiaro che il disegno ritraeva la giovane artista che l'aveva realizzato insieme al fratello e alla nonna. La configurazione della scena era curiosa, però. I due bambini si trovavano ai lati della donna anziana, e questa aveva le braccia alzate verso il maschio, e due sopracciglia aggrottate nella faccia arrabbiata. John alzò gli occhi sgranati verso Sherlock. Aveva capito bene? Poteva essere andata come mostrava il disegno? Le parole di Sherlock avrebbero confermato la sua deduzione.

“L'altro giorno ha detto,” fece Sherlock, rivolto alla Larson, “che sua madre ha sovente degli scatti d'ira quando qualcosa la infastidisce, a causa della sua malattia.”

“Cosa c'entra mia madre, adesso?” chiese la donna, sulla difensiva.

“Ho provato di persona quanto queste crisi di rabbia possono essere improvvise e violente,” continuò Sherlock, ricordando il momento in cui la donna si era risvegliata dal suo stato vegetativo per cercare di colpirlo con forza al viso con il braccio quando il detective le si era avvicinato per raggiungere la nipote nascosta dietro la sua sedia. “Abbiamo assistito anche al forte legame che esiste fra sua figlia e sua madre, a quanto pare, signora Larson,” aggiunse poi, “visto che la bambina è andata immediatamente a nascondersi dietro sua nonna appena si è sentita minacciata. Temo sia un'abitudine di sua figlia, quella di rifugiarsi dietro la nonna in cerca di protezione. Temo si accaduto almeno un'altra volta, con risultati ben più tragici.”

“Cosa intende?!” la Larson iniziava ad agitarsi, “a cosa si riferisce?!”

“Stavate giocando, avevate litigato?” adesso Sherlock si stava rivolgendo direttamente alla bambina, che aveva ancora il volto piegato sul tavolo, “tuo fratello deve averti fatti un dispetto, così sei andata a nasconderti dietro alla sedia di tua nonna, chiedendole aiuto. E nel delirio che solo una malattia crudele come l'Alzheimer può dare, tua nonna l'ha strangolato.”

“Ma cosa sta dicendo!” gridò la Larson, che adesso non si curava più di rischiare di svegliare la madre, “no, non è possibile!”

“Temo sia andata così invece,” confermò Sherlock, “abbiamo visto quello di cui è capace sua madre nei momenti di delirio. Anche se non era in sé, anche se non è stato intenzionale, reagendo male alla minaccia del fratello verso la nipote l'ha strangolato.”

“Corrisponderebbe con i segni sul collo del bambino,” rifletté John a voce alta, “l'ecchimosi lasciata dalla stretta di mani non molto forti, come quelle di una donna anziana e malata.”

“No...” ripeteva la Larson, sgomenta, cominciando a considerare l'idea, constatando quando fosse plausibile e quanto avesse senso.

“Era una verità troppo brutta da rivelare, vero?” Sherlock si piegò verso la bambina, per cercare di vederne gli occhi, “ma anche se non potevi parlare, dovevi farla uscire in qualche modo. Per questo ce l'hai detto attraverso il disegno.”

La bambina, che fino a quel momento era rimasta pietrificata, iniziò a essere scossa dai singhiozzi, sempre più forti, e scoppiò a piangere. Sommessamente, in silenzio, non come fanno i bambini quando vogliono attirare l'attenzione o fanno i capricci, ma come succede quando sono inconsolabili.

“Io non volevo...” soffiò alla fine fra le lacrime, pronunciando con voce rauca le prime parole dopo giorni di mutismo, “non pensavo che...”

“Ed ecco il senso di colpa,” fece Sherlock, “quello che ti ha portato a nascondere il corpo, così che non venisse incolpata tua nonna, perché ti sentivi responsabile.” Alzò gli occhi verso la signora Larson, “avete una carriola, qualcosa con cui ha potuto trasportare il corpo? Ci sono le tracce di ruote e strisce di fango fra le impronte delle scarpe di sua figlia sullo zerbino e sul vialetto.”

“Il carrellino che vi ho regalato per Natale...” bisbigliò la donna, attonita e sconvolta dalla rivelazione.

“È tutta colpa mia...” gemette la bambina, piangendo più forte, “sono comunque stata io...”

Sherlock si alzò in piedi, in uno scatto di altruismo inaspettato. Raggiunse l'altro lato del tavolo e si chinò appena sulla bambina, mettendole una mano sulle spalle per consolarla. “È stato un incidente, non è colpa tua,” le disse, “racconteremo com'è andata tutta la vicenda alla polizia e tornerà tutto a posto.”

Ed ecco la dolcezza di Sherlock, pensò John osservando la scena, non riuscendo a trattenere un delicato accenno di sorriso anche nella drammaticità del momento. Nonostante Sherlock fosse proverbialmente cinico, freddo, non provasse empatia e sembrasse estraneo a tutti i sentimenti umani, ecco che compariva una scintilla di tenerezza da dietro lo scudo che si era costruito intorno. Quella dolcezza che John aveva ricevuto e provato più volte in prima persona, ogni volta che era stato in pericolo e Sherlock era corso in suo aiuto, in tutti i piccoli gesti domestici che nascondevano dell'affetto anche se espresso in modo atipico e particolare tutto suo. Quella dolcezza che, al di là di tutto, rendeva Sherlock un brav'uomo, e non solo un bravo detective. Quella dolcezza dietro tutta l'intelligenza e l'arguzia e l'amoralità che era il motivo per cui John gli voleva così bene, a prescindere da quale fosse il nome di quello che provava, e che aveva reso Sherlock l'uomo più importante della sua vita. Una scintilla, un attimo, prima che si spegnesse di nuovo. Ma comunque abbagliante.

Sherlock si raddrizzò sulla schiena. “John, chiama Molly, a quest'ora sarà ancora in obitorio e potrà controllare il cadavere,” disse al compagno, “ho bisogno della sua opinione professionale sullo strangolamento, deve confermare che sia compatibile con le mani di una donna anziana.”

“Sì, la chiamo subito,” annuì John, alzandosi anche lui in piedi e allontanandosi di qualche passo dal tavolo mentre sfilava di tasca il cellulare e premeva il numero di Molly Hopper nella rubrica del telefono.

“Poi dovremo chiamare anche Lestrade così che avverta le autorità e l'assistenza sociale,” continuò Sherlock.

“Cosa?” la signora Larson si riscorre dall'intorpidimento dello shock, “ma è stato un incidente, mia madre non è capace di commettere un crimine volontariamente.”

“Ciao Molly, sono John. Ciao,” stava nel frattempo dicendo John al telefono mentre varcava la porta e usciva dalla stanza, “scusa il disturbo, ma avrei bisogno di un riscontro sul corpo del bambino dell'altro giorno.”

“Sua madre è un soggetto instabile con tendenze violente ed è un pericolo per la sua famiglia e per chiunque le stia vicino,” rispose Sherlock alla Larson senza giri di parole, “deve essere ricoverata in una struttura specializzata per malati psichiatrici violenti.”

“Assolutamente no!” sbottò la donna, “mia madre non farebbe male a una mosca, è stato solo un incidente!”

“Ha ucciso suo figlio, cerchi di capirlo,” ribatté Sherlock.

“Non posso permettervi di rovinare ulteriormente la mia famiglia!” gridava la Larson, ormai fuori di sé dallo sgomento per tutta la vicenda. “Dopo tutti gli sforzi e i sacrifici che ho fatto per assistere mia madre a casa, per tenerla con me, non ve la lascerò portare via. Non porterete via mia figlia, non porterete via mia madre, devo salvaguardare la mia famiglia!”

“Signora, deve calmarsi e cercare di ragionare,” le intimava il detective, spazientito.

“No, io ragiono perfettamente, siete voi che non volete capire!” urlò la donna, andando a raggiungere il mobile accanto al lavello della cucina sull'altra parete della stanza e aprendo il primo cassetto, “so io cosa è meglio per la mia famiglia e so io come gestire le questioni familiari.”

La donna rovistò fra scatole e blister di farmaci, per estrarre una siringa piena di liquido viscoso. Rapidamente, ruppe il sigillo della siringa e ne estrasse il cappuccio, provò lo stantuffo versando un paio di gocce, e puntò la siringa verso Sherlock.

“Cosa intende fare, abbassi quella-” tentò di dire il detective, ma la Larson gli era già addosso.

Sherlock cercò di allontanarla, ma la donna riuscì a schivare ed evitare le sue braccia e a fiondarsi verso il suo collo. Resistendo ai tentativi di Sherlock di dimenarsi, conficcò l'ago della siringa a lato del collo e vi spinse tutto il liquido contenuto. Sherlock gemette sonoramente per il bruciore dell'iniezione che gli incendiò le vene del collo e dette un ultimo strattone alla donna, con il quale riuscì finalmente a spingerla via e a farle cadere la siringa di mano, ma troppo tardi.

Il bruciore del farmaco iniettatogli si stava diffondendo lungo tutto il suo collo verso la testa, che stava diventando sempre più pesante. La vista offuscata non riusciva più a mettere a fuoco i profili delle figure che lo circondavano, il senso dell'equilibrio svanì completamente e tutta la stanza incominciò a girare. Lampi di luce e punti colorati gli annebbiavano gli occhi mentre tutto si faceva nero e il corpo non riusciva più a reggersi in piedi e sostenere il peso della testa che pendeva sul petto come un macigno. Sherlock mosse qualche passo traballando cercando di mantenersi in piedi, ma non riusciva più neanche a capire da qualche parte fossero i suoi piedi.

John, che si era perso la colluttazione, si riaffacciò dalla porta dentro la stanza, abbassando il cellulare dall'orecchio per comunicare il verdetto di Molly.

“Secondo Molly è plausibile che la debole forza dell'anziana abbia arrecato quei lividi,” iniziò a spiegare, non accorgendosi immediatamente dello stato di Sherlock, che gli dava le spalle, “e che sia comunque risultata letale per il- SHERLOCK!”

La vista completamente annerita, la testa piena di piombo, Sherlock mosse un altro passo, e cadde a terra di colpo a peso morto.

La mano di John venne colta da uno dei suoi spasmi d'ansia e non riuscì a trattenere il cellulare, che ricadde ai suoi piedi. Immediatamente, il dottore si gettò su Sherlock, accovacciandosi al fianco del compagno privo di sensi. Gli occhi di Sherlock erano completamente girati e si vedevano solo le pupille arrossate fra le palpebre aperte, dall'angolo della bocca dischiusa usciva un filo di saliva, e il corpo era sconvolto da leggeri tremiti. Sotto shock, John riuscì comunque a mantenere il controllo di soldato e scattare all'azione. Girò Sherlock sul fianco e gli aprì la bocca, verificando che non si stesse strozzando con la lingua. Poi portò due dita al collo di Sherlock per controllare il battito. Debole, lento, ma regolare. Un primo sollievo, almeno aveva margine d'azione. Notò subito dopo qualche millimetro sotto alle sue dita il segno della puntura, che aveva lasciato una piccola ferita circolare, e a qualche metro di distanza la siringa vuota sul pavimento. Fece due più due.

“Cosa gli ha fatto?!” urlò alla Larson che stava ancora riacquistando l'equilibrio dopo la spinta violenta, a poca distanza dall'altro lato della stanza. John aggrottò le sopracciglia e assunse lo sguardo più furente e indemoniato che fosse mai comparso sul suo volto. Infilò una mano dentro al cappotto ed estrasse la pistola. Questa volta era venuto preparato. La punto contro la Larson, per darle un piccolo incentivo nel rispondere. “Cosa gli ha fatto?!” ruggì di nuovo, “cosa gli ha iniettato?!”

La Larson sembrava altrettanto sgomenta e sconvolta, lo scatto folle che aveva avuto l'aveva prosciugata di ogni energia rimasta e dai suoi occhi assenti John capì che non avrebbe ricevuto risposta, e che non era più una minaccia. Abbassò di qualche centimetro la pistola e allungandosi raggiunse con l'altro braccio la siringa, cercando di ottenere qualche risposta da solo su quale fosse stato il contenuto con la sua esperienza di medico.

Dal cellulare gettato a terra a qualche passo da John stava uscendo la voce di Molly, ancora in linea e sonoramente preoccupata da quello che aveva sentito. Molly stava urlando il nome di John, quello di Sherlock, stava pregando di avere risposte ai suoni e parole allarmanti che aveva udito e che a distanza poteva capire solo a metà.

John era fuori di sé dalla rabbia e dal terrore. Rialzò la mira della pistola e irrigidì il dito sul grilletto. La tentazione di sparare alla Larson era forte e difficile da sopprimere, anche se era solo una donna distrutta e indifesa e non più un pericolo. Ma aveva fatto del male a una delle persone a cui John teneva più al mondo, e tutta la rabbia e il dolore che aveva represso in corpo stavano spingendo per uscire. Voleva vendicarsi, voleva spararle a sangue freddo e ucciderla perché aveva osato toccare Sherlock, il suo Sherlock, che adesso era riverso al suolo e forse non si sarebbe più rialzato. Spararle una pallottola in testa gli avrebbe permesso di espellere tutta la paura e l'impotenza e la collera che lo avevano impossessato. Ma poi John colse l'immagine della bambina, la figlia della Larson, rannicchiata sotto al tavolo, con le braccia sulla testa e gli occhi al suo livello, che gli riflettevano indietro il suo stesso terrore e avvilimento. Degli occhi così pesanti che avevano già visto troppo alla sua giovane età, e che spensero l'impulso primordiale che aveva preso il controllo di John, per far riaffiorare il suo lato umano.

Abbassò la pistola, mise la sicura e la rinfilò dentro alla tasca del cappotto. Il fuoco nei suoi occhi lasciò il posto ad una pozza di disperazione. Gettò le mani verso il suo cellulare che aveva gettato a terra, e da cui le grida di Molly arrivavano sempre più acute.

“Sherlock è stato avvelenato!” John gridò di rimando dentro al telefono, portandolo all'orecchio, “ho bisogno del tuo aiuto, Molly!”

 

***

 

Nel prossimo capitolo: La paura di perdere una persona amata rende tutto così sorprendentemente chiaro.

 

***

 

Nota dell'autore: Scusate per l'assenza delle scorse settimane, mi spiace che l'attesa per questo capitolo sia stata più lunga del solito, ma vari impegni e la scrittura di altre cose si sono messi nel mezzo >___< Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e sia valso l'attesa, fatemi sapere che ne pensate della soluzione del caso, degli sviluppi e del cliffhanger :) Un abbraccio alle gentilissime CreepyDoll, Hotaru_Tomoe e ilovehismusic per il continuo supporto, e in particolare a emerenziano che aveva già capito tutto nello scorso capitolo, complimenti per lo spirito deduttivo alla pari di Sherlock! ;) Grazie mille a tutti i lettori per la pazienza, la comprensione e il sostegno. Alla prossima!

  
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