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Autore: Malvagiuo    27/04/2016    1 recensioni
Un sentiero desolato sferzato dalla tempesta, sul quale procede un viandante misterioso. Una ragazza in fuga ne incrocia il cammino, senza sapere di essersi legata a doppio filo a una creatura a metà tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Chi è lo strano e apparentemente immortale cavaliere che avanza inesorabile verso la rocca di Jodunal? Chi è l'uomo che sta cercando e perché è disposto a tutto pur di trovarlo?
Nel frattempo, in un tetro maniero che domina l’intera città di Jodunal, si intrecciano le vicende del letale Drannikat, micidiale assassino armato di una spada leggendaria, costretto a servire lo spregiudicato lord Beliel, per poter raggiungere la ricchezza necessaria a salvare da morte certa l'unica donna che abbia amato, per la quale ha sacrificato ogni cosa.
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Il cavaliere avanzava nella pioggia, gli stivali che sprofondavano nella melma fino alle caviglie. Il mantello che lo ricopriva era fradicio, il freddo gli penetrava nelle ossa.
Il passo era deciso, nonostante il vento lo investisse in pieno con violenza.
“Non sarà una tempesta a fermarmi” pensava tra sé, gli occhi socchiusi per ripararsi dall’acqua. “Ti troverò, Vindukaim.”
Il sentiero si apriva a destra, allargandosi in una strada più ampia. Doveva essere vicino alla via principale. Jodunal non poteva essere lontana, ormai. Presto avrebbe incontrato una locanda lungo il cammino, e lì – dopo aver messo qualcosa nello stomaco ed essersi asciugato i vestiti logori – avrebbe fatto qualche indagine. Se la sua teoria era corretta, presto si sarebbe imbattuto in un viaggiatore che conoscesse Vindukaim, o almeno qualcuno che corrispondesse alla sua descrizione.
Era immerso in questi ragionamenti, quando sentì il grido di una ragazza.
Si fermò subito, aguzzando le orecchie. Non ci volle molto prima di udire il rumore di piedi che sguazzavano nel fango. Qualcuno correva verso di lui a grande velocità. D’istinto, strinse nella mano sinistra il fodero della spada, mentre con la destra ne afferrava l’elsa, tenendosi pronto a sguainare l’arma.
La foschia gli nascondeva ogni cosa. Lo scroscio della pioggia non gli permetteva di capire da che parte si stesse avvicinando. Spaziò con lo sguardo ogni punto di fronte a sé, cercando la fonte del rumore.
Quando la ragazza spuntò dalla nebbia, era talmente veloce che il cavaliere non ebbe il tempo di mettersi al riparo. Lo investì in pieno, facendoli ruzzolare entrambi nel fango, tra grida di dolore e imprecazioni.
Con la schiena immersa nella poltiglia, il cavaliere si ritrovò la faccia invasa da una cascata di capelli bagnati. Fu costretto a sputarne alcuni che gli si erano infilati in bocca. Stava per dire qualcosa, ma fu la ragazza a precederlo.
–Sei uno di loro?–
Il cavaliere non capiva di che cosa stesse parlando. –Loro chi?–
–Merda!–
In compenso, capì subito a cosa si riferisse questa volta. Una serie di passi annunciò l’arrivo di un nutrito gruppo di persone. Il cavaliere capì che non era il momento di approfondire la nuova conoscenza. Fece giusto in tempo a rialzarsi prima che quattro individui sbucassero dal fitto muro di nebbia.
–Buona piovosa giornata, messeri.–
I quattro si erano arrestati di colpo, nel vedere il cavaliere con mantello e armatura. E spada.
–Tu chi saresti?– fece uno di loro.
–Sono uno straniero, ed è giusto che mi presenti per primo– disse il cavaliere in maniera cordiale, accennando un lievissimo inchino. –Il mio nome è Winstad di Cogwald. Altrimenti detto Lama Sottile.–
Uno degli uomini non si preoccupò di trattenere un grugnito.
Lama Sottile? E che razza di soprannome è, per un cavaliere?–
–Ogni spiegazione a suo tempo– rispose bonario Winstad.
–Non abbiamo tempo per le chiacchiere, messere. Continua per la tua strada.–
–Lo farò più che volentieri, con questa fanciulla al mio fianco.–
Il più alto dei quattro, che aveva tutta l’aria di essere il capo della banda, avanzò di un passo, con quella che era senza dubbio un’aria minacciosa.
–Ascoltami bene, damerino.–
–Sono tutt’orecchie.–
–O sei uno stupido che non capisce in che situazione si è cacciato– sibilò l’uomo, –oppure sei in cerca di guai. Ti ho detto di andare per la tua strada, ed è l’ultima occasione che ti do per farlo.–
Winstad abbassò lo sguardo verso la ragazza. I capelli erano biondi. Forse, era un segno del destino.
Lei lo guardò negli occhi. Nonostante la brutta situazione in cui si trovava, c’era una spavalderia nel fondo di quegli occhi. Qualcosa che Winstad non vedeva spesso in una donna di quel tipo.
–Dimmi, fanciulla, desideri seguire questi gentiluomini?–
La ragazza lo guardò con un’espressione stranita, come se temesse che l’urto di prima avesse arrecato danno al cervello del cavaliere. –Preferirei morire.–
Winstad sospirò.
–Abbiamo un problema, messeri. Questa fanciulla non ha intenzione di seguirvi. Temo di non poter andare per la mia strada, finché la questione non sarà risolta.–
–Va bene, buffone. Te la sei cercata.–
Il più grosso dei quattro, un bernikiano calvo armato di mazza chiodata, si fece avanti per primo. Sollevò il bastone ben oltre la propria testa e si scagliò contro Winstad.
La mazza, tuttavia, non si abbassò mai per colpire la testa del cavaliere. Le mani del gigante si schiusero a poco a poco, le braccia ancora sollevate in alto, mentre la mazza scivolava lentamente verso il basso. Solo quando l’arma piombò nel fango con un suono sudicio, gli altri tre compresero che qualcosa non andava. Di lì a poco, udirono il tonfo di un corpo possente che sprofondava nella terra molliccia.
–Shûga!–
Il bernikiano era crollato faccia in giù, senza che Winstad si fosse apparentemente mosso. Ma doveva averlo fatto, perché la sua spada era sguainata e tinta di rosso, un sangue lavato in fretta dalla pioggia che cadeva a dirotto.
Il capo, con il quale Winstad si era appena intrattenuto con un amichevole scambio di battute, estrasse a sua volta un’arma. Non era una lama, né un bastone. Winstad aveva già affrontato quel tipo di arma, e un’ombra gli scuriva il viso ogni volta che gliene veniva puntata contro una. Il che, negli ultimi tempi, capitava sempre più spesso.
–Abbiamo un vero spadaccino, tra noi. È un vero peccato doverti uccidere– ridacchiò il capo, fingendo di rammaricarsi. –Ripensandoci... no. Non lo è affatto.–
Un boato assordante sovrastò lo scroscio della pioggia. Winstad sentì il petto lacerarsi in un punto esatto, mentre qualcosa di minuscolo e arroventato gli fuoriusciva a velocità impensabile dalla schiena. La vista si fece sfocata, poi non vide più nulla.
Ebbe giusto il tempo di formulare un pensiero, prima di sprofondare nell’oblio.
“Che palle. Chi lo sente lo Strozzacadaveri, adesso?”
 
***
 
–Voglio un lavoro ben fatto, come sempre.–
Il sacchetto sembrava più gonfio e sformato del solito. Drannikat lo afferrò per la cordicella e tirò in alto, in modo da richiuderlo.
–Prima che tu li prenda, voglia che sia chiara una cosa.–
–Sentiamo.–
Beliel van Stauber lo fissò a lungo. Il suo sguardo era indecifrabile, avvolto in una lieve penombra che rendeva impossibile leggerne i lineamenti. Drannikat aveva imparato a prestare molta attenzione a qualsiasi cosa uscisse dalla sua bocca. Era facile perdere la fiducia del lord di Castelric, e ancora più facile venire degradati dal massimo rango d’onore – com’era accaduto di recente al ciambellano Othis – a passatempo dei prigionieri klaav nel fondo di una fossa da combattimento. Se era vera la metà delle cose che si raccontavano sui klaav, Othis probabilmente non doveva essere molto contento di essere in loro compagnia.
–Il duca Valkaumer è l’unico ostacolo tra me e il controllo dell’intera regione. Voglio che tu lo sappia, per intuire quale sarebbe la misura della mia indulgenza se dovessi fallire.–
Drannikat fece un impercettibile segno di assenso.
–Non hai mai fallito un incarico e sono sicuro che non hai intenzione di cominciare adesso. I tuoi metodi mi lasciano perplesso... ma non ho mai avuto motivo di lamentarmene. Porta a termine il lavoro come meglio credi, basta che sia fatto. È tutto chiaro?–
Drannikat non disse nulla. Si limitò a raccogliere la borsa piena di monete e a uscire dalla stanza.
 
Il duca Valkaumer... questa volta Beliel aveva deciso di fare il grande passo. Non avrebbe osato tanto, senza Drannikat al suo servizio. Di questo, Drannikat era consapevole e poteva chiedere di più a ogni nuovo incarico. Ma sapeva che c’era un limite alla generosità del lord... un limite che stava già sfiorando.
Era arrivato al punto di doversi guardare le spalle giorno e notte. Non c’era dubbio che Beliel avesse in mente di toglierlo di mezzo, l’unico dubbio era se fosse già riuscito a trovare qualcuno in grado di tagliargli la gola. Cosa di cui Drannikat dubitava.
Era il miglior assassino del regno, forse addirittura del continente.
Questo, tuttavia, non gli consentiva di abbassare la guardia. Non poteva fare a meno di Beliel, così come Beliel non poteva – per il momento – fare a meno di lui.
Il duca era in viaggio verso Extau, in visita presso la residenza estiva del re. Le spie di Beliel si erano guadagnate la paga di un anno, con quell’informazione. Fin troppe persone avrebbero tratto notevole profitto dalla sua morte, così gli spostamenti e le intenzioni di Valkaumer erano sempre un profondo mistero. Sapendo la destinazione del suo bersaglio, Drannikat avrebbe potuto pianificare un attacco e portare la termine la missione più rischiosa che il suo padrone gli avesse mai affidato. Ma doveva progettare tutto con molta cura. Sapeva già a chi chiedere assistenza.
Sarebbe stato lontano dal suo nascondiglio per un po’ di tempo. Doveva rivedere Lethel, prima del viaggio.
 
Lethel dormiva. Non aveva le forze per fare altro.
La osservò a lungo, distesa nel giaciglio sul pavimento, avvolta nelle coperte. Avrebbe voluto darle un rifugio più confortevole, ma il denaro andava tutto messo da parte.
Drannikat protese la mano verso di lei, le dita si immersero in un fiume di capelli ambrati. Il loro colore era spento da tempo, ma lui continuava a vederli rigogliosi come il giorno in cui l’aveva conosciuta. Anche la pelle era ancora rosea ai suoi occhi, lo stesso colore impresso nella sua memoria. Il pallore cinereo, le occhiaie nerastre, le labbra esangui erano destinati a scomparire, presto o tardi. Lei sarebbe tornata bella come una volta, dovevano solo avere pazienza.
Un rantolo annunciò il suo risveglio.
–Sei tu?–
Drannikat le diede una carezza sulla guancia, più delicato che poté. –Non volevo svegliarti.–
–Stai per andare di nuovo, vero?–
–Ne abbiamo già parlato, lo sai che...–
–Non voglio che tu lo faccia.–
–È solo questione di tempo, presto avrò abbastanza oro per poterti curare.–
–Stai pagando un prezzo troppo alto.–
–Non esiste un prezzo troppo alto per salvarti. Prenderò tutto l’oro di questo mondo, se necessario.–
–Non parlavo di oro.–
–Che vuoi dire?–
Lethel fu scossa da un accesso di tosse. Drannikat finse di non vedere le goccioline di sangue che impregnavano la mano con cui si era coperta la bocca.
–Sto dicendo che il prezzo per salvarmi sarà troppo alto, per te.–
–Non c’è niente che non sarei disposto a sacrificare.–
–Hai già sacrificato l’onore, il tuo titolo e la tua famiglia, per me– mormorò Lethel. –Io morirò. È tempo che tu lo accetti, come l’ho accettato io. Non puoi continuare a consumare la tua vita per qualcosa che presto scomparirà.–
Drannikat distolse lo sguardo. Non avrebbe dato una risposta. Era il dolore che la faceva parlare così, nient’altro. Una volta trovata la cura, tutto sarebbe tornato a posto. Doveva resistere e non lasciarsi scoraggiare. Quelli erano solo momenti di debolezza, ma lui l’amava, e li avrebbe sopportati, anche se lo facevano soffrire come se avesse un pugnale nei reni.
–Ora devo andare. Starò via per un po’. Koig si prenderà cura di te.–
Lei non rispose. Non gli avrebbe detto buona fortuna, lo sapeva già. Si chinò sul suo volto emaciato e le baciò la fronte.
Prima di abbandonare la stanza, slegò il fodero dalla cintola. Osservò la lama meravigliosa snudata dalle sue mani affusolate, brillare con un barbaglio fulmineo. Un riflesso violaceo gli lambì il viso, mentre con un dito sfiorava il filo di Sanguinaria.
La spada di suo padre. La spada del suo casato, simbolo di mille anni di faide, battaglie e massacri compiuti nel nome della gloria, della sete di potere e della vendetta. Un’arma simile non poteva non attirare calamità su chi la portava.
Tanto più che quel possesso era frutto del più aberrante dei tradimenti.
 
***
 
Non lo ricordava così freddo, quel posto. Ma il Limbo non poteva essere altrimenti. Un luogo lontano da ogni forma di calore e di vita, da ogni pensiero che la mente umana potesse formulare.
E adesso era di nuovo lì, con lo Strozzacadaveri che lo fissava. Winstad intravedeva da lontano il ghigno divertito dipinto sulle sue labbra. Quel maledetto figlio di puttana.
Avrebbe emesso un sospiro rassegnato, se avesse avuto ancora i polmoni.
–Winstad di Cogwald... già di ritorno?–
–Sai, quando ti manca un posto...–
–Qualcosa mi dice che non sei qui per scambiare convenevoli... e nemmeno per raggiungere il Baratro. Affari?–
–Non sei uno che gira intorno alle cose, ma questo lo sapevo già.–
Lo Strozzacadaveri emise una risata soffocata. O forse tratteneva un rigurgito. Era difficile distinguere i rumori che producevano gli orifizi disseminati in quella massa informe.
–Ti posso offrire l’ultimo ricordo di mia madre. È molto prezioso, per me.–
Il demone finse di soppesare la proposta. Ormai Winstad lo conosceva abbastanza da saper riconoscere quando lo prendeva in giro.
–Toccante. Una memoria pura, fatta di splendida luce– mormorò, trasognato. –Ma non me ne frega un cazzo di tua madre. Voglio i tuoi ricordi di Weslorn.–
Winstad non poté trattenere un sussulto. Non avrebbe dovuto mostrare emozioni, ma la contrattazione era precipitata in fretta. Era un prezzo troppo alto. Ma doveva accettarlo. Una volta che lo Strozzacadaveri formulava una richiesta precisa, non c’era più spazio per le trattative. L’unica alternativa era il Baratro.
–Ascolta, io devo tornare tra i vivi per trovare mio fratello. Se non ricordo chi sia, mi rendi il lavoro molto difficile.–
–Questo è un problema tuo, Lametta. Non mio– cinguettò il demone, mentre gli occhi – o quelli che assomigliavano a occhi – scivolavano in direzione opposte lungo l’addome melmoso.
Lama Sottile.
–Come ti pare. Allora, che vogliamo fare?–
Winstad abbassò lo sguardo. Avrebbe accettato, non c’erano dubbi. Ma non prima di aver trovato una soluzione per quando avrebbe rimesso piede tra i vivi. Esistevano ancora dei documenti, ne era sicuro. Forse a... ma certo!
–Va bene. Accetto. Fai il tuo miracolo.–
Una voragine si aprì come uno squarcio diagonale sul corpo dello Strozzacadaveri. Un sorriso? La versione più oscena che potesse esistere, senz’altro.
–Al prossimo incontro, Winstad.–
 
***
 
Dangly era in trappola. Questa volta non ne sarebbe uscita indenne, lo sentiva. La fortuna che aveva avuto nell’incontrare lo straniero che aveva preso le sue parti era svanita nel momento stesso in cui Tobbs aveva estratto quell’arma maledetta. Non poteva opporsi allo sputafiamme, e a quanto pareva nemmeno quel povero bellimbusto che aveva cercato di proteggerla.
Distolse gli occhi dal corpo senza vita disteso nel fango, sul cui petto si scorgeva il foro fumante da cui era entrato il proiettile. Dangly aveva avuto l’impressione di sentirlo rantolare un’ultima volta, ma forse era stata solo un’impressione.
–Allora, Dan, abbiamo finito con le stupidate? Il prossimo a morire sarai tu, se non fai la brava.–
Dangly aveva una battuta mordace pronta sulla lingua, ma non ebbe mai modo di pronunciarla. Stava per dischiudere le labbra, quando uno spostamento d’aria la interruppe bruscamente. Era poco più di una brezza, ma talmente rapido da raggelare il sangue nelle vene, come una folata di vento invernale che si insinui sotto i vestiti.
Fu un urlo echeggiò nello scroscio della pioggia, sovrastandolo.
Tobbs urlava come un pazzo, mentre Dangly fissava inorridita il moncone della sua mano destra, da cui sgorgava un fiotto di sangue. La mano era precipitata in mezzo al fango. Serrava ancora lo sputafiamme tra le dita.
Dangly si voltò, osservando l’uomo comparso dal nulla al suo fianco.
Era lo straniero. Winsla di Cogwol, o come diavolo si chiamava.
Sul petto c’era ancora il foro di proiettile, fumante com’era stato appena dieci secondi prima.
–Ora sai perché mi chiamano Lama Sottile.–
Tobbs crollò a terra, esanime.
Ne restavano solo due. A giudicare dall’espressione sui loro volti, sembravano tutto fuorché intenzionati a battersi.
Il primo batté in ritirata dopo meno di un minuto. L’altro lo seguì a rotta di collo.
Il cavaliere rinfoderò la spada. Osservò dall’alto il viso pietrificato di Dangly, che si sforzava di liberarsi dallo sgomento che la paralizzava. La mascella era rimasta aperta, dipingendole un’espressione piuttosto stupida in faccia.
Il cavaliere sorrise.
–Potresti accompagnarmi alla locanda più vicina, cara?– 
   
 
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