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Autore: Kary91    28/04/2016    2 recensioni
[Max!centric | Jace!centric | Famiglia Lightwood | Missing Moment di "Città di Vetro"]
La spada del mio soldatino colpisce e colpisce, però non funziona un granché: Agramon c'è ancora, lo sento che si muove.
La mia stanza è sempre troppo buia.
Ed io... Io ho paura.
***
“Il y a longtemps que je t'aime, Jamais je ne t'oubliera” ripeté Jace in un sussurro assieme alla sua famiglia, traducendo mentalmente quelle parole: ti voglio bene da così tanto tempo che non ti dimenticherò.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Maryse Lightwood, Max Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'We're Lightwoods;'
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Ave Atque Vale

 

Io non ho paura del buio: nessuno Shadowhunter ce l'ha, Jace lo dice sempre.

Jace dice anche che pure io, un giorno, sarò un guerriero come lui: devo solo aspettare qualche anno, poi verrò marchiato. E potrò combattere con i miei fratelli e avere delle armi tutte mie. E farmi le rune. E ascoltare i discorsi da grandi. E meno male, perché non mi piace quando mi cacciano dalla stanza.

Io non ho paura del buio: è solo che ho visto delle cose, là fuori, delle cose che non mi piacciono.

C’è qualcuno sulle torri antidemone e io l’ho visto. Non può essere, lo so, ma ne sono sicuro.

Se vado di là, i ‘grandi’ mi diranno che ho sognato e mi faranno tornare a letto, ma non posso restare qui. Quello che ho visto l’ho visto da sveglio e adesso il buio mi sembra ancora più nero, perché me lo sento che c’è qualcosa che non va.

Però non ho paura del buio.

Mi guardo nelle tasche e prendo il soldatino di Jace, il suo vecchio Shadowhunter. Ci gioco un po’, gli faccio muovere la spada angelica e faccio finta che stia colpendo Agramon, un demone terribile, che ti fa venire paura: so che esiste, ho sentito il suo nome mentre ascoltavo di nascosto i miei fratelli che parlavano.

Jace l’ha sconfitto, lui non ha paura di niente: un giorno anch’io sarò un po’ come lui. E come Alec e Izzy, e anche come quella ragazza bassa che mi ha insegnato a leggere i manga, Clary.

Esisteranno i fumetti sui cacciatori di demoni?

Magari da grande provo a scriverne uno io.

La spada del mio soldatino colpisce e colpisce, però non funziona un granché: Agramon c'è ancora, lo sento che si muove.

La mia stanza è sempre troppo buia.

Ed io... Io ho paura.

 

***

 

La città di vetro, quel giorno, non aveva nulla della bellezza splendente che la caratterizzava di solito.

Sembrava così cupa – cupa e grigia – nonostante gran parte dei suoi abitanti indossasse abiti bianchi.

Jace scacciò via quel pensiero per concentrarsi sul volto piccolo e pallido del bambino adagiato di fronte a lui.

Aveva l’aria serena, Max, come se dormisse.

Non aveva le braccia incrociate sul petto, né una spada angelica fra le mani: non avrebbe avuto senso, perché il suo fratellino aveva solo nove anni, nel momento in cui Sebastian aveva deciso di farla finita con lui.

Non sarebbe mai diventato uno Shadowhunter.

Il ragazzo cercò Isabelle con lo sguardo e la sofferenza con cui lei ricambiò gli strattonò il cuore nel petto: solo l’aria ferita di Clary del giorno prima, quando l’aveva fatta fuggire dalla sua stanza con parole brusche, gli aveva fatto altrettanto male.

Mancava meno di un’ora al funerale di Max e Izzy si era rifiutata di assistere: a stento Alec era riuscito a convincerla ad abbandonare la sua stanza per rivolgere un ultimo saluto a suo fratello. Il senso di colpa le rovinava il volto, inondando di ombre i suoi lineamenti.

Nel corso degli ultimi cinque minuti si era limitata a fissare il piccolo corpo di Max in silenzio, le lacrime che gridavano per lei, scivolando copiose lungo le sue guance.

Non pronunciò parola mentre Alec raccoglieva la manina pallida del bambino fra le sue per stringergli le dita attorno a un fumetto, quello che si era portato dietro dall’Istituto. Non aveva – né avrebbe mai – finito di leggerlo.

Lo sguardo di Jace si soffermò sul soldatino di legno che Izzy ancora stringeva fra le mani. Stava aspettando che la sorella se ne separasse per infilarlo in tasca a Max, come avevano deciso di fare.

La ragazza, tuttavia, si limitò a rinsaldare la presa sul giocattolo, quasi temesse che qualcuno gliel’avrebbe strappato di mano.

A darle la forza di reagire fu il padre, nel momento in cui spiegò una benda di seta bianca e si chinò sul suo ultimogenito.

“No” sussurrò a quel punto Izzy, scuotendo categorica la testa. “No!”

Robert e Maryse le rivolsero un’occhiata confusa.

“È la tradizione, Isabelle” mormorò la madre, sfiorandole con dolcezza una spalla. Aveva la voce ferma, nonostante la sua espressione fosse dilaniata dal dolore almeno quanto quella della figlia.

Alec e Jace si scambiarono un’occhiata dubbiosa, ma presto il loro smarrimento lasciò il posto alla consapevolezza: avevano capito come mai la sorella avesse reagito così.

“Max aveva paura del buio” ricordò Jace, fissando le mani di Robert che, con dita poco ferme, stava bendando gli occhi del figlio.

Una macchia di dolore si allargò come olio sul volto del ragazzo, al pensiero di quel tormento così infantile, così ingenuo, che aveva caratterizzato Max proprio come i suoi fratelli alla stessa età.

Qual è il bambino, aveva giusto detto lui a Maryse solo qualche giorno prima, che non ha mai paura del buio?

Il suo sguardo si posò sulla donna e, in quel momento, si accorse che anche lei lo stava fissando: per un attimo fu certo che i pensieri di entrambi fossero rivolti allo stesso ricordo.

Tuttavia la sensazione durò poco, poiché Maryse tornò a guardare Max: i suoi occhi si velarono di una tenerezza struggente, mentre gli accarezzava i capelli con gesti pregni di dolore e malinconia.

Tutto a un tratto, Maryse incominciò a cantare.

Jace impiegò qualche istante a riconoscere il motivo che stava intonando, sorpreso – come tutti, del resto – dal gesto della donna.

À la claire fontaine,

M'en allant promener

J'ai trouvé l'eau si belle

Que je m'y suis baigné

 

Anche Isabelle si unì al canto e, in quel momento, Jace ne identificò la provenienza.

Anche ad Alec accadde la stessa cosa: il fratellastro ne fu certo nel momento in cui, specchiandosi nel suo sguardo, vi individuò dapprima una sfumatura di sorpresa e poi un’espressione di dolore vivo, quasi fisico.

 

Quella che stavano ascoltando era la ninnananna francese che Maryse cantava ai due fratelli Lightwood quando erano piccoli, le volte in cui avevano paura del buio e lei cercava di farli addormentare.

 

L’aveva cantata anche a Jace, il ragazzo l’aveva scoperto da poco, e probabilmente anche a Max.

 

Immaginò il fratellino angosciato da un incubo e la voce della madre, ferma eppure morbida come una carezza, che lo cullava per aiutarlo a prendere sonno.

 

Se la sera prima uno di loro fosse stato nella sua camera a cantare per lui, forse non si sarebbe mai svegliato troppo presto e non avrebbe visto Sebastian arrampicarsi sulle torri.

 

Forse non sarebbe stato ucciso, o magari sì, ma almeno avrebbe avuto quella melodia confortante a cui aggrapparsi mentre aveva paura: il canto di qualcuno che gli voleva bene.

 

Invece, suo fratello si era dovuto accontentare di uno stupido soldatino di legno: il suo soldatino.

 

 

Il y a longtemps que je t'aime

Jamais je ne t'oubliera

 

 

Mentre il ritornello della ninnananna risuonava nella stanza, Jace si accorse che delle voci maschili si erano unite a quelle di Maryse e Isabelle. Alec stava cantando a mezza voce, gli occhi azzurri resi più scuri dal risentimento e, se ne accorse con sorpresa, anche le sue labbra si stavano muovendo.

 

 

“Il y a longtemps que je t'aime, Jamais je ne t'oubliera” ripeté in un sussurro assieme alla sua famiglia, traducendo mentalmente quelle parole: ti voglio bene da così tanto tempo che non ti dimenticherò.

 

Quando anche la melodia si estinse, Robert e Maryse si guardarono a lungo. La donna annuì, prima di accarezzare un’ultima volta il viso di Max: era giunto il momento.

Anche Robert sfiorò i capelli del suo ultimogenito, e poi la fronte, sistemando con delicatezza una stanghetta degli occhiali sotto la benda di seta.

“Ave Atque Vale” mormorò infine con voce ferma, indurita dal dolore e dall’importanza delle parole che stava pronunciando: parole di addio.

“Ave atque vale” ripeterono gli altri, accarezzando Max con lo sguardo per l’ultima volta.

La melodia docile e malinconica della ninnananna riecheggiava ancora nella loro teste, insistente come una preghiera.

Il y a longtemps que je t'aime, jamais je ne t'oublieri

 

 

E al suono di quelle parole lo lasciarono andare.

 

 

 

J'ai perdu mon amie,

Sans l'avoir mérité

Pour un bouquet de roses,

Que je lui refusai[1]

A la Claire Fontaine.

 

____________________

 

Mi vergogno un sacco a pubblicare in questa sezione, perché quando muovo i primi passi in un nuovo fandom sono impacciatissima e scrivo cose banali e un po’ stentate. Però sognavo di scrivere qualcosa su Max prima ancora di aver letto i libri (e ho temuto Città di Vetro fino all’ultimo proprio perché sapevo che lì la Clare me l’avrebbe brutalmente ucciso) e alla fine non sono riuscita a trattenermi. Ho deciso di ambientare la scena prima del funerale, perché dopo non ci sarebbe stata Izzy e ci tenevo a includere anche lei. Il POV è di Jace principalmente perché volevo inserire la ninnananna di Maryse e qualche accenno alla conversazione fra lui e la madre adottiva. Sia la canzone che i riferimenti a questa canzone provengono da “Città di Cenere”.

E niente, sto sperando veramente tanto di avere Max vivo e vegeto almeno nella serie TV, siccome ho notato che stanno apportando diversi cambiamenti!

Grazie a chiunque sia passato a leggere questa storia!

Laura

 



[1] Ho perso il mio amato / senza meritarmelo / per via di un mazzo di fiori /che ho rifiutato di dargli.

Questi versi della ninnananna mi hanno fatto tanto pensare ai sensi di colpa di Isabelle (e probabilmente anche degli altri Lightwood) e all’aiuto/ascolto che pensa di non aver dato al fratellino il giorno in cui è morto.

 

   
 
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