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Autore: Gaia Bessie    01/05/2016    4 recensioni
Rose si era sempre chiesta che sapore avesse l’Amortentia, nel momento in cui sfiorava le labbra e la coprivi subito con un bacio. Mentre ristagnava nella coppa, sembrava un liquido così innocuo da far ridere, o sorridere: profumo di campanule e camomilla, che male avrebbe mai potuto fare?
Eppure, ogni volta che Scorpius doveva afferrare la coppa, gli tremavano le mani.
Prima classificata al Contest "La virtù porta rimpianti" indetto da Mary Black sul forum di Efp
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Dominique Weasley, Rose Weasley, Scorpius Malfoy | Coppie: Rose/Scorpius
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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NDA: Ho voluto giocare molto sui caratteri dei personaggi, cercando di giocare uno schema diverso. Non sappiamo nulla della NG e ho provato a creare combinazioni nuove che, ovviamente, possono piacere e non piacere. A me, personalmente, questa versione non dispiace particolarmente, è stato divertente poter provare a scrivere una storia con personaggi più maledetti di quel che immaginiamo. Mi sono presa una piccola licenza poetica sui capelli di Rose, che sono diventati castano-rossi, e sui suoi occhi che sono diventati azzurri.
Per quanto riguarda la simbologia di alcune cose (no spoiler) ti lascio un trafiletto a fine storia.
Il titolo è un richiamo al testo, nonché mia personale ossessione per la parola firefly.
 
 


L’aria sapeva di vapore e incenso, di finestre chiuse e di una camicetta, insanguinata di vino rosso, messa ad asciugare fra l’anta aperta dell’armadio e lo stipite della porta: Dominique mescolava le carte, ignorando suoni e immagini e anche odori, con una serietà sorprendente. I ventidue arcani maggiori le scivolavano fra le dita come se fossero nati per stare fra le sue mani, e nessuno si sarebbe stupito se, nello sfogliarli, si fosse imbattuto nella macchia di sangue che colorava la sesta carta. La stessa Dominique non avrebbe saputo spiegare quand’era che si era tagliata con le sue stesse carte, deturpando la faccia di quella che, in fin dei conti, poteva essere l’arcano peggiore.
Era apparsa dal nulla, quella macchia, e da un giorno all’altro si era slargata fino a risultare un taglio o un sorriso sul rettangolino plastificato.
«Taglia il mazzo» mormorò la ragazza, gli occhi chiari fissi sul panno del tavolo. Era stato azzurro come i suoi occhi, un tempo, finché non si era sporcato e sbiadito in un grigio senza tono o accento, e non se ne era più potuto intuire il motivo originario che l’aveva decorato.
Rose Weasley tagliò il mazzo, sbuffando contrariata, e una ciocca di capelli le oscurò una porzione di viso. Era un mistero, la bellezza sporca di Rose, i capelli castani che avevano conservato il monito dell’antica fiamma della stirpe di suo padre, e gli occhi azzurri, con una macchietta castana sul sinistro. Era un mistero il sorriso che faceva quando si svegliava la mattina e quando, la sera, sciacquava via le espressioni della giornata precedente, annegandole nel catino pieno d’acqua.
Di Hermione Granger e Ron Weasley, alla fine, non aveva preso poi molto, esclusi i colori e qualcosa nel viso che poteva ricordare i migliori amici di Potter. Si erano combinati, i geni Weasley-Granger, in un connubio perfetto, in una bellezza da bambolina di porcellana che avrebbe potuto incantare chiunque, se solamente Rose l’avesse saputa usare con meno violenza, senza ferire.
«Non credo a queste cazzate, Dom» biascicò la ragazza, annoiata, mentre la cugina la incitava a pescare una carta dal mazzo. «Non capisco nemmeno perché ti ostini a seguire Divinazione».
Dominique non rispose nemmeno, ma si chinò come una chioccia su quella carta che Rose aveva afferrato, sbuffando, e girandola in maniera tale che la figura potesse ricambiare il suo sguardo.
Sullo sfondo, gli amanti sorridevano, intrecciati nel loro nodo, e sfumati dalla macchia di sangue della loro padrona. La quale, fissandoli, ricacciò in gola le parole.
«Allora?» domandò Rose, impaziente. «Le carte non ti parlano più?».
Le carte stavano parlando fin troppo, invece, si rese conto Dominique, gli occhi azzurri fissi su quel sorriso rosso che copriva buona parte della figura. Sospirò pesantemente, mentre metteva al suo posto il sesto arcano maggiore, e gli amanti sorridevano beati nel loro intreccio adulterino.
«Non importa, Rose» mormorò, stancamente. «Non possiamo rispondere a ogni domanda che ci passa per la testa».
Ma a quella, in realtà, avrebbe potuto. Se solamente ne avesse avuto il coraggio, Dominique avrebbe dovuto guardare sua cugina negli occhi, e sostenere il suo sguardo implacabile, e dirle che gli amanti sono un’ottima carta, solitamente, poteva andare peggio.
Rose scosse il capo, con aria di palese superiorità, e si lasciò andare sullo schienale della sedia, gli occhi socchiusi. «Così non saprò mai se sarà mio» bisbigliò. «Peccato».
Dominique sorrise, mesta, mentre riponeva le carte nel loro astuccio. «Oh, lo avrai eccome» mormorò, pregando che sua cugina non la sentisse. «Hai sempre tutto quello che desideri».
Ma la carta, Rose, l’aveva pescata rovesciata.
 
 
Fireflies
 
Con un frammento di pensiero o di sogno, Scorpius Malfoy si punse il dito, una mattina, mentre cercava di fare ordine fra i coniglietti di polvere che zampettavano per il Manor. Suo figlio aveva pianto tutta la notte, e lui aveva fatto finta di non sentire, un lamento talmente acuto che aveva finito per penetrare nei suoi stessi sogni. Quando si era svegliato, Scorpius aveva scorto il suo viso riflesso in mille palloncini di vetro blu oltremare, e aveva spalancato la bocca in un grido che non aveva nemmeno sfiorato le corde vocali: si era scordato che sua moglie aveva riempito ogni angolo della stanca con le sue parole così che, ogni volta che Rose sfiorava una di quelle bolle di vetro soffiato, la voce del giovane Malfoy riempiva il silenzio.
Aveva provato a distruggerne una sola, un giorno, e ne era uscito con una cicatrice rosea sul palmo della mano, e un ti amo che aleggiava, come un veleno a rilascio graduale, nell’aria della stanza.
Ma lui, quel ti amo, non l’aveva mai pronunciato. E chissà quale incantesimo, chissà quale assurda fantasia doveva aver coltivato Rose per riuscire a creare una bolla che le facesse credere una cosa così folle e insensata come che lui l’amasse.
L’unica parvenza di sentimento che Scorpius riusciva a provare per sua moglie era quella tiepida gratitudine che provava per avergli consentito di fuggire dal clima teso che si respirava fra i suoi genitori. Asteria Malfoy, bellicosa fino alla punta dei lunghi capelli biondi, si era accampata in una vecchia tenuta in Irlanda, ereditata da chissà quale zio scapestrato, con l’intento di non lasciarla fino all’avvento delle prossime calende greche. E Draco Malfoy, dal canto suo, non sembrava nemmeno vagamente intenzionato a partire per andare a recuperarla.
Scorpius si era sempre chiesto quale fosse stato il sentimento che aveva spinto i suoi genitori a convolare a nozze, dato che mostravano apertamente di non nutrire né il minimo affetto né la minima stima l’uno nei confronti dell’altra. In realtà, la soluzione al suo dilemma gliel’aveva proposta sua madre, il giorno in cui era venuta a conoscere suo nipote, da sola.
«Non si tratta di amore, tesoro» gli aveva detto, carezzandogli il capo con materna sollecitudine. «Spesso, i matrimoni sono un triste rimasuglio di noia e abitudine. Bada a non diventare insofferente, se non vuoi cominciare a scappare anche tu».
«Non sono insofferente» aveva biascicato Scorpius, in risposta, e silenziosamente si era sorpreso di non riuscire a provare nemmeno un rimasuglio di emozione, di fastidio, nei confronti di sua moglie.
«No, sei indifferente» aveva sospirato Asteria, il sorriso triste di una nereide, sul viso. «Il che può essere anche peggio. Ti accorgerai di rivolerla solo quando l’avrai fatta scappare, tesoro».
Scorpius non aveva risposto, non avrebbe saputo cosa dire. Rose era un fantasma rosso e azzurro che vagava per il Manor, sorda al pianto di suo figlio, i capelli raccolti in una crocchia disordinata.
La bellezza di una bambola, il sorriso frantumato, si era sporcata con l’avanzare del tempo. Se un tempo doveva essere stata bella, bellissima come quella stella senza nome che oscurava tutte le altre, gli anni avevano finito per sbiadirla e scolorarla, finché non era rimasta una donna tratteggiata col carboncino. Le ossa ben visibili sotto un sottile strato di pelle chiara, opaca, come una collanina di perle di fiume e ossicini che, a ogni passo, tintinnavano una nenia funebre.
Eppure, da qualche parte, lo spettro della Rose sedicenne che Scorpius aveva conosciuto, c’era ancora. Bisognava scavare dietro il viso stanco e senza trucco, dietro i capelli sbiaditi, ma c’era.
C’era per una singola ora, una volta ogni quattordici giorni, nel momento in cui si alzava dal letto e apriva l’armadio, per metter su un vestito blu come una notte senza stelle. Scioglieva i capelli sulle spalle e, da qualche strana angolazione, potevano sembrare ancora quelle onde castano-ramate che in tanti le avevano invidiato.
C’era quell’ora, quei sessanta minuti in cui Rose si alzava e tintinnava sui suoi tacchi fino alla camera di suo marito, per sedersi su un piccolo pouf imbottito, foderato di rosso opaco. L’aveva richiesto lei, una parodia del rosso Grifondoro.
Si sedeva e accavallava le gambe, scoprendo una porzione di pelle troppo chiara o rossa di graffi e lividi. Un bambino piangeva in lontananza, il più delle volte, ma lei era troppo occupata a sorridere nel suo viso truccato, ancora e per quell’ora soltanto, mentre porgeva a Scorpius una coppa dorata, l’asso di coppe, colma di pozione alla menta e zucchero bruciato.
Mentre lui deglutiva, mostrava il collo bianco e vulnerabile. Rose scopriva i denti, chiedendosi di cosa sapesse il sangue bevuto direttamente dalla giugulare.
 
***
 
Rose si era sempre chiesta che sapore avesse l’Amortentia, nel momento in cui sfiorava le labbra e la coprivi subito con un bacio. Mentre ristagnava nella coppa, sembrava un liquido così innocuo da far ridere, o sorridere: profumo di campanule e camomilla, che male avrebbe mai potuto fare?
Eppure, ogni volta che Scorpius doveva afferrare la coppa, gli tremavano le mani. E Rose, implacabile com’era, non riusciva a comprenderne il motivo.
La disgustava quasi, la vista di suo marito che, tremando come un bambino, portava alle labbra la pozione, quasi come se temesse che fosse succo di mandorle amare. Aveva avuto la tentazione, spesso, di condire l’Amortentia con una spolverata di arsenico ma, ogni volta, era stata la sua mano, a tremare.
Mentre Scorpius mandava giù la pozione, però, era lì che Rose riusciva a capire perché. Qualunque cosa avessero detto le maledette carte di Dominique, lei Scorpius lo amava. E lo amava di uno di quegli amori così asimmetrici da essere, in qualche maniera, intrinsecamente sbagliati.
Lo aveva amato di quell’amore da adolescente con una brutta cotta che non riesce a farsi passare, che non deve dire a nessuno. Quando Rose Weasley era senza cuore, o fingeva di non averlo solamente per spezzare quello di tutti gli altri, sulla sua via si era palesato Scorpius Malfoy. E forse per sfida, o forse per colpo di fulmine, aveva deciso che avrebbe voluto averlo.
Avrebbe fatto carte false, fossero state quelle da solitario o gli arcani maggiori, per averlo.
E, di fatto, così era stato.
«Bevi» mormorò, stancamente, vedendo che Scorpius cincischiava con la pozione come un bambino con un mazzo di carte. Aveva già un palloncino di vetro in mano.
Per anni gli aveva fatto credere che registrasse tutto quello che lui le diceva sotto l’effetto del filtro d’amore, ogni frase, ogni sguardo che non le avrebbe mai dedicato altrimenti.
Non era così.
Lo sguardo di Scorpius cambiò, divenne quasi mercurio liquido, e istintivamente la fece sorridere, come una bambina. Non imprimeva mai le parole di suo marito nel vetro soffiato, quando era sotto effetto dell’Amortentia. Tutte le sfere che aveva conservato erano piene di quei gesti casuali, di quelle frasi buttate lì come per caso, che lui aveva detto o fatto senza accorgersene minimamente.
Era anche per questo che aveva proibito a Scorpius anche solo di sfiorarle con la punta delle dita, casomai rompesse uno di quei momenti che magari lui, nella sua solita noncuranza, non aveva nemmeno notato.
«Rose…» Scorpius sembrava quasi un bambino che aveva perso la mamma, lo sguardo triste e mogio che quasi la faceva sentire in colpa. E, in quel momento, lei si alzò, sinuosa come una pantera, per montargli su a cavalcioni.
Lui non oppose la minima resistenza, ma assecondò i movimenti di sua moglie, sfiorandole con il palmo della mano la linea leggera del fianco. Si era appena arrotondata dopo la nascita del primo figlio, facendo scomparire numerosi di quegli angoli che l’avevano caratterizzata da adolescente.
Scorpius la strinse e, per un attimo, lei riuscì quasi a convincersi che fosse tutto vero.
Che forse era davvero diventata talmente importante, per lui, da costringerlo a pronunciare il suo nome, e non quello di un’altra, quando facevano l’amore. Che forse, per qualche strana congiunzione astrale o decisione del fato, lui l’amava almeno la metà di quanto lo amava lei.
Ma Scorpius si muoveva meccanicamente, come un burattino con i fili annodati, e lei sentiva che dietro ogni bacio, ogni carezza, c’era il profumo del filtro d’amore.
E per quanto fosse sbagliato, e grottesco, costringerlo ad amarla per un’ora, in quella maniera, quella parentesi a cadenza bisettimanale era tutto quello che le rimaneva.
«Dimmi che mi ami» sussurrò Rose, dolcemente, con una mano che vagava nei capelli troppo chiari del marito. La fede nuziale, lo smeraldo dei Malfoy, vi si impigliò.
Scorpius glielo disse dolcemente.
Chissà che intrugli proibiti, che patti sacri Rose aveva dovuto infrangere per convincerlo a metterle quell’anello al dito. Si doveva essere elevata a Dio lei stessa, per costringere Scorpius Malfoy ad amarla come avrebbe voluto, per avere per un’ora quell’anello che poi si costringeva a metter via.
E aveva funzionato solamente per un’ora ogni due settimane.
La bolla di vetro si gonfiò del ti amo di Scorpius.
 
***
 
Scorpius si era sempre chiesto che sapore avesse la Polisucco, quando non la vedeva ribollire nel suo calice, l’asso di coppe, come magma fuso pronto a sciogliere i tratti di sua moglie. Aveva un aspetto ributtante, la pozione, che gorgogliava nel suo recipiente. Dove, in ogni caso, risiedeva per una manciata di secondi: Rose sembrava sempre avere una fretta dannata di finirla in tempi brevi, e ingollava la pozione come se fosse stata acqua fresca.
Non si scomponeva minimamente mentre la Polisucco le rimodellava i tratti, trasformandola in una donna oggettivamente meno bella di Rose ma che, comunque, Scorpius amava più di lei.
Il giorno in cui Dominique aveva pescato la morte rovesciata, era stato un giorno di quelli dove l’umidità ti si attacca alla pelle e non ti lascia quasi mai respirare. Era anche stato il giorno in cui Scorpius l’aveva vista vestirsi a tentoni, nel buio, con le mani che tremavano: i tarocchi non li aveva messi nella tasca del mantello, non le servivano più.
Come in un sogno, Dominique si era avvicinata a Scorpius, sorridendo dolcemente. I tempi di Hogwarts, dove si erano conosciuti, e innamorati, parevano esiliati in altri secoli.
Ma lei, la Dominique con i tratti lievi come un calco di cera e il naso troppo affilato per un visino da bambolina, i capelli sempre davanti al viso, era ancora lì. Se sua cugina si era affilata, nel tempo che passava, in quel cancro che le mordeva il cuore, Dominique era ancora lì.
Rose, tutta invidia e rancore, si era affilata fino a diventare lei stessa una lama avvelenata. Assaggiando la dolcezza stucchevole del miele d’arancio e mandorle amare, Dominique aveva pianto lacrime argentee, e si era scusata. Qualcuno le aveva raccontato che un Weasley si innamora soltanto una volta, nella vita, e se questo poteva essere l’incipit perfetto per una fiaba per bambini, nella realtà dei fatti, se davanti avevi una Rose arrabbiata e avvelenata, non era così.
Dominique, a Scorpius, non l’aveva mai detto che, quando erano appena sedicenni, aveva letto le carte a sua cugina. E, scavando nel significato di ogni arcano, si era convinta che una delle due dovesse per forza cedere quel ragazzo che entrambe amavano, seppure in maniere diverse.
Sebbene scorresse una minima parte di sangue Veela nelle sue vene, Dominique non era mai stata particolarmente bella. Meno bella di sua sorella e suo fratello, certamente, e di sua cugina.
Non era mai stato un problema, però, almeno finché non si era trovata ad ammirare in silenzio il ragazzo che aveva puntato Rose, in maniere ben più plateali di lei.
Forse era anche per questo che Scorpius l’aveva amata così tanto, quando Dominique si faceva così piccola, al fianco dell’appariscente cugina, che nessuno poteva notarla. L’aveva amata per questo e per tutto il resto.
Così, la mattina della morte rovesciata, Dominique aveva baciato Scorpius sulla fronte e si era voltata, così che l’ultima cosa che lui riesce a ricordarsi di lei è la sua schiena e il braccio della bacchetta di alza. La treccia biondo-sporco di Dominique fu consegnata all’abbraccio ligneo del comodino, e sarebbero passati anni prima che Scorpius comprendesse l’utilità di quel regalo.
Ma i capelli sarebbero finiti, prima o poi, pensò dunque mentre ne lasciava cadere uno degli ultimi superstiti nell’asso di coppe. E lui avrebbe dovuto convivere con il fantasma di un ricordo che si andava sbiadendo irrimediabilmente, senza che si potesse far nulla per evitarlo.
«Bevi» non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che Rose aveva già mandato giù la pozione.
Un’ora ogni due settimane, e Scorpius tentava di imprimere nel cervello ogni singolo gesto di Rose, ogni singolo bacio che gli imprimeva sulla pelle, con le sembianze di Dominique che, controluce, ad occhi chiusi, sembravano reali.
Non c’era nemmeno bisogno di sollecitarla ad accettare le avances di Scorpius e questo, segretamente, lo terrorizzava. Perché Rose gli si premeva contro come una furia, come se nutrisse un bisogno quasi peccaminoso di sentire che lui, sebbene per vie traverse, l’amava.
La mattina della morte rovesciata, quella mattina che Scorpius non riesce a dimenticare, era la mattina prima del ventiquattresimo compleanno di Dominique.
E lei sarebbe tornata indietro solo dopo due settimane, in una bara foderata di rosso opaco, per un funerale a cui Scorpius non avrebbe partecipato.
«Dimmi che mi ami» sussurrò Rose, dolcemente, con la voce e il viso di Dominique.
Scorpius lo mormorò così piano che nemmeno lui si sentì. Ma Rose sorrise, e sorrise con il sorriso di Dominique, e si scostò i capelli biondi dal viso, rivelando quel naso che era stato il cruccio della cugina.
Schiuse le labbra, e Scorpius temette che fosse intenzionata a nutrirsi del suo sangue e della sua anima.
 
***
 
«Mamma è tornata a casa» osservò Scorpius, sollevando a malapena lo sguardo dalla Gazzetta del Profeta. Sul collo, spiccava intensa una macchia violacea, in contrasto con il candore della camicia fresca di bucato.
«Sai bene che prezzo ha il mio silenzio» replicò Rose, senza nemmeno voltarsi per guardarlo, intenta com’era a scrutare il proprio riflesso nello specchio.
«Hai intenzione di fare questa pantomima ogni volta?» sbuffò suo marito, contrariato. «Non è la prima volta che mia madre viene a trovarci».
«E non sarà nemmeno l’ultima» dichiarò lei, soddisfatta. «Non penso che tua madre voglia sapere cos’è che facciamo, al posto di inscenare la commedia della famiglia perfetta».
Scorpius chinò il capo, sapendo che Rose aveva colpito il tasto esatto. C’era solo un giudizio che aveva sempre venerato e temuto, ed era quello di sua madre.
Asteria Greengrass-Malfoy non aveva mai avuto nulla di eccessivamente severo, o implacabile, ma Scorpius ricordava sempre con tristezza l’espressione mesta che sua madre assumeva ogni volta che lui non teneva un comportamento ineccepibile. E questo era peggio dei rimproveri del padre, i quali rimanevano perennemente lungi dal sortire effetto.
Pensò alle due ore che si ripetevano ogni quattordici giorni, una per lei e una per lui, e comprese che era qualcosa di così disgustosamente malato che sua madre non avrebbe mai dovuto saperlo. Lo realizzò, esattamente come ogni volta, tutto in un colpo. E, silenziosamente, annichilì.
«Va bene» cedette. «Qualunque cosa, Rose, come ogni volta».
Lei sorrise, del sorriso delle sirene che stanno per annegarti in una pozza d’acqua torbida. E, per un attimo, apparve bella come l’adolescente che era stata.
Scorpius alzò lo sguardo e, per una volta, si oppose a quella felicità cieca e primordiale che provava sua moglie nell’obbligarlo a fingere di amarla.
Ricordati, sembrò dire, che ti ho presa solo perché sei sempre stata così stupida da amarmi anche quando ho deciso di usarti come mezzo per perpetuare un ricordo che, altrimenti, chissà come sarebbe sbiadito.
Rose lo sapeva perfettamente, e aveva gioito segretamente il giorno in cui Dominique aveva pescato la morte rovesciata. Lei, che di arcani non ne comprendeva nemmeno uno, aveva gioito nel sentire la spiegazione e immaginare il resto: anche lei in attesa di quella sofferenza preannunciata, una sera che risplendeva di lucciole, aveva pregato che le carte non mentissero.
In un clima di romantiche stelle cadenti, si era decisa a compiere un passo, sebbene fosse un salto nel vuoto, gettandosi fra le braccia dell’unico uomo che non l’aveva mai amata, e nemmeno temuta. E forse aveva ragione, Asteria Malfoy, nel dire che c’è qualcosa di molto più pericoloso dell’odio e dell’amore, ed è l’indifferenza.
«Lo sai che finirà nel momento esatto in cui mia madre metterà un piede fuori da quella porta, non è vero?» domandò Scorpius, e a sua moglie si fermò il respiro in gola.
Rose abbassò lo sguardo, senza concedergli la soddisfazione di vederla affranta.
«Ma, finché lei è qui, si gioca con le mie regole» sibilò.
Se Scorpius l’avesse guardata negli occhi, di certo sarebbe rimasto pietrificato come davanti a una Medusa pagana.
 
***
 
Chissà chi ci credeva, poi, nelle stelle cadenti. Chi poteva essere talmente sciocco da guardarne una per esprimere un desiderio che non risiedeva né in cielo né in terra, ed attendere che il cosmo assecondasse ogni suo sporco e inutile desiderio.
Rose voltò il capo, e le onde dei suoi capelli si mescolarono con la terra smossa e l’erba madida di pioggia. Il cielo aveva pianto sangue per un tramonto intero e lei non se ne era minimamente resa conto, persa com’era a cercare una logica in quella sua ossessione protratta fino alla fine dei tempi.
Rose non aveva il cuore di una madre, la madre di un figlio che non portava il nome scelto da lei e che avrebbe chiamato mamma la sua tata, e nemmeno il cuore di una moglie innamorata di un marito che la mattina la salutava con un bacio e una carezza.
Aveva piuttosto il cuore di un’amante che si svegliava sul divano, con un morso a cicatrizzare sulla spalla, e Scorpius che dormiva annebbiato dei fumi di un filtro d’amore. Il patto che avevano fatto, il Voto Infrangibile, era vincolato a quella treccia che si andava disintegrando in ogni bicchiere di Polisucco che lei era costretta a inghiottire, in silenzio.
E lui non l’amava – avrebbe potuto? – perché amarla avrebbe voluto dire ascoltare per più di dieci minuti tutte quelle macchie, quelle sbavature di catrame che deturpavano la sua anima. Avrebbe voluto dire scambiare una lucciola per una stella cadente e chiederle un favore che nemmeno tutti gli Dei della natura, o degli uomini, avrebbero potuto concedere.
«Rose. Rientra» la voce di Scorpius fendette l’aria come una lama. «Fa freddo, e mia madre sarà qui a minuti. Cerca almeno di darti una sistemata. Ho lasciato il tuo anello sul tavolo del salotto».
Rose si alzò, senza percepire realmente il suo stesso movimento. Pensò al peso dolce della fede nuziale, non la indossava da sei mesi, sull’anulare, e un calore inatteso le scaldò il cuore.
Pensò al sorriso che Scorpius avrebbe finto, e ai baci che le avrebbe dato, tutte menzogne, e si accorse che, sorprendentemente, per una volta erano le sue mani, quelle che tremavano.
Pensò, e se ne convinse anche, che presto sarebbe stata l’ultima volta.
«Mi ami?» mormorò, così piano che lui dovette dedurre la domanda da quello sbuffo di vapore che le era uscito dalle labbra.
Scorpius inclinò il capo, perplesso. E lei immortalò la sua espressione in un altro palloncino di vetro blu oltremare, certa che sarebbe stata una delle ultime. Non ne rimanevano più, capelli e speranza, stelle cadenti, lucciole che girovagavano nel giardino del Manor.
Con un movimento di bacchetta, l’espressione di Scorpius si congelò nel vetro, e lui nemmeno se ne accorse.
«Non è ancora ora, Rose» sbottò Scorpius, alzando gli occhi al cielo. Una lucciola gli incendiò lo sguardo, e sua moglie rabbrividì.
«Ma io ti amo…».
Scorpius fece finta di non sentire.
 
***
 
Asteria Greengrass-Malfoy fece tintinnare una cucchiaiata generosa di miele d’arancio nella sua tazza di tè, sorridendo di un sorriso rosso rossetto. «Ho visto il piccolo, questa mattina» il piccolo figlio dai capelli biondo-rossi di cui nessuno di era curato per mesi. Lo aveva, un nome?
A Rose non importava, non avrebbe mai comunque avuto un nome scelto da lei. «Ha iniziato a borbottare le prime parole».
Scorpius alzò lo sguardo dalla sua colazione, e finse un sorriso. «Cosa ha detto?».
«Mamma».
A Rose andò di traverso il miele, e si chiese che gusto avrebbe avuto se lei lo avesse mandato giù con una manciata di mandorle amare.
 
***
 
«Mi dispiace» mormorò Scorpius, sulla soglia della camera da letto, mentre sua moglie infilava dalla testa la camicia da notte. «Non pensava che ti sarebbe importato».
Rose non lo smentì. Ma nella sua testa, un piccolo Scorpius con i capelli biondo-rossi continuava a chiamare mamma sua nonna.
«Va bene così» bisbigliò lei, subito distratta dalle carezze delicate del marito su di sé. «Non importa».
Di certo non le importava, mentre Scorpius adempiva alla sua parte di accordo, quasi meccanicamente, senza trasporto. E lei, silenziosamente, cercava di vedere in quell’obbligo una briciola di quel piacere lancinante che provava anche solo guardandolo, senza essere minimamente ricambiata.
«Lei non voleva…» continuò Scorpius, giocherellando con i lembi della camicia di notte di sua moglie.
«Shh» lo zittì Rose, alzandosi in piedi, di scatto. «Non è il momento per parlare».
Si fece schifo da sola, mentre stendeva Scorpius sul letto e si chinava per baciargli il collo, ma era anche l’unico metodo che aveva per prendersi quel carico d’amore che lui aveva già donato a Dominique, anni prima.
Si fece schifo mentre lo spogliava, mentre lo sentiva mordersi le labbra per non dire un altro nome. Se Scorpius l’avesse guardata in viso, si sarebbe accorto che sua moglie faticava a non piangere.
«Ti amo».
A lei si fermò il cuore, per quella piccola bugia, e il suo riflesso tentennò in tutte le sfere di vetro che aveva messo in camera. Scorpius non lo sospettava minimamente, ma Rose avrebbe passato la notte a riascoltare ogni singola frase che le aveva detto.
«Anch’io ti amo».
Il fatto che lei fosse l’unica sincera non contava niente.
 
 

 
Note:
 
I tarocchi possono essere pescati sia dritti (significato positivo) sia a rovescio (significato negativo)
 
Gli amanti sono il sesto arcano maggiore dei tarocchi, nonché uno di quelli che detesto maggiormente. Rovesciati hanno vari significati, fra cui il più immediato è quello del tradimento, gelosia, amori che non vanno in porto ecc.
 
La morte è il tredicesimo arcano maggiore dei tarocchi, e rovesciata vuol dire esattamente quello che preannuncia. Morte.
 
L'asso di coppe è uno degli arcani minori, ed è un effetto benefico nella smazzata. Qui è usato solo per sottolineare il beneficio apparente del filtro.
 
 
 
   
 
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