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Autore: Woland Mephisto    03/05/2016    2 recensioni
Da quando è stato ritrovato e scongelato, Steve ha una strana abitudine: esce e girovaga, nessuno sa dove e per fare cosa.
Ma quando si trasferisce alla Torre, la sua assenza non passa inosservata a Tony, con cui ha instaurato da poco un rapporto amoroso, che una sera decide di seguirlo, prima un po' preoccupato e poi curioso.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
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La sublimazione della SuperCoppia




 
Steve era appena tornato dalla sua “corsa mattutina”, mentre Tony stava ingollando l’ennesimo caffè. Tony sapeva che era Steve quello che varcava la soglia della Torre perché nessun altro poteva essere uscito tanto presto per tornare indietro alle sei e quarantacinque del mattino.
«Ah, buongiorno, Tony! Sei già sveglio?», disse il Capitano con un largo sorriso, pieno di energia.
Tony lo guardò come se avesse voluto incenerirlo.
«Quando mai sono andato a dormire?», gli rispose acido.
Steve inarcò le sopracciglia, guardandolo allibito. Aprì la bocca per rispondere, ma poi, ripensandoci, la richiuse e aggirò il banco davanti alla cucina per andare a versarsi del caffè: le loro liti erano interminabili, quindi avrebbe volentieri evitato di avviarne una per cause futili. Sicuramente Tony stava così per il sonno mancato e tutta quella caffeina in circolo. Da quante ore era in piedi a lavorare nel suo laboratorio?
«Ma hai davvero già finito il caffè? Tony, sono le sette meno un quarto del mattino e già non c’è più caffè? Guarda che la caffeina è un eccitan-», ma il Capitano fu interrotto dalla domanda del moro: «Dove sei stato?», posta con tono inquisitorio, sottolineato dall’assottigliamento dello sguardo di quest’ultimo.
«A correre, come ogni mattina! Comunque, dovresti smetterla di bere tutto questo caffè, sul serio, hai più caffeina che sangue nel cor-», ma di nuovo il biondo venne interrotto da una domanda di Stark.
«A che diavolo di ora esci per tornare alla Torre tanto presto?», aveva un tono perentorio, come se fosse irritato da qualcosa che Steve aveva fatto.
«Di solito corro per un’ ora e mezza, perciò sono uscito molto presto, come intuisci. Però, Tony, se tu la smettessi di terminare il caffè prima ancora che noialtri possia-», ma anche stavolta Tony aveva preso parola prima che il Capitano terminasse la frase.
«Perché non parli mai con me, Rogers?», sbottò, sbattendo la tazza semipiena di liquido scuro sul ripiano dell’isola della cucina.
«Datti una calmata, Stark, e smetti di interrompermi mentre parlo! Lo sai che mi urta!», urlò di rimando Steve, che aveva ancora in mano la sua tazza tristemente vuota.
«Oh, lui è urtato! Mentre io non ho il diritto di offendermi se il mio ragazzo non mi dice perché sparisce ogni notte! Cos’è, non sono degno?», le parole gli uscirono di bocca tremanti come le sue mani, ma Steve non avrebbe saputo dire se fosse per la collera o tutta quella caffeina che sovreccitava il moro.
«Abbassa la voce, gli altri potrebbero sentirti! Lo sai che non sanno…non sanno di me e te, ecco», si ritrovò a sussurrare Steve, avvicinandosi al suo uomo.
«Ah, fantastico! Non riesci neanche a dire noi!», asserì Tony con stizza, incrociando le braccia e le gambe e guardandolo male da sotto in su, seduto sul suo alto sgabello di pelle.
L’imbarazzo di Steve era alle stelle, mentre un rossore impacciato si faceva largo sulle sue guance.
«Tony, siamo una coppia da poco e tu sei il primo…ecco, il primo con cui sia mai stato. Puoi almeno darmi un po’ di tempo per abituarmici?», chiese il biondone alzando le spalle e abbassando lo sguardo, visibilmente in imbarazzo.
«Abituartici? Solo se mi dici che cosa fai di notte, quando sparisci per ore e ore! Oppure credi che non me ne sia accorto? Credi davvero che sia così stupido?», Tony si alzò in piedi per guardarlo negli occhi color acquamarina, per fronteggiarlo nonostante il dislivello d’altezza.
«Ma perché devi comportarti da mogliettina gelosa?», tergiversava il Capitano, facendo un passo indietro perché Tony si stava avvicinando decisamente troppo e su quel tavolo loro ci facevano colazione – tutti quanti gli Avengers – e non era proprio il caso di adibirlo ad altre funzioni ricreative.
Tony lo stava guardando con astio sempre crescente.
«Punto primo», esclamò, alzando il dito indice per sottolineare ciò che aveva detto, puntandoglielo successivamente al petto, «io nono sono la mogliettina, chiaro? Sono un uomo anch’io, e sono virile quanto te, anche se più basso, e ho testosterone quanto te, quindi non osare mai più provare a dire che potrei essere una donna; punto secondo» e qui alzò il tono della voce perché evidentemente Steve aveva provato a controbattere, magari per difendersi da quelle infondate accuse, «davvero non vuoi parlare con me di dove sparisci e che cosa fai quando non ci sei? Sappi che ho davvero un miliardo di mezzi per scoprirlo, e sappi che se scopro che non è tutto come dovrebbe essere ti farò fare il giro degli Stati Uniti a calci in culo, una stelletta di dolore per ogni stato!», ora il suo naso sfiorava quello del biondo che lo guardava sempre più perplesso.
Dopo aver schivato il tentativo di Steve di baciarlo, Tony si girò, si tolse le mani di Steve – che aveva provato a tirarlo a sé prendendolo per la vita – di dosso e andò verso le scale che conducevano al suo laboratorio.
Poi si ricordò che aveva lasciato la tazza del caffè sul ripiano dell’isola della cucina, tornò indietro, guardò Steve con gli occhi assottigliati – Steve ormai sorrideva – gli puntò un dito contro e se ne andò così, guardandolo con l’indice accusatore.
Steve sapeva che Tony non avrebbe mollato così, che ci sarebbero state altre discussioni, che l’altro probabilmente aveva ragione a dirgli di aprirsi con lui – non è anche questo che fanno le coppie, in fondo? – e quest’ultimo pensiero lo stizziva alquanto. Ma non poteva fare a meno di sorridere pensando a quanto il suo ragazzo fosse adorabilmente astioso.
Guardò il fondo della sua tazza vuota, scosse la testa e si avviò a preparare altro caffè per affrontare la giornata. Mentre la macchinetta macinava i chicchi  di caffè e successivamente faceva bollire l’acqua, il Capitano ripensava al discorso di Tony, a tutto quel che si portava dentro, alla sua sacca che aveva lasciato in camera prima di tornare in cucina, contenente segreti che gelosamente custodiva e occultava al mondo…
 
Tony era furioso.
E quando Tony era furioso non c’era niente nel suo lavoro che andasse nel verso giusto.
Aveva passato tutta la mattina e il pomeriggio a mettere a punto una nuova armatura più leggera e più resistente, magari da dipingere con più giallo rispetto al rosso. Così, tanto per variare e tenere occupata la mente.
Il problema era che stava venendo una vera schifezza.
Quel che Steve non sapeva e non poteva certo pensare, era che Tony si sentiva tradito dalle sue fughe notturne, come le chiamava Stark. Avrebbe voluto che gli parlasse, che gli dicesse che cosa andava a fare in giro di notte, ma niente. Ogni volta che glielo chiedeva tergiversava.
«Fanculo anche a te!», sbottò iroso verso una mano meccanica che stava sistemando, mandando tutto all’aria per poi guardare tutte le sue cose che si schiantavano al suolo.
«Fanculo a te, a me e al mio fottutissimo ragazzo ghiacciolo!», sussurrò passandosi l’indice e il pollice sul setto nasale e la fronte per massaggiarsi. La testa gli stava scoppiando.
Nemmeno lavorando alle sue amate armature riusciva a distogliere il pensiero dal suo chiodo fisso: il biondone a stelle e strisce lo tradiva? Di già? Erano insieme da quanto, tre mesi?
Gli veniva quasi da prenderlo a pugni su quei denti perfetti.
Perfetti come quel faccino angelico tremendamente imbarazzato la prima volta che avevano fatto l’amore.
Amore come non l’aveva mai provato per nessun’altra e sicuramente nessun altro.
Altro motivo per sentirsi uno schifo se era vero che il suo Steve lo stava tradendo.
Si lambiccava su quel punto da giorni, forse addirittura settimane. Non si era mai accorto che Steve uscisse di notte finché non lo aveva visto e sentito un paio di volte mentre era a lavorare nel suo laboratorio. Ma di recente, lavorando alle sue adorate creazioni supertecnologiche, aveva constatato che Steve usciva tutte le notti, per andare non si sapeva dove.
Gli aveva chiesto di parlarne mille e mille volte, aveva cercato di metterlo alle strette, lo guardava di traverso – più del solito – davanti agli altri, aveva provato a prenderlo in contropiede mentre era distratto, aveva architettato i piani più logici e astuti per farsi dire dove andasse e cosa facesse, ma niente. Steve aveva la bocca cucita. Parlava sempre d’altro.
Diede un pugno al piano di lavoro su cui precedentemente erano appoggiati la mano meccanica e gli attrezzi che ora adornavano il pavimento, con il solo risultato di provare più dolore di prima – stavolta anche fisico.
Se fosse stato uno che piange, probabilmente avrebbe pianto per la frustrazione, la gelosia, il dolore e la mancanza.
Sì, perché, detestava ammetterlo, gli mancava tremendamente la comunicazione con Steve. Gli mancavano perfino le loro liti, che adesso il Capitano schivava come la lebbra! Era il loro modo unico e particolare di dirsi che si amavano, di dirsi che la pensavano diversamente ma che si completavano, era il loro “intendersi a meraviglia”. E ora non c’era più. Steve era di ghiaccio come quando Coulson lo aveva trovato.
Sentì dei passi provenienti dalle scale che conducevano al laboratorio, passi molto familiari.
«Tony…», la voce di Steve, modulata con il tono più dolce che potesse mai avere, arrivò alle sue orecchie.
Si voltò e lo vide con un vassoio in equilibrio su una mano e l’altra poggiata a tenere la porta aperta.
«…posso entrare?», piegò la testa di lato, guardandolo negli occhi e sorridendogli impercettibilmente.
Il moro gli fece cenno di sì con la testa e si voltò di nuovo verso il ripiano vuoto, innervosendosi per aver buttato tutto per terra, perché in quel momento avrebbe voluto aver da fare con qualcosa.
«Non sei venuto a pranzo, né a cena. Ero preoccupato che-», ma Tony lo interruppe di nuovo.
«Sei venuto per parlare, finalmente?», avrebbe voluto dirlo con tono fermo e sguardo furente, ma ciò che venne fuori era solo una voce scossa e uno sguardo da cerbiatto ferito.
Per Steve fu ugualmente penetrante.
Posò il vassoio ricolmo di cibo e acqua sul ripiano vuoto, prese Tony tra le braccia e lo baciò intensamente, cercando di concentrare in quell’unico gesto tutto l’amore che provava per lui.
«Tony, non so cosa ti sconvolga, ma-», cercò di dire, ancora, ma Tony si liberò dal suo abbraccio e lo spinse indietro.
«Non sai cosa mi sconvolge?! Tu non sai cosa mi sconvolge? Ti sei dimenticato quello che ti ho chiesto stamattina? Ieri? Tutta la settimana? E la settimana prima ancora?», chiese con gli occhi infiammati di gelosia e irritazione.
«Ma non c’è niente di cui parlare riguardo quello!», disse Steve sulla difensiva, enormemente piccato perché il suo uomo lo stava rifiutando.
«Oh, invece sì! E sta’ pur certo che prima o poi saprò che cosa fai alle mie spalle!», rispose Tony, incrociando di nuovo le braccia, come faceva sempre quando era nervoso. Aveva messo su anche il broncio, cosa che rendeva Steve dieci volte più suscettibile sul fatto che si fosse allontanato dal suo abbraccio.
Si guardarono per un po’, Tony palesemente in collera e  Steve offeso e amareggiato. Occhi castani contro occhi acquamarina, caldo contro freddo, impetuoso contro posato.
Steve sospirò.
«Ti amo tanto, Tony», gli disse sinceramente, avvicinandosi a lui per cercare di baciarlo di nuovo, per calmarlo, per fargli capire che si stava facendo delle paranoie inutili.
Tony lo schivò con facilità e disse: «Ho sempre pensato che fossi onesto, Rogers. Per carità, un cazzo d’imbecille ingenuo di altri tempi, ma onesto. E ora invece continui a mentirmi».
Si appoggiò al tavolo con le braccia ancora conserte, guardandolo con occhi avvelenati.
Steve si sentì terribilmente offeso.
«Io sono onesto! E forse ti sei dimenticato che l’unico bravo a mentire qui sei tu?», cercò di rimandargli indietro lo stesso veleno, ma con scarsi risultati.
Le guance gli si tinsero di rosso per l’onta subita, e il Capitano non volle scambiare con il suo amante una parola di più.
«Quando avrai smesso di fare il ragazzino viziato e capriccioso magari riusciremo ad essere davvero un noi!», gli sputò tutto d’un fiato e prese a salire le scale, mentre Tony guardava in silenzio le sue belle gambe e il suo sedere sodo che lo abbandonavano con passo elegante nonostante il percettibile nervosismo nella camminata.
Tony guardò l’orologio: erano le dieci di sera.
Incredibile quanto tempo si possa perdere assillandosi sempre con lo stesso pensiero!
Si girò di nuovo cercando di non pensare, poi lo sguardo gli ricadde sul vassoio che gli aveva portato Steve.
C’era un biglietto sistemato con cura tra il vaso con una rosa e il bicchiere con l’acqua; lo raccolse e vide uno schizzo del suo viso corrucciato e con il broncio, sotto il quale era scritto “Ti amo anche quando sei seccante”.
Tony non riuscì a capire cosa provava guardando quel pensiero buttato lì, nero su bianco, come se niente fosse.
Ripercorrendo con lo sguardo la scrittura di Steve, però, ebbe un’illuminazione.
Sorrise con fare furbesco e cominciò i preparativi per attuare il suo piano.
 
 
Steve era chiuso in camera sua da almeno tre ore, buttato sul letto con il volto corrucciato e gli occhi fissi verso il soffitto.
Perché Tony gli stava facendo tutto quello? Non gli aveva fatto niente di male, anzi, cercava sempre di essere gentile con lui e di irritarlo il meno possibile per non litigare!
Lui detestava litigare.
Tranne quando lo usavano come preliminare per il sesso, quello era davvero molto bello, sì.
Però, in generale, detestava litigare. Continuavano a dirsi frasi ostili e nocive che non pensavano neanche, soltanto per prevalere sull’altro. Era abbastanza insensato in una coppia, in effetti.
Non aveva voglia di aggiungere peso sulle sue spalle con i suoi problemi, voleva solo che Tony fosse felice, ma in quel periodo non lo era mai, non lo era per niente.
Erano almeno tre settimane che lo assillava per sapere dove andasse e cosa facesse di notte. E Steve si vergognava da morire, non tanto per quel che faceva o per i posti in cui andava, ma più che altro per il motivo per cui lasciava il suo letto e andava dove andava per fare quel che faceva.
Si alzò d’un balzo, irritato più del solito e ferito nell’orgoglio. Le parole di Tony gli turbinavano nella mente come una tempesta furiosa. Non lo lasciavano in pace come una pioggia martellante e incessante. Non riusciva a scrollarsele di dosso come se lo impregnassero fin dentro l’intimità del suo animo.
Lui non era un uomo disonesto. Lui non gli stava mentendo. Lo stava proteggendo da ulteriore stress. Sì, era quello che faceva: lo alleggeriva di un ulteriore peso.
Ne aveva già troppi, dopo la battaglia di New York. Aveva già abbastanza timore di invasioni aliene, guerre titaniche e dio solo sapeva che altro, per mettergli in testa altri pensieri. E poi c’era Peggy. Steve non voleva assolutamente parlare di Peggy con Tony, pensava che avrebbe potuto sentirsi in qualche modo tradito, o ferito, o violato. O chissà che altro, Tony non era certo un tipino facile!
Prese la sua felpa più larga dall’armadio, indossandola sopra la maglietta che aveva su in quel momento, prese la sua borsa a tracolla dall’angolo più remoto del mobile e se la mise in spalla.
Era l’una e un quarto, circa, e di sotto era tutto deserto. Probabilmente chi non era ancora andato a dormire se ne stava o in terrazzo o nella così detta sala videogames.
Steve uscì dalla stanza furtivamente, avviandosi verso l’ascensore che lo portava verso l’uscita, per poi premere il pulsante e attendere qualche secondo prima che le porte si aprissero; entrò nell’elevatore e premette il pulante per il piano terra.
Attese qualche minuto, trepidante e fremente, poi, quando le porte si aprirono, uscì e si diresse verso la porta, facendo attenzione che nessuno si accorgesse che stava andando via.
Nel momento stesso in cui il Capitano si richiuse alle spalle la porta d’ingresso della Torre, una voce nel laboratorio di Tony parlo: «Signore, le comunico come aveva richiesto che il Capitano Rogers è appena uscito».
«Grazie, JARVIS 2.0», rispose il moro con un sorriso sornione stampato in volto.
 
 
Steve camminava apparentemente senza meta con la sua borsa in spalla da almeno un’oretta e mezza. Aveva una strana sensazione, ma credeva che fosse dovuta ancora alle parole di Tony.
A un certo punto si fermò, guardandosi indietro, verso l’angolo della strada.
Pensò di essere diventato più paranoico del suo ragazzo, ma si era sentito come se qualcuno lo stesse seguendo, come se qualcuno potesse scoprirlo.
Si alzò il cappuccio della felpa nera sopra la testa e continuò a camminare dritto davanti a sé.
Quel che Steve non immaginava minimamente era che davvero qualcuno lo stava seguendo, e che lo faceva esattamente per scoprire dove stava andando.
«JARVIS, continua a controllare le telecamere del traffico e dimmi esattamente dove si ferma il Capitano», ordinò Tony al suo fedele maggiordomo elettronico.
«Sì, signore», rispose la voce metallica.
Continuò a camminare dopo aver visto Steve svoltare l’angolo opposto a quello in cui lui si era nascosto, mentre con l’auricolare seguiva i suggerimenti di JARVIS.
Steve si era fermato a metà strada, due isolati più avanti, lo avvertì questi.
Tony non aveva assolutamente idea di che cosa stesse accadendo, ma decise che se Steve si stava vedendo con qualcuno lui doveva assolutamente saperlo. Raggiunse la strada indicata dall’automa e sbirciò oltre il palazzo che gli copriva la visuale.
Vide Steve seduto al tavolino di uno di quegli squallidi bar aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, con il cappuccio della felpa abbassato, mentre alzava lo sguardo da un foglio che aveva davanti per guardare una chiesa mezza diroccata dall’altra parte della strada; poi riabbassava lo sguardo e continuava a disegnare sul foglio.
Disegnava?
Steve stava solo disegnando?
Tony si sentì un po’ stranito e anche un po’ un viscidone ad aver seguito il suo ragazzo di nascosto e non essersi fidato di lui. Dopotutto Steve era sempre stato onesto. Se non lo avesse voluto glielo avrebbe detto, no?
Se lo avessi pensato qualche ora fa…
Ora però era curioso: perché Steve se ne andava in giro a disegnare nel bel mezzo della notte? Cioè, non era una cosa di cui vergognarsi, anzi! Quindi perché uscire dalla Torre furtivo come un ladro quando nessuno lo vedeva? Temeva forse che lo avrebbe preso in giro per quello?
Ma Tony amava i disegni di Steve, lo rendevano affascinante oltre misura. Amava quelle mani in modi che Steve non poteva nemmeno immaginare, non solo quando lo sfioravano e lo tenevano con una saldezza e una dolcezza uniche, ma anche quando creavano qualcosa di meraviglioso come quei disegni. Schizzi di originalità, bozzetti d’incanto, figurazioni del mondo nuovo in cui si era, suo malgrado, ritrovato il Capitano.
Eppure, pensandoci, era davvero da tanto tempo che non vedeva qualche sua composizione grafica, a parte l’abbozzo di quella sera.
Fece il giro del palazzo per avvicinarsi furtivamente alle spalle del suo biondo, mentre questi era concentrato a finire il bozzetto che, evidentemente, aveva già cominciato qualche notte precedente. Stava aggiungendo sempre più particolari, sovrastando le linee vecchie e leggere – che poi sarebbero state cancellate – con linee più marcate e definite.
«Ma è magnifico!», sussurrò Tony, abbastanza vicino da vedere il disegno e da farsi sentire.
Steve sussultò e si voltò verso di lui con aria sorpresa ed esclamò: «Tony?! Che cosa ci fai tu qui?».
«Volevo sapere dove andavi e cosa facevi quando sparivi dalla torre…», disse con una vocina piccola piccola e incassando la testa nelle spalle, mentre era ancora abbassato come prima per guardare sul foglio.
«Tony, ma perché non ti fidi di me?», gli chiese Steve con sguardo accusatore.
«Ma io mi fido di te, è solo…», ma lo sguardo del suo amante non gli fece terminare la frase.
«Oh, e va bene, prima non mi fidavo, ma comunque avresti dovuto parlarmene! E poi ti rendi conto – sì? – che non è normale sgattaiolare via a certi orari solo per disegnare? Sono cose sospette! Non puoi fare cose sospette e poi non farmi sospettare!», continuò a parlare Tony in modo leggero, come se stesse scherzando su qualcosa, come suo solito.
Steve gli sorrise.
«Va bene, d’accordo. Vuoi sederti?», lo invitò, accompagnando la richiesta anche con un gesto della mano, indicandogli la sedia di fronte alla sua.
Erano quasi le quattro del mattino circa, ma ai due non importava. Entrambi passavano, ormai, la maggior parte delle notti svegli, chi per un motivo chi per un altro.
Tony si sedette.
Lo guardò disegnare ancora per un po’, perdendosi in quelle linee che al suo uomo veniva tanto naturale tracciare, ammirando i movimenti quasi impercettibili della mano destra di Steve e la mano sinistra poggiata su un angolo del foglio per tenerlo fermo, vagava nello sguardo di lui ogni qual volta lo alzava per guardare bene la chiesetta semi disfatta e riportare ciò che vedeva sulla carta.
«Però devo chiederti ancora una cosa», insisté il moro dopo un po’, mentre sorseggiava un caffè un po’ insipido che l’acido cameriere gli aveva portato.
«Dimmi», rispose Steve, alzando lo sguardo per l’ennesima volta, solo per entrare in contatto con quello dell’altro.
«Perché diavolo non disegni di giorno e di notte dormi come un essere umano vagamente normale?», chiese Tony tutto d’un fiato.
Steve rise di una risata argentina, sonora e allegra, di quelle risate genuine che solo il suo Tony sapeva procurargli.
«Credo di soffrire d’insonnia», disse dopo un po’, arrossendo leggermente.
Tony amava il rossore di Steve, lo faceva intenerire e lo sospingeva sempre verso di lui; gli accarezzò una guancia e poi gli disse, fintamente offeso: «E perché non parli di questa cosa con il tuo ragazzo, anche se te lo chiede da giorni?».
Steve gli sorrise ancora e gli rispose: «Perché mi vergogno un po’».
«Dell’insonnia?», gli chiese Tony sconcertato, «Guarda che non sei mica normale!», concluse.
«No, non dell’insonnia di per sé…diciamo che mi vergogno dei motivi che mi procurano l’insonnia», disse velocemente, come se facesse meno male dirlo come se le parole si inseguissero in una partita di chiapparello.
«Che sono…?», lo incitò il moro.
«Tony, non so se è il caso parlarne», disse, omettendo le parole “con te”.
«Allora così non dormirai mai!», sentenziò Tony, guardandolo con la testa leggermente piegata verso destra.
Steve sospirò, osservandolo intensamente, indeciso sul da farsi.
«Spesso ho degli incubi. Sul mio passato, intendo. Sai, la guerra, la mia ex fidanzata…che poi in realtà non so nemmeno se posso chiamarla così, non siamo ufficialmente mai usciti insieme, comunque…», lanciò uno sguardo nervoso a Tony, che lo stava ascoltando e, non leggendo traccia di gelosia o irritazione sul suo volto, continuò: «e anche i chitauri, tutte queste cose strane di quest’epoca che un po’ mi spaventano e mi fanno sentire fuori luogo…la paura di perderti, Tony. E la paura che qualcosa possa portarti via da me per sempre», concluse, gli occhi lucidi, evidentemente ricordando qualche strano incubo che aveva avuto a riguardo.
Tony non si era aspettato questo.
Lo colse impreparato, anche se solo per una manciata di secondi, finché non gli sorrise e gli disse: «Ma ti sembro uno che si fa sconfiggere facilmente?», allargando le braccia e con in viso un’espressione poco modesta.
Il Capitano sorrise: Tony l’aveva buttata sullo scherzo, cercava di tirarlo su, di non fargli pesare tutti i suoi problemi. Adesso si sentiva molto stupido a non avergliene parlato prima, forse provocandogli più male di quello che gli aveva effettivamente fatto aprendosi con lui.
Si guardarono profondamente negli occhi, scorgendo quasi gli abissi delle loro anime; si scrutarono come se si stessero coccolando con gli sguardi, dolcemente, vivamente, per un tempo che parve infinito.
«Ho un’idea», disse Tony sorridendo furbastro.
«Qual è quest’idea?», Steve era per metà curioso per metà preoccupato: conosceva l’avventatezza di Tony.
«Ti fidi di me?», domandò il moro.
«A differenza tua, sì, abbastanza», rispose il biondo, sorridendo per la frecciatina.
Tony assottigliò lo sguardo, ma stava comunque sorridendo.
«JARVIS, armatura», ordinò, e in pochi minuti il metallo arrivò a destinazione e rivestì il suo corpo totalmente sotto lo sguardo di Steve; poi gli tese la mano.
«Dove vuoi andare?», chiese quest’ultimo sorridendo, guardando incerto la sua mano metallica.
«Tu fidati e basta!», ricevette in risposta.
Steve mise a posto la sua roba nella tracolla, lasciò dei soldi sul tavolo al cameriere antipatico e prese la mano di Tony, che se lo assicurò al fianco, raccomandandogli di tenersi molto forte, e infine volarono.
Steve non aveva mai volato con Tony, fino a quel momento, e la cosa lo rendeva molto nervoso, ma eccitato allo stesso tempo. Era una bellissima sensazione, guardare l’infinito sotto i propri piedi e sentire il vento scompigliargli i capelli, mentre stringeva il suo uomo nella sua splendida e splendente armatura per non cadere nel vuoto.
Atterrarono sull’Empire State Building mentre albeggiava; Tony lo depose delicatamente con i piedi per terra, scendendo dolcemente.
«Arrivati!», disse.
«Mi hai portato a vedere l’alba?», chiese il biondo, sorridendo.
«Non proprio. Vorrei che tu mi facessi un ritratto qui», disse tutto convinto, mentre si posizionava con le braccia sulla ringhiera della terrazza del palazzo e si girava di profilo verso l’albeggiare.
Steve rise.
«Abbiamo smesso con la megalomania a quanto pare!», scherzò ridendo ancora.
Tony non se la prese, ma rispose: «Niente da fare, io il mio ritratto lo voglio! Non mi accontento mica dello schizzo di oggi, quello sul vassoio!».
«Allora lo hai visto!», esclamò il Capitano, arrossendo ancora.
«Certo che l’ho visto, mica sono cieco!», rispose Tony spavaldo, «Su, su, questo ritratto?».
Steve rise ancora e preparò il necessario per cominciare il ritratto del proprio amante.
Per giorni continuarono a uscire di notte per recarsi all’Empire State Building all’albeggiare per finire quel ritratto, finché un giorno Tony non se lo ritrovò nel laboratorio, concluso, meraviglioso, fedelissimo e con tanto di titolo.
Steve lo aveva chiamato I’ll go wherever you will go.
Sorrise.
Lo amava infinitamente.
   
 
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