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Autore: Carlos Olivera    07/05/2016    1 recensioni
Mi chiamo Derek Norway.
Quando avevo 9 anni, il mondo in cui vivevo è cambito per sempre.
Era il 1979 quando due scienziati europei, i professori Ward e Brennon, con le loro ricerche rivoluzionarie portarono la magia dal mondo delle favole a quello della realtà, scoprendo il codice genetico che ne permetteva l'utilizzo.
In pochi anni la magia si è diffusa in tutto il mondo, e ora, al pari di una scienza, è diventata il motore che alimenta la nostra civiltà.
E' stato creato uno speciale corpo di polizia internazionale, allo scopo di regolamentare l'uso della magia e prevenirne l'utilizzo a fini criminali.
Io faccio parte di questa unità speciale.
Siamo il Magic Administration Bureau.
Noi siamo... la M.A.B.!
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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EPISODIO 2

GAME OVER

(PARTE I)

 

 

Non era raro che Chris Rowan facesse perdere il sonno ai propri vicini di appartamento, ma quella notte si stava veramente passando il segno.

Benché fossero ormai quasi le tre, dal suo alloggio provenivano senza sosta schiamazzi, urla, esplosioni ed effetti sonori degni dei migliori film, e alla fine Charlie Descott, con cui già altre volte Chris si era ritrovato a discutere, decise che ne aveva abbastanza.

«Ehi Rowan, hai intenzione di andare avanti così ancora per molto?» tuonò, dopo essere uscito dal suo appartamento in boxer e canottiera, battendo energicamente la porta del vicino. «Non so tu, ma io domani devo andare al lavoro!»

Ma non giunse risposta, e neppure i rumori all’interno cessarono; e allora Charlie, che non era certamente i più accomodante dei vicini, perse la testa, e grazie anche alla sua considerevole stazza con un solo calcio sfondò il battente entrando nell’appartamento.

Chris era in salotto, stravaccato di spalle sulla poltrona ludica con lo sguardo rivolto verso la finestra. Gli amplificatori attorno a lui erano tutti accesi, ma il fracasso, per quanto assordante, non sembrava dargli fastidio; probabilmente, con tutte le ore che passava a giocare, ormai non ci faceva neanche più caso.

«Stammi a sentire, sottospecie di fissato, sono arcistufo di questi tuoi eccessi» imprecò Charlie facendoglisi incontro dopo aver staccato con forza la spina del sistema di gioco. «Non me ne frega niente se sei una specie di guru del tuo mondo malato, se sgarri ancora una volta giuro su Dio che…»

Come provò ad afferrargli il polso, questi scivolò inerme giù dal bracciolo, e fu allora che Charlie, fattosi muto per lo sgomento, si avvide di come il suo vicino avesse tutte le ragioni del mondo per non aver potuto ribattere all’ennesima protesta per schiamazzi.

 

Foch era talmente assorto in ciò che stava vedendo nel visore oculare piazzato sul volto, con l’espressione beata e il joystick di controllo in mano, che non si accorse di essere più solo in ufficio fino a quando qualcuno con un calcio non gli tolse letteralmente la poltrona da sotto il sedere, facendolo ruzzolare a terra con un tonfo secco che per poco non gli fece venire un infarto.

«Ma che diavolo…» sbraitò togliendosi il dispositivo. «Derek! Hai deciso di ammazzarmi per caso?»

«Quante altre volte dovremo farti il discorsetto sull’uso delle attrezzature dell’agenzia?»

«Ehi, il turno di notte è lungo, e qui non succede mai niente.»

«Buon per noi.» disse Jane entrando con il caffè in mano. «Ci sono tanti di quei problemi magici a New York che un po’ di quiete è quasi una benedizione per quest’ufficio.»

«Da quanto il Metodo Brennon è diventato di dominio pubblico» commentò Helen, già seduta alla sua scrivania. «Il numero di praticanti della magia è notevolmente aumentato, ma con esso sono aumentati anche i problemi.»

«E cosa ti aspettavi? Ormai senza la magia questo pianeta andrebbe in malora in un secondo.»

«Il fatto è che la magia non è un gioco. Noi stregoni ancestrali siamo educati fin da piccoli a imparare a controllarla fin dai tempi più antichi, ma là fuori c’è tanta gente che ne fa uso senza aver frequentato una sola ora di scuola preparatoria.»

«Grazie della lezione di sociologia» tagliò corto Foch. «Se non l’avessi notato, è per questo che ci sbattiamo tanto» quindi corse a prendere la giacca dall’attaccapanni. «O meglio, voi vi sbattete. Perché io adesso me ne vado a casa, consumo l’acqua calda, e affondo i postumi di questa nottata nel mio morbido letto. Saluti!»

Invece, non fece in tempo a valicare la porta scorrevole che il telefono sulla scrivania di Derek lo pietrificò, provocandogli un brivido famigliare e insopportabile.

«Arriviamo subito» disse il detective per poi richiamare all’ordine l’intera squadra. «Riposo rimandato, Foch.»

«E ti pareva.»

«Cos’abbiamo?» domandò Jane accodandosi al collega assieme al resto dei compagni.

«Mago morto nell’Upper West Side

O’Bryan scese dall’ascensore proprio mentre Derek e gli altri lo stavano raggiungendo.

«Sei in ritardo.» lo rimproverò Norway passandogli accanto, e ricevendo in cambio un’occhiata perplessa

«Buongiorno anche a te.» scherzò prima di tornare sui suoi passi.

 

Il luogo della segnalazione era un appartamento in un condominio della 96ma Strada, al sesto piano, un trilocale non particolarmente sfarzoso ma comunque arredato con mobilio di un certo pregio.

La vittima era in salotto, riversa su di una poltrona da videogiocatore circondata da ogni ben di Dio, dalle casse multi-stereo ai monitor di ultima generazione, il visore ancora calato sugli occhi e un paio di cuffie costose a penzolare da un bracciolo.

Una squadra della polizia aveva già eseguito i primi rilievi, ed era intenta a terminare il sopralluogo dell’appartamento; il detective incaricato delle indagini si chiamava Theodore Ramey, e benché molti agenti di polizia non saltassero di gioia nel vedere la MAB piombare su una loro scena del crimine l’ormai non più giovane detective non si scompose più di tanto quando uno dei suoi uomini appostati in corridoio gli introdusse Derek e il resto della squadra al gran completo.

«Detective Ramey.»

«Agente Norway» rispose lui col medesimo sorriso di complicità. «Avete fatto anche prima del solito.»

«Con quello che pagano, i contribuenti si meritano la massima celerità» replicò ironico Derek.

Entrambi portarono quindi l’attenzione sulla vittima.

«Mamma lo diceva sempre che i videogiochi fanno male» disse ironico Norway. «Chi è il morto?»

«Simon Tildman, ventinove anni. Era il padrone di casa. Un vicino è venuto a lamentarsi per il chiasso durante la notte, e siccome l’amico qui non rispondeva, ha sfondato la porta e l’ha trovato così.»

«Non vedo segni di lotta o ferite di alcun genere» osservò Jane. «Causa della morte?»

«Infarto, o così sembra.»

«A ventinove anni?» replicò O’Bryan

«Il medico legale parla di un collasso multiorgano, ma pare che a ucciderlo sia stata un’aritmia cardiaca con conseguente infarto. È morto in meno di trenta secondi.»

In quella Kristen, che aveva avuto non pochi problemi a trovare un parcheggio, raggiunse a sua volta la scena del crimine, sgranando gli occhi per la sorpresa nel momento in cui si trovò a tu per tu con la vittima, che nel frattempo era stata tolta dalla sedia e preparata per essere portata via dal coroner.

«Tildman!?»

«Lo conosci?»

«Certo che lo conosco. Come pure all’incirca un altro mezzo miliardo di persone in giro per il mondo.»

«Prego?» replicò O’Bryan

«Ah già. Dimenticavo che voi siete da un’altra era geologica.»

Solo allora Derek e gli altri fecero caso ai molti poster, quadri e disegni vari che tappezzavano la stanza, la maggior parte dei quali con raffigurato un personaggio smaccatamente fantasy in armatura bianca da cavaliere splendente ritratto nelle pose e nei contesti più disparati, con una lunga spada in una mano e uno scudo triangolare nell’altra.

Notandolo, anche qualche altro membro della squadra parve sobbalzare per lo stupore.

«Eccolo qui. Zondag il Leggendario. Uno dei Cinque Arcangeli di Myrthal.»

«Eh!?» piegò le labbra O’Bryan.

«Ora mi ricordo» disse allora Ramey. «È un videogioco online. Rage&Sword, dico bene?»

«Simon Tildman è stato il primo e unico giocatore a completare il Labirinto di Dalesid» proseguì Foch. «E nelle ultime due edizioni dei campionati del mondo ha letteralmente surclassato tutti i suoi avversari. Nel mondo di Rage&Sword è una specie di leggenda.»

 

Solitamente MAB e polizia non collaboravano alle indagini, in quanto se la prima subentrava l’operato della seconda, il più delle volte, risultava superfluo.

Tuttavia, prima di avviare una qualunque indagine, era necessario appurare che vi fosse un qualunque crimine su cui investigare, senza contare che non sempre il coinvolgimento di uno o più maghi era un motivo sufficiente per affidare un caso all’Agenzia.

Così, Ramey seguì Derek e la sua squadra al distretto, spulciando assieme a loro le prove raccolte sulla scena del crimine in attesa che dalla sala operatoria giungesse il referto autoptico.

«Vincitore di Azmech, Distruttore di Porgorath, Rovina di Unius, Maestro delle Cinque Arti, Signore delle Lune nuove, Re di Passomorto» leggeva Foch sulla pagina personale di Tildman sul sito web di Rage&Sword. «Ha collezionato più trofei lui in due anni che io in tutta una vita.»

«E ci mangiava?» replicò beffardo Derek dalla sua scrivania

«Che tu ci creda o no, sì» rispose Jane. «A quanto ne so, un campione di questo genere di giochi online, se legato ad un procuratore o iscritto a una federazione, può arrivare a guadagnare quanto una matricola NBA.»

«Essere pagati per giocare a un videogame?! È un’idiozia.»

«Sarà un’idiozia, ma muove parecchi soldi» commentò Ramey. «Il creatore di Rage&Sword, Philip Heybrun, è uno dei dieci uomini più ricchi del mondo, e il suo impero dei videogiochi è tra le prime cinque aziende in America sia per dipendenti che per fatturato.»

«I tempi del video-pong sono lontani, vecchio mio» rise Foch. «Comunque c’è qualcosa di strano. Dalle chat-room sembra che Zondag non si faceva vedere da un po’ nelle aree pubbliche del gioco, eppure stando ai dati di traffico sembra passasse online almeno dieci ore al giorno nelle ultime settimane.»

«Forse era impegnato in qualche dungeon particolarmente duro.» commentò Helen.

«Se è così, non voleva condividere la gloria. Sembra che ultimamente non si facesse vedere neppure dai suoi usuali compagni di party.»

Ad un certo punto, mentre frugava nelle chat, Foch notò qualcosa che parve attirare la sua attenzione, ma Derek e gli altri erano tutti troppo concentrati sui rispettivi terminali per accorgersene. In compenso, si accorsero del suo continuo sbadigliare, almeno per quella volta assolutamente comprensibile.

«Basta così» sentenziò infine Derek. «Va a casa prima di crollare sulla tastiera.»

«Con vivo piacere!» rispose lui recuperando la giacca dalla sedia e sfilando, con molta disinvoltura, una chiavetta dal computer. «Signori, buonanotte a tutti!»

Pochi minuti dopo che se n’era andato, però, Helen notò che il collega nella fretta aveva dimenticato sulla scrivania il proprio badge di agente, senza il quale gli sarebbe stato impossibile superare i controlli di sicurezza all’ingresso il giorno successivo.

«Foch, aspetta! Il tuo pass!»

Provò a corrergli dietro, ma nel tempo che impiegò a raggiungere l’atrio Kristen era già scomparso nella metropolitana del piazzale antistante l’edificio.

 

In realtà, se Foch aveva tanta fretta di andare a casa, non era certamente per il sonno o la voglia di dormire: non più almeno.

Nascosto tra le righe delle chat, sproloqui allucinati che solo un esperto Rage&Sword sarebbe stato capace di tradurre con un filo logico, e in particolare nelle conversazioni tenute da Zondag con alcuni dei suoi compagni più fidati, Kristen aveva trovato qualcosa, qualcosa di inaspettato e sconvolgente, che aveva acceso come un fuoco il suo spirito di giocatore.

Così, chiusosi nel suo appartamento di Brooklyn, piccolo ma sapientemente e fastosamente arredato con i proventi di anni di intrallazzi non proprio legali, si era immediatamente riattaccato al computer, bevendo caffè e fumando sigarette a ripetizione per restare sveglio.

Servirono molte ore di lavoro, cosa difficile da immaginare per qualcuno che come lui era stato capace di forzare i firewall dell’Hotel Plaza a undici anni per farci soggiornare i nonni in visita dall’Arkansas, ma alla fine i suoi sforzi parvero sortire i risultati sperati.

«E vai!» disse con un sorriso soddisfatto mentre una interminabile sequenza di numeri e lettere scorreva senza sosta sul monitor principale. «È stato più complicato del previsto, ma ci sono arrivato. Grazie  per quest’ultimo regalo, Zondag. Verrò a portarti i fiori in cimitero.»

Ora non restava altro che effettuare la prova diretta, quindi Foch, recuperata nuovamente la chiavetta, la inserì nella porta della poltrona neurale al centro del salotto; forse non era sofisticato e all’ultimo grido come quello del compianto Tildman, ma anche il sistema di interfaccia virtuale di Foch faceva la sua bella figura, senza contare che se l’era costruito, programmato e interfacciato da solo.

«Ci siamo» disse dopo aver avviato Rage&Sword e aver infilato il visore. «Sto arrivando, Zion.»

 

Se c’era una cosa che Jane non era felice di fare questa era sicuramente il fare un piacere a Foch.

Quando le era stato chiesto, o per meglio dire ordinato, di riportare il badge di servizio a Kristen sulla via di casa, aveva cercato vanamente di campare una scusa, ma considerando che era la sola della squadra ad abitare a Brooklyn alla fine non aveva avuto altra scelta che assecondare i suoi colleghi, e con il morale sotto i piedi si era diretta al condominio del collega.

In quanto veterana della squadra, era stata la prima a obiettare il giorno in cui il procuratore distrettuale, su spinta del capo della polizia, a sua volta incalzato dal sindaco per la penuria cronica di buoni agenti all’interno della MAB, aveva assegnato loro un criminale recidivo risocializzato che, trovatosi a ventisei anni a dover scegliere tra la una lunga pena detentiva e un lavoro “socialmente utile” aveva scelto di contrastare quelli che un tempo erano stati i suoi compagni di malefatte.

Foch era sicuramente un bravo agente, un hacker come se ne vedevano pochi, con un’esperienza invidiabile tanto nel mondo dei computer quanto in quello della stregoneria, ma sebbene inventiva, capacità e intuito non gli facessero difetto aveva dato prova in più occasioni di essere un individuo sostanzialmente inaffidabile, troppo incline a fare di testa sua e irrispettoso il più delle volte di qualunque forma di autorità.

E poi era un bambinone, infantile oltre misura, incapace di prendere con serietà anche le questioni più spinose, e questa era sicuramente la cosa che Jane detestava maggiormente di lui.

Parlargli era inutile, e peggio ancora arrabbiarsi, perché quella specie di casinista tutto sapeva fare fuorché prendere sul serio le lamentale o le obiezioni di qualcuno; più volte aveva detto di essersi unito alla MAB solo per causa di forza maggiore, e anche per questo motivo Jane riteneva che non vi fosse persona più inadatta per occuparsi di una questione talmente delicata come amministrare il corretto uso della magia in una società che cedeva fin troppo spesso al naturale desiderio di abusarne.

Se non altro, pensò mentre usciva dall’ascensore, avrebbe potuto fargli l’ennesima ramanzina, oltre a pretendere un congruo risarcimento per il servizio sotto forma di hamburger, patatine e pepsi l’indomani all’ora di pranzo.

«Ehi, nerd da computer!» esclamò battendo energicamente alla porta dell’appartamento. «La prossima volta, invece del badge, cerca di non dimenticarti la testa!»

Ma non giunse risposta.

Sulle prime Jane pensò che Foch stesse ancora dormendo, ma il brusio in sottofondo di una macchina da interfaccia in piena operatività fu la prova evidente che non era così.

«Non era poi così stanco, dopotutto» brontolò prima di ricominciare a battere. «Avanti, idiota! Esci dal mondo dei sogni e muoviti ad aprire!»

Poi, d’improvviso, si udì un colpo violento, come di qualcosa che crollava al suolo, seguito subito dopo da un terrificante silenzio.

«Kristen?» domandò Jane mentre le tempie le si riempivano di sudori freddi. «Kristen, non è divertente. Apri.»

Dal momento che la porta era blindata era perfettamente inutile tentare di abbatterla, ma fortunatamente alla fine tutto quel battere attirò l’attenzione della signora Wilson, l’anziana dirimpettaia di Kristen, che uscì per capire cosa stesse succedendo; Foch aveva parlato di lei in un paio di occasioni, e poiché aveva sottolineato come fosse solito affidarle la pulizia del proprio alloggio le chiese se avesse una chiave di riserva.

«Sì, ce l’ho. Ma che succede?»

«Presto, vada a prenderla!»

Incredula, ma anche un po’ spaventata, la signora corse a prendere la chiave, ed aperto l’uscio le due donne si trovarono davanti ad uno spettacolo sconvolgente.

Kristen era a terra, immobile, come a terra erano anche la poltrona e tutte le apparecchiature ad essa collegate, il visore ancora parzialmente calato sugli occhi e il volto pallido: sembrava morto.

«Oh, mio Dio!» urlò la signora Wilson quasi svenendo

Jane invece corse dal collega, inginocchiandosi davanti a lui a prendendolo tra le braccia dopo avergli tolto il visore; le labbra e le narici erano cianotiche, gli occhi aperti ma rivolti all’indietro, e un filo di saliva colava dalla bocca socchiusa.

«Presto, chiami un’ambulanza!»

 

  
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