EPISODIO 2
GAME OVER
(PARTE I)
Non era raro che Chris Rowan facesse perdere il sonno ai propri vicini di
appartamento, ma quella notte si stava veramente passando il segno.
Benché
fossero ormai quasi le tre, dal suo alloggio provenivano senza sosta
schiamazzi, urla, esplosioni ed effetti sonori degni dei migliori film, e alla
fine Charlie Descott, con cui già altre volte Chris
si era ritrovato a discutere, decise che ne aveva
abbastanza.
«Ehi Rowan, hai intenzione di andare avanti così ancora per
molto?» tuonò, dopo essere uscito dal suo appartamento in boxer e canottiera,
battendo energicamente la porta del vicino. «Non so tu, ma io domani devo andare al lavoro!»
Ma non
giunse risposta, e neppure i rumori all’interno cessarono; e allora Charlie,
che non era certamente i più accomodante dei vicini,
perse la testa, e grazie anche alla sua considerevole stazza con un solo calcio
sfondò il battente entrando nell’appartamento.
Chris
era in salotto, stravaccato di spalle sulla poltrona ludica con lo sguardo
rivolto verso la finestra. Gli amplificatori attorno a lui erano tutti accesi,
ma il fracasso, per quanto assordante, non sembrava dargli fastidio;
probabilmente, con tutte le ore che passava a giocare, ormai non ci faceva
neanche più caso.
«Stammi a sentire, sottospecie di fissato, sono arcistufo di questi
tuoi eccessi» imprecò Charlie facendoglisi incontro dopo aver staccato con
forza la spina del sistema di gioco. «Non me ne frega niente se sei una specie
di guru del tuo mondo malato, se sgarri ancora una
volta giuro su Dio che…»
Come
provò ad afferrargli il polso, questi scivolò inerme giù dal bracciolo, e fu
allora che Charlie, fattosi muto per lo sgomento, si avvide di come il suo
vicino avesse tutte le ragioni del mondo per non aver potuto ribattere
all’ennesima protesta per schiamazzi.
Foch era talmente assorto
in ciò che stava vedendo nel visore oculare piazzato sul volto, con
l’espressione beata e il joystick di controllo in
mano, che non si accorse di essere più solo in ufficio fino a quando qualcuno
con un calcio non gli tolse letteralmente la poltrona da sotto il sedere,
facendolo ruzzolare a terra con un tonfo secco che per poco non gli fece venire
un infarto.
«Ma che diavolo…» sbraitò togliendosi il dispositivo. «Derek! Hai deciso di ammazzarmi per caso?»
«Quante
altre volte dovremo farti il discorsetto sull’uso
delle attrezzature dell’agenzia?»
«Ehi, il
turno di notte è lungo, e qui non succede mai niente.»
«Buon
per noi.» disse Jane entrando con il caffè in mano. «Ci sono tanti di quei
problemi magici a New York che un po’ di quiete è quasi una benedizione per
quest’ufficio.»
«Da
quanto il Metodo Brennon è diventato di dominio pubblico» commentò Helen, già
seduta alla sua scrivania. «Il numero di praticanti della magia è notevolmente
aumentato, ma con esso sono aumentati anche i problemi.»
«E cosa ti
aspettavi? Ormai senza la magia questo pianeta andrebbe in malora in un
secondo.»
«Il fatto è
che la magia non è un gioco. Noi stregoni ancestrali
siamo educati fin da piccoli a imparare a controllarla fin dai tempi più
antichi, ma là fuori c’è tanta gente che ne fa uso senza aver frequentato una
sola ora di scuola preparatoria.»
«Grazie
della lezione di sociologia» tagliò corto Foch. «Se
non l’avessi notato, è per questo che ci sbattiamo tanto» quindi corse a
prendere la giacca dall’attaccapanni. «O meglio, voi
vi sbattete. Perché io adesso me ne vado a casa, consumo l’acqua calda, e
affondo i postumi di questa nottata nel mio morbido letto. Saluti!»
Invece,
non fece in tempo a valicare la porta scorrevole che il telefono sulla
scrivania di Derek lo pietrificò, provocandogli un brivido famigliare e
insopportabile.
«Arriviamo
subito» disse il detective per poi richiamare all’ordine l’intera squadra.
«Riposo rimandato, Foch.»
«E ti
pareva.»
«Cos’abbiamo?» domandò Jane accodandosi al collega assieme al
resto dei compagni.
«Mago morto
nell’Upper West Side.»
O’Bryan scese
dall’ascensore proprio mentre Derek e gli altri lo stavano raggiungendo.
«Sei in
ritardo.» lo rimproverò Norway passandogli accanto, e ricevendo in cambio
un’occhiata perplessa
«Buongiorno
anche a te.» scherzò prima di tornare sui suoi passi.
Il luogo della segnalazione
era un appartamento in un condominio della 96ma Strada, al sesto piano, un
trilocale non particolarmente sfarzoso ma comunque arredato con mobilio di un
certo pregio.
La
vittima era in salotto, riversa su di una poltrona da videogiocatore circondata
da ogni ben di Dio, dalle casse multi-stereo ai monitor di ultima generazione,
il visore ancora calato sugli occhi e un paio di cuffie costose a penzolare da
un bracciolo.
Una
squadra della polizia aveva già eseguito i primi rilievi, ed era intenta a
terminare il sopralluogo dell’appartamento; il detective incaricato delle
indagini si chiamava Theodore Ramey, e benché molti agenti di polizia non
saltassero di gioia nel vedere la MAB piombare su una loro scena del crimine
l’ormai non più giovane detective non si scompose più di tanto quando uno dei
suoi uomini appostati in corridoio gli introdusse Derek e il resto della
squadra al gran completo.
«Detective
Ramey.»
«Agente
Norway» rispose lui col medesimo sorriso di complicità. «Avete fatto anche
prima del solito.»
«Con
quello che pagano, i contribuenti si meritano la massima celerità» replicò
ironico Derek.
Entrambi
portarono quindi l’attenzione sulla vittima.
«Mamma
lo diceva sempre che i videogiochi fanno male» disse ironico Norway. «Chi è il
morto?»
«Simon
Tildman, ventinove anni. Era il padrone di casa. Un vicino è venuto a
lamentarsi per il chiasso durante la notte, e siccome l’amico qui non
rispondeva, ha sfondato la porta e l’ha trovato così.»
«Non
vedo segni di lotta o ferite di alcun genere» osservò Jane. «Causa della
morte?»
«Infarto,
o così sembra.»
«A
ventinove anni?» replicò O’Bryan
«Il medico
legale parla di un collasso multiorgano, ma pare che a ucciderlo sia stata
un’aritmia cardiaca con conseguente infarto. È morto in meno di trenta secondi.»
In
quella Kristen, che aveva avuto non pochi problemi a trovare un parcheggio,
raggiunse a sua volta la scena del crimine, sgranando gli occhi per la sorpresa
nel momento in cui si trovò a tu per tu con la vittima, che nel frattempo era
stata tolta dalla sedia e preparata per essere portata via dal coroner.
«Tildman!?»
«Lo
conosci?»
«Certo che lo
conosco. Come pure all’incirca un altro mezzo miliardo di
persone in giro per il mondo.»
«Prego?»
replicò O’Bryan
«Ah già.
Dimenticavo che voi siete da un’altra era geologica.»
Solo
allora Derek e gli altri fecero caso ai molti poster, quadri e disegni vari che
tappezzavano la stanza, la maggior parte dei quali con
raffigurato un personaggio smaccatamente fantasy in armatura bianca da
cavaliere splendente ritratto nelle pose e nei contesti più disparati, con una
lunga spada in una mano e uno scudo triangolare nell’altra.
Notandolo,
anche qualche altro membro della squadra parve sobbalzare per lo stupore.
«Eccolo qui. Zondag
il Leggendario. Uno dei Cinque Arcangeli di Myrthal.»
«Eh!?» piegò le labbra O’Bryan.
«Ora mi
ricordo» disse allora Ramey. «È un videogioco online. Rage&Sword,
dico bene?»
«Simon
Tildman è stato il primo e unico giocatore a completare il Labirinto di Dalesid» proseguì Foch. «E nelle
ultime due edizioni dei campionati del mondo ha letteralmente surclassato tutti
i suoi avversari. Nel mondo di Rage&Sword è una specie di leggenda.»
Solitamente MAB e polizia
non collaboravano alle indagini, in quanto se la prima
subentrava l’operato della seconda, il più delle volte, risultava superfluo.
Tuttavia,
prima di avviare una qualunque indagine, era necessario appurare che vi fosse
un qualunque crimine su cui investigare, senza contare che non sempre il
coinvolgimento di uno o più maghi era un motivo sufficiente per affidare un
caso all’Agenzia.
Così,
Ramey seguì Derek e la sua squadra al distretto, spulciando assieme a loro le
prove raccolte sulla scena del crimine in attesa che dalla sala operatoria
giungesse il referto autoptico.
«Vincitore
di Azmech, Distruttore di Porgorath,
Rovina di Unius, Maestro delle Cinque Arti, Signore
delle Lune nuove, Re di Passomorto» leggeva Foch
sulla pagina personale di Tildman sul sito web di Rage&Sword. «Ha
collezionato più trofei lui in due anni che io in tutta una vita.»
«E ci
mangiava?» replicò beffardo Derek dalla sua scrivania
«Che tu
ci creda o no, sì» rispose Jane. «A quanto ne so, un
campione di questo genere di giochi online, se legato ad
un procuratore o iscritto a una federazione, può arrivare a guadagnare quanto
una matricola NBA.»
«Essere
pagati per giocare a un videogame?! È un’idiozia.»
«Sarà
un’idiozia, ma muove parecchi soldi» commentò Ramey. «Il creatore di
Rage&Sword, Philip Heybrun, è uno dei dieci uomini più ricchi del mondo, e
il suo impero dei videogiochi è tra le prime cinque aziende in America sia per
dipendenti che per fatturato.»
«I tempi
del video-pong sono lontani, vecchio
mio» rise Foch. «Comunque c’è qualcosa di strano. Dalle chat-room sembra
che Zondag non si faceva vedere da un po’ nelle aree pubbliche del gioco,
eppure stando ai dati di traffico sembra passasse
online almeno dieci ore al giorno nelle ultime settimane.»
«Forse
era impegnato in qualche dungeon particolarmente
duro.» commentò Helen.
«Se è così,
non voleva condividere la gloria. Sembra che ultimamente non si facesse vedere
neppure dai suoi usuali compagni di party.»
Ad un certo
punto, mentre frugava nelle chat, Foch notò qualcosa che parve attirare la sua
attenzione, ma Derek e gli altri erano tutti troppo concentrati sui rispettivi
terminali per accorgersene. In compenso, si accorsero del suo continuo
sbadigliare, almeno per quella volta assolutamente comprensibile.
«Basta
così» sentenziò infine Derek. «Va a casa prima di crollare sulla tastiera.»
«Con
vivo piacere!» rispose lui recuperando la giacca dalla sedia e sfilando, con
molta disinvoltura, una chiavetta dal computer. «Signori, buonanotte a tutti!»
Pochi
minuti dopo che se n’era andato, però, Helen notò che il collega nella fretta
aveva dimenticato sulla scrivania il proprio badge di agente, senza il quale gli sarebbe stato impossibile superare i controlli di
sicurezza all’ingresso il giorno successivo.
«Foch,
aspetta! Il tuo pass!»
Provò a
corrergli dietro, ma nel tempo che impiegò a raggiungere l’atrio Kristen era
già scomparso nella metropolitana del piazzale antistante l’edificio.
In realtà, se Foch aveva
tanta fretta di andare a casa, non era certamente per il sonno o la voglia di
dormire: non più almeno.
Nascosto
tra le righe delle chat, sproloqui allucinati che solo un esperto
Rage&Sword sarebbe stato capace di tradurre con un filo logico, e in
particolare nelle conversazioni tenute da Zondag con alcuni dei suoi compagni
più fidati, Kristen aveva trovato qualcosa, qualcosa di inaspettato
e sconvolgente, che aveva acceso come un fuoco il suo spirito di giocatore.
Così,
chiusosi nel suo appartamento di Brooklyn, piccolo ma sapientemente e
fastosamente arredato con i proventi di anni di intrallazzi
non proprio legali, si era immediatamente riattaccato al computer, bevendo
caffè e fumando sigarette a ripetizione per restare sveglio.
Servirono
molte ore di lavoro, cosa difficile da immaginare per qualcuno che come lui era
stato capace di forzare i firewall dell’Hotel Plaza a
undici anni per farci soggiornare i nonni in visita dall’Arkansas, ma alla fine
i suoi sforzi parvero sortire i risultati sperati.
«E vai!»
disse con un sorriso soddisfatto mentre una interminabile
sequenza di numeri e lettere scorreva senza sosta sul monitor principale. «È stato più complicato del previsto, ma ci sono arrivato. Grazie per quest’ultimo
regalo, Zondag. Verrò a portarti i fiori in cimitero.»
Ora non
restava altro che effettuare la prova diretta, quindi
Foch, recuperata nuovamente la chiavetta, la inserì nella porta della poltrona
neurale al centro del salotto; forse non era sofisticato e all’ultimo grido
come quello del compianto Tildman, ma anche il sistema di interfaccia virtuale
di Foch faceva la sua bella figura, senza contare che se l’era costruito,
programmato e interfacciato da solo.
«Ci siamo»
disse dopo aver avviato Rage&Sword e aver infilato il visore. «Sto
arrivando, Zion.»
Se c’era una cosa che Jane
non era felice di fare questa era sicuramente il fare
un piacere a Foch.
Quando
le era stato chiesto, o per meglio dire ordinato, di riportare il badge di
servizio a Kristen sulla via di casa, aveva cercato vanamente di campare una
scusa, ma considerando che era la sola della squadra ad abitare a Brooklyn alla
fine non aveva avuto altra scelta che assecondare i suoi colleghi, e con il
morale sotto i piedi si era diretta al condominio del collega.
In quanto
veterana della squadra, era stata la prima a obiettare il giorno in cui il
procuratore distrettuale, su spinta del capo della polizia, a sua volta
incalzato dal sindaco per la penuria cronica di buoni agenti all’interno della
MAB, aveva assegnato loro un criminale recidivo risocializzato che, trovatosi a
ventisei anni a dover scegliere tra la una lunga pena detentiva e un lavoro “socialmente
utile” aveva scelto di contrastare quelli che un tempo erano stati i suoi
compagni di malefatte.
Foch era
sicuramente un bravo agente, un hacker come se ne
vedevano pochi, con un’esperienza invidiabile tanto nel mondo dei computer
quanto in quello della stregoneria, ma sebbene inventiva, capacità e intuito
non gli facessero difetto aveva dato prova in più occasioni di essere un
individuo sostanzialmente inaffidabile, troppo incline a fare di testa sua e
irrispettoso il più delle volte di qualunque forma di autorità.
E poi
era un bambinone, infantile oltre misura, incapace di prendere con serietà
anche le questioni più spinose, e questa era sicuramente la cosa che Jane
detestava maggiormente di lui.
Parlargli
era inutile, e peggio ancora arrabbiarsi, perché quella
specie di casinista tutto sapeva fare fuorché prendere sul serio le lamentale o
le obiezioni di qualcuno; più volte aveva detto di essersi unito alla MAB solo
per causa di forza maggiore, e anche per questo motivo Jane riteneva che non vi
fosse persona più inadatta per occuparsi di una questione talmente delicata
come amministrare il corretto uso della magia in una società che cedeva fin
troppo spesso al naturale desiderio di abusarne.
Se non
altro, pensò mentre usciva dall’ascensore, avrebbe potuto fargli l’ennesima
ramanzina, oltre a pretendere un congruo risarcimento per il servizio sotto forma
di hamburger, patatine e pepsi l’indomani all’ora di pranzo.
«Ehi,
nerd da computer!» esclamò battendo energicamente alla porta dell’appartamento.
«La prossima volta, invece del badge, cerca di non dimenticarti la testa!»
Ma non giunse
risposta.
Sulle prime
Jane pensò che Foch stesse ancora dormendo, ma il brusio in sottofondo di una
macchina da interfaccia in piena operatività fu la prova evidente che non era
così.
«Non era
poi così stanco, dopotutto» brontolò prima di ricominciare a battere. «Avanti, idiota! Esci dal mondo dei sogni e muoviti ad
aprire!»
Poi, d’improvviso,
si udì un colpo violento, come di qualcosa che crollava al suolo, seguito
subito dopo da un terrificante silenzio.
«Kristen?»
domandò Jane mentre le tempie le si riempivano di
sudori freddi. «Kristen, non è divertente. Apri.»
Dal momento che
la porta era blindata era perfettamente inutile tentare di abbatterla, ma
fortunatamente alla fine tutto quel battere attirò l’attenzione della signora Wilson,
l’anziana dirimpettaia di Kristen, che uscì per capire cosa stesse succedendo;
Foch aveva parlato di lei in un paio di occasioni, e poiché aveva sottolineato
come fosse solito affidarle la pulizia del proprio alloggio le chiese se avesse
una chiave di riserva.
«Sì, ce l’ho. Ma che succede?»
«Presto,
vada a prenderla!»
Incredula,
ma anche un po’ spaventata, la signora corse a prendere la chiave, ed aperto l’uscio le due donne si trovarono davanti ad uno spettacolo
sconvolgente.
Kristen
era a terra, immobile, come a terra erano anche la poltrona e tutte le
apparecchiature ad essa collegate, il visore ancora
parzialmente calato sugli occhi e il volto pallido: sembrava morto.
«Oh, mio
Dio!» urlò la signora Wilson quasi svenendo
Jane invece
corse dal collega, inginocchiandosi davanti a lui a prendendolo
tra le braccia dopo avergli tolto il visore; le labbra e le narici erano
cianotiche, gli occhi aperti ma rivolti all’indietro, e un filo di saliva
colava dalla bocca socchiusa.
«Presto,
chiami un’ambulanza!»