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Autore: lilac    09/04/2009    3 recensioni
Tutto ha inizio da una strana e fastidiosa sensazione, che Bulma non riesce ad afferrare, né a spiegarsi in alcun modo. E tutto ciò che ha un inizio, ha anche una fine... prima o poi.
Una storia particolare, che letteralmente insegue gli strani risvolti dello scorrere del tempo e di un'attesa. Dedicata a taisa.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Bulma, Trunks, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama di Dragon Ball purtroppo non mi appartengono, ma sono proprietà del maestro Akira Toriyama, che ne detiene tutti i diritti. D’altra parte, forse per il mondo c’è ancora qualche speranza, perché nessuno mi retribuirà un euro per aver scritto questa storia.



Per taisa





FULL CIRCLE


Era come un fastidio sotterraneo, come il rumore appena udibile di un rubinetto che sgocciola nel cuore della notte; nel silenzio che amplifica e dilata ogni sussurro, ogni minimo rumore. Appena una goccia, mormorata sottovoce, ma riusciva a infliggerle il tormento di uno strepito straziante e sembrava logorarle le orecchie col ritmo ossessivo di una supplica. Pareva proprio come se un’idea le fosse passata di mente nell’esatto momento in cui aveva stabilito che fosse importante; come trovarsi alle prese con un calcolo assolutamente perfetto, il cui risultato era anche assolutamente sbagliato. E continuava a percepire quella presenza tangibile di una realtà che non c’era, che le sembrava di aver perso; ma ne aveva appena coscienza.
Non sembrava turbata, in ogni caso. Appariva invece debolmente inquieta, anche se continuava a ostentare la sua solita, spensierata vitalità. Aveva un’espressione risoluta, infatti, mentre guardava dritto di fronte a sé, tra le nuvole, che le sfrecciavano accanto attraverso il vetro dell’air jet. Tuttavia, quel mordicchiarsi inconsapevole il labbro inferiore velava sicuramente una certa insofferenza; una sottile irrequietezza, che sarebbe potuta sembrare addirittura indecisione.
Eppure, raramente Bulma Brief aveva mai esitato di fronte a qualcosa o a qualcuno. Normalmente, poi, non avrebbe avuto bisogno proprio di alcun pretesto per piombare ovunque le passasse per la testa e per gettarsi a capofitto in qualsiasi situazione, fosse anche la più cruenta delle battaglie.
Non aveva bisogno di scuse; e pareva confermarlo quell’espressione determinata. Nessuno gliene avrebbe domandato ragione, oltretutto, posto che le sue abitudini e i suoi modi di fare erano ben noti a tutto il pianeta. Malgrado ciò, questa volta, quella malcelata apprensione avrebbe suggerito esattamente il contrario, ad un attento osservatore; vale a dire che Bulma avrebbe dovuto averne uno, di motivo, per essere lì. Un motivo davvero valido.

Il Santuario di Dio era nelle vicinanze, ormai, e lei accelerò; nessun vero motivo, nemmeno in questo caso. La sua espressione, in realtà, si fece ancora più determinata e serena. Mentre le nuvole le sfrecciavano accanto, lei seguitava a guardare fisso di fronte a sé con la spensierata baldanza di sempre; senza sapere nemmeno il perché avesse quella strana sensazione. Senza quasi accorgersene, a momenti.
Sembrò ribadire mentalmente, come concentrata su un ragionamento inconfutabile, che senz’altro si trovava alle prese con una certa stanchezza. Il sospiro che si lasciò sfuggire, d’altra parte, chiosò tempestivamente quel pensiero in modo del tutto spontaneo. Tuttavia, quell’insistente assottigliare lo sguardo non pareva guidato solo dall’impulso naturale di avvistare finalmente un approdo. Appariva, invece, un segno d’impazienza.
Erano passati quasi cinque giorni dall’annuncio di Cell e più tempo ancora, da che aveva iniziato a lavorare su Numero 16; e non aveva fatto altro. Un qualche affaticamento, perciò, poteva annoverarsi decisamente tra i suoi problemi più impellenti, in quel momento. In realtà, quell’acuire lo sguardo, in cerca di qualcosa, pareva piuttosto l’impronta di una stanchezza diversa, più profonda e impalpabile. Una traccia appena percettibile, quasi invisibile, di un tempo che era trascorso in modo insolito. Pochi giorni che avevano il sapore di anni. Una vita che era diventata due esistenze diverse, poi una terza. Il tempo era trascorso in modo strano, indubbiamente.
Sorrise quando, in lontananza, il sontuoso palazzo squarciò il bianco delle nuvole e si fece nitido, bianco nel bianco. Tenne gli occhi fissi sul belvedere e iniziò a rallentare l’andatura. Il suo sguardo si affilò ulteriormente, nel tentativo di scorgere una qualsiasi figura familiare e, addolcito da quel sorriso, il suo volto s’illuminò d’un tratto e si schiarì in una limpidezza ancor più raggiante, con l’avvicinarsi e il decelerare del velivolo. Quando fu abbastanza vicina da distinguere le persone che se ne stavano col naso all’insù, gli occhi su di lei, quella strana stanchezza, così come quella sottile inquietudine, erano ormai completamente imbrigliate e taciute dalla sua solita, spontanea allegria, senza quasi che Bulma avesse avuto il tempo di rendersi conto di averle mai provate.
“Ehilà!” salutò con una mano, sporgendosi dall’apparecchio. Il vento le scompigliò furiosamente i capelli, ma non sembrò farci caso. “Salve a tutti!”
Atterraggio perfetto come al solito, annunciò la sua espressione soddisfatta. Con un unico movimento fluido, scese dal jet e lo richiuse nella capsula. Era un gesto che aveva ripetuto ormai milioni di volte e, proprio come milioni di altre volte, semplicemente lei c’era. Nessun motivo.
“Ciao, Bulma!” Gohan fu il primo a salutarla e, a qualche metro di distanza da lui, Piccolo fece un cenno con la testa. Così sembrò, perlomeno; era stato talmente impercettibile che Bulma, per un momento, ebbe l’impressione di averlo soltanto immaginato. Che il namecciano si fosse semplicemente limitato a guardarla e a constatare il suo arrivo, così come aveva fatto quel buffo individuo, Mr. Popo, che non aveva mosso nemmeno un muscolo facciale, per lei non parve però fare una gran differenza, in realtà.
Incrociando il suo sguardo, Trunks accennò un sorriso affettuoso, che avrebbe invece potuto fare la differenza tra il giorno e la notte, stando al modo in cui lei lo ricambiò, dopo averlo cercato con gli occhi per un lungo momento.
Di fatto, l’unico a manifestare una certa perplessità, di fronte all’apparizione improvvisa della donna, in apparenza fu Crilin. La scrutò vagamente sorpreso, appena per un momento, prima di registrare quell’ennesimo capriccio come un’altra delle manifestazioni della sua volubilità e rivolgerle un saluto amichevole. “Ciao Bulma.” Abbozzò anche lui un cenno col capo. “Come mai sei qui?”
Per un momento, la domanda dell’amico sortì l’effetto paradossale di suscitarle una qualche esitazione. Sembrò realmente riflettere su cosa avrebbe dovuto rispondere, ma nessuno dei presenti sembrò accorgersene. Il ragazzino accanto a Gohan, per dire la verità, che la fissava in imbarazzo da che era apparsa, era riuscito immediatamente a catturare la sua completa attenzione, costringendola a ignorare del tutto quell’interrogativo, assieme a tutto il resto dei suoi pensieri sommersi.
“Dende! Ma allora è vero!” esclamò entusiasta.
Il giovane namecciano si era mostrato sinceramente felice, nonostante la sua timidezza fosse altrettanto evidente. Di certo, non aveva affatto l’aria austera e solenne che ci si sarebbe aspettati dal Dio della Terra e, qualcosa, in quello sguardo smarrito, sembrò suscitarle un’improvvisa tenerezza. Fu un pensiero fugace, a prima vista, ma fu come se Bulma si ritrovasse letteralmente trascinata da quel pensiero, senza volerlo, e finì per regalargli un sorriso affettuoso. “Che bello rivederti!”
“È bello anche per me rivedervi tutti” farfugliò evidentemente in imbarazzo il piccolo Dio, accompagnando con lo sguardo l’altro namecciano, appena in disparte.
“Caspita! Come sei cresciuto!” affermò la scienziata. Quell’insolita sensazione sembrò ancora una volta accantonata, da qualche parte, in quel luogo dove le idee non avevano coscienza di sé, nel momento in cui Dende le rivolse un nuovo sorriso impacciato. “Ecco… sì… effettivamente è passato un po’”. E un filo sottile di ricordi si palesò appena in un’occhiata distante; in un lieve movimento del capo, che assomigliava a un assenso. Bulma, però, non riuscì a raggiungere del tutto quel pensiero che, appena dietro l’angolo più buio della sua consapevolezza, aveva fatto a stento capolino. Aspettavano ancora, sembrava comunicare quell’espressione vagamente malinconica, come in quei giorni che parevano ormai lontanissimi, ma con tutt’altre emozioni. E il tempo trascorreva in modo strano… da un po'.
“Come stai, Bulma?” chiese il piccolo Dende.
L’espressione di lei mutò di nuovo, improvvisamente luminosa, come ad avvalorare la sua risposta repentina.“Magnificamente!” Ma era come essere in balia di una strana corrente. Quella bizzarra sensazione andava e veniva, come se cercasse di trovare la giusta direzione fra i suoi pensieri e ogni volta fosse costretta a tornare indietro. Strada sbagliata, nuova strada.
Quella sensazione, infatti, si fece sentire ancora. Così sembrò, se non altro, a giudicare dal modo in cui la donna si ritrovò ad aggrottare la fronte, solamente un attimo dopo, con tutta l’aria di chi si stesse concentrando su qualche cosa d’importante. Fu come se un’idea stesse bussando debolmente in un recesso della sua coscienza, tentando di farsi schiudere un varco, una porta. “Accidenti, Gohan!” La genuina sorpresa con cui si rivolse al giovane mezzo saiyan, tuttavia, cancellò dal suo volto ogni traccia di un simile, tortuoso pensiero in un battere di ciglia, come nulla fosse. “Sei cresciuto anche tu!”
Gohan sorrise, leggermente in imbarazzo. “Già. Me l’hanno detto tutti.” si schernì il ragazzino. Anche lui incrociò per un attimo lo sguardo di Piccolo e Bulma non poté fare a meno di notarlo, questa volta. Il namecciano, per tutta risposta, sembrò limitarsi a ricambiare con una semplice occhiata distratta, ma Gohan sorrise in modo diverso; e Bulma, non volendo, si ritrovò a osservare quel mutuo scambio di sguardi, apparentemente senza capire.
“Goku non è ancora tornato?” chiese improvvisamente, rivolgendosi proprio a Piccolo.
“No, non ancora.”
Crilin intervenne a quel punto in modo spontaneo, velatamente speranzoso. “Probabilmente sarà qui a momenti.”
“Dovrebbe averle trovate quasi tutte, ormai” aggiunse distratto il namecciano, voltando le spalle al gruppo. Lei lo osservò ancora un momento, mentre era intento a scrutare l’orizzonte.
“Beh, io vi ho portato altre tute” esclamò, tornando a rivolgersi agli altri. Si rese appena conto di aver risposto alla domanda che l’amico terrestre le aveva fatto ormai un minuto prima. Il tempo non fa che scorrere. In realtà si era rivolta a suo figlio, seduto sui gradini a pochi passi da Crilin. “Vi siete dimenticati di prenderle.” E fu proprio Trunks, di fatto, l’unico a rispondere. “Ah, grazie.” Sorrise appena.
Ognuno sembrava in qualche modo assorto in pensieri tutti suoi.
“Insomma! Avevate tutta questa fretta…” borbottò fra sé lei, più a bassa voce, come rivolgendo quel rimprovero a qualcun altro, che non si trovava lì ad ascoltarlo. Poi scrutò nuovamente tutti i presenti, uno a uno, soffermando infine lo sguardo sul guerriero namecciano. “Tanto lo so che a voialtri non interessano.” puntualizzò vagamente sdegnata, constatando la totale mancanza d’entusiasmo e amplificando ancora il tono di voce. Piccolo, d’altra parte, non fece che confermare la sua tesi con una smorfia sprezzante, ignorando bellamente quel tono. “Ma, già che c’ero, perché sprecare tutto questo lavoro? E poi avevo bisogno di fare una pausa, ecco!”.
Sbuffò stridula, come a commentare le sue stesse parole, lasciandosi sfuggire, in quel moto di esasperazione, una considerazione che sembrava stesse ribadendo ancora una volta più a se stessa; e Trunks si affrettò a replicare nuovamente. “Hai fatto bene a portarle, grazie.” Sorrise premuroso, come sempre da che le aveva rivolto per la prima volta la parola.
“A proposito…” intervenne Crilin. Forse fu il tono un po’ indispettito di lei che lo spinse a cambiare argomento, ma aveva tutta l’aria di essere genuinamente interessato. “Come vanno le cose con Numero 16?”
“Ah… Benone!”
Non si rese conto di aver risposto quasi sollevata, fin troppo sbrigativa. Sembrò davvero che non le dispiacesse parlare d’altro, ma non riuscì ad accorgersene nemmeno lei. In qualche modo, per chissà quale motivo, quella sensazione cominciò a bussare ancora a quella porta, questa volta un po’ più forte. In realtà, Bulma proprio non lo sapeva perché aveva dovuto lasciare la Capsule e precipitarsi al Santuario, nel bel mezzo del lavoro su Numero 16. Non ne aveva effettivamente la più pallida idea, e la cosa avrebbe cominciato a renderla davvero inquieta, se solo fosse stata una sensazione un poco più tangibile e consistente. “Tutto sotto controllo.” Sembrò parlare di nuovo a se stessa, probabilmente distratta più del dovuto, mentre gli altri si facevano al contrario più interessati. “Mio padre ci sta lavorando proprio adesso.” Il suo tono di voce non tradì alcuna emozione insolita, però. “Voi, piuttosto… Come va l’allenamento?” domandò allegra.
“Ah, beh…” Crilin anticipò di un soffio Trunks, sul punto di parlare, sospirando rumorosamente. “Io non credo di avere molte speranze… per fortuna che ci sono loro”.
Bulma si era rivolta di nuovo a suo figlio, ma lui sembrò ancora una volta l’unico ad averlo davvero compreso; e il peso che Trunks pareva sentire su di sé, per un momento, le arrivò in tutta la sua incombenza, in quello sguardo fiero e consapevole che si era posato deciso su di lei. Non riuscì a non sorridere, in realtà, rivolgendogli una risposta altrettanto silenziosa, ma quel sorriso apparve di nuovo velatamente malinconico, come se vi fosse riflessa la profonda incertezza che poteva leggersi negli occhi del ragazzo.
Anche gli altri rimasero in silenzio. Le labbra di Piccolo si assottigliarono in una nuova smorfia e la scienziata, incrociando d’istinto quell’espressione risentita, si ritrovò involontariamente a inarcare un sopracciglio, colta da una vaga perplessità. Avrebbe giurato che quella che aveva appena notato in lui fosse un’espressione di scherno. Era arrabbiato e sembrava sul punto di dire qualcosa, ma si limitò a voltarsi di nuovo, a dare le spalle agli altri e ad allontanarsi, senza proferire parola.
Gohan soffermò lo sguardo sulla sua schiena, per un lungo momento. Anche lui era rimasto per un istante in silenzio, lo stesso sguardo serio di Trunks, ma si rivolse subito dopo alla donna. “Tutto bene” la rassicurò, sorridendo appena. E Bulma fu come catturata da quello sguardo. Lo sentì forte e chiaro, quello strano nodo alla gola, nel accorgersi di quanto Gohan stesse diventando simile a suo padre; quasi quanto Trunks cominciava ad apparirle simile a Vegeta. Lo sguardo limpido di uno, in cui si leggeva tutto, e quello fiero dell’altro, che invece sembrava al contrario nascondere tanto, finirono per posarsi su di lei all’unisono, con uno strano tempismo. E fu come se fossero lì da anni. Il tempo trascorreva… In modo strano.
“Il Signor Piccolo è già entrato nella stanza” spiegò Trunks, interpretando l’espressione pensierosa di lei come una richiesta di delucidazioni.
Ma era solo quella maledetta sensazione.
“Io sarò il prossimo a entrare…” proseguì; e lei si sforzò persino di ascoltarlo. Dende, infatti, aveva seguito con uno strano interesse quello scambio di battute e Bulma finì per rendersene finalmente conto, in quell’istante, quando scorse quasi casualmente l’impercettibile cambiamento nell’espressione con cui aveva iniziato a scrutarla. Il piccolo namecciano non si era perso proprio una parola, da che era arrivata al Santuario e, sovrappensiero, lei si chiese se gli altri gli avessero già raccontato tutto quello che era successo negli ultimi anni. Erano successe tante cose.
“… Appena uscirà Vegeta.”
Non si rese conto, però, che il silenzio in cui era piombato negli ultimi minuti il giovane Dio non era dettato solo dalla discrezione o dalla timidezza, perché quella fastidiosa sensazione che non voleva abbandonarla l’assalì all’istante, in modo quasi crudele, proprio nel momento in cui aveva avuto la percezione di essersene liberata. Proprio in quel momento, come le fosse piombata addosso assieme a quel nome, la percepì forte e chiara, e si rese conto anche che era sempre stata lì, in agguato, per tutta la giornata; non l’aveva proprio mai abbandonata, da che, la notte prima, aveva fatto quello strano sogno.
Tuttavia, più quella sensazione si faceva concreta e reale, più Bulma appariva serena, allegra. “Ah, sì…” sorrise. “E da quanto è chiuso là dentro?”
Solo un sogno… Era quello che si era ripetuta appena sveglia, quando aveva sentito quel senso di angoscia afferrarle lo stomaco, quella profonda inquietudine.
“Ormai dovrebbe uscire a momenti.” precisò Trunks.
“Il tempo è quasi scaduto.” confermò Piccolo, con un’inflessione vagamente impaziente. Anche Gohan sembrava impaziente. E forse proprio tutti, chi per un motivo e chi per un altro, sembravano curiosi di scoprire l’esito di quell’allenamento. Fu allora che riuscì a notarlo, solo in quel momento; stavano aspettando tutti. E tutti sembravano vagamente ansiosi, irrequieti. Era così che si sentiva anche lei?
Dende, a quel punto, si mostrò palesemente a disagio, prendendo a mordicchiarsi il labbro inferiore e abbassando lo sguardo a scrutare con insistenza il pavimento. Tuttavia, Bulma registrò quella reazione in modo totalmente inconsapevole, questa volta, ignara delle reali emozioni del piccolo namecciano e ormai assorta nei suoi pensieri.
Disagio. Era questo che aveva provato? Il suo sguardo seguì involontariamente la direzione verso cui la maggior parte dei presenti si era rivolta, spontaneamente.
Si era svegliata quella mattina e aveva rivissuto quelle immagini e quelle emozioni nella memoria; vivide, ma al contempo così innaturali. Quella sensazione, in quell’istante, le sembrò incredibilmente acuta e penetrante.
Un’immagine, poi, in quel sogno, l’aveva colpita in modo particolarmente pungente e continuava a tornarle alla mente, a distanza di ore. Così intensa che, solo al ricordo, un fremito di commozione la scosse per un istante, persino in quel preciso momento. Nessuno sembrò farci caso, tuttavia, o piuttosto fu lei che non prestò attenzione agli altri. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi da quella porta.
Non era riuscita a capire cosa significasse. Era stato così assurdo, insensato, sognare Vegeta in lacrime. Quel viso, proprio quello, segnato dalle lacrime. Così irreale. Così assurdamente impossibile e allo stesso tempo vero, in un modo inquietante e frastornante; come poteva esserlo soltanto un incubo. Eppure non era stato spaventoso o doloroso. Quello che aveva provato era sicuramente disagio, un’insofferenza sottile e acuminata che aveva preso a scavarle la mente come un tarlo.
Quell’espressione così dura, inflessibile, quella che ricordava di avergli sempre visto sul volto, senza quasi eccezione; quell’indistruttibile freddezza… solcata dalle lacrime. Copiose, su quell’espressione tutt’altro che eloquente, impassibile e distaccata.
Disagio. Ecco cos’aveva provato! Era solo uno stupido sogno, lei lo credeva fermamente; ma non era riuscita a smettere di sentirsi terribilmente a disagio. In quel momento ne fu perfettamente consapevole; e fu come se si fosse tolta un peso enorme.
La voce di Trunks le arrivò appena alle orecchie. “M… ma che fai?”
“Bulma, guarda che non puoi... ” la rimproverò Crilin, con un leggero tono di sufficienza, come se tentasse di spiegarle inutilmente qualcosa di ovvio. “Non è mica una stanza come le altre.”
“Ehi, che ti sei messa in testa?!” Piccolo si mosse di un passo verso la sua direzione, chiaramente seccato. “Non ci pensare nemmeno!”
“Ehm… Bulma…” cercò di dissuaderla Gohan in evidente apprensione, incrociando lo sguardo altrettanto confuso di Dende. “Non penso che Vegeta sarebbe molto contento se interrompessi l’all…”
“Signora, è pericolos…”
“Shhhh!” Li zittì brusca, agitando irritata una mano, senza voltarsi. “Ma volete stare un po’ zitti! Fatemi sentire, insomma!”
Sei persone si ritrovarono a sollevare all’unisono gli occhi al cielo, in un moto d’esasperazione e in preda a emozioni disparate. Si avvicinarono, una dopo l’altra, un secondo dopo e spinte da impulsi diversi, al massiccio portone della Stanza dello Spirito e del Tempo, su cui la donna aveva appoggiato trepidante entrambe le mani e aveva accostato un orecchio, come al rallentatore.
L’espressione di Piccolo si fece nuovamente beffarda. “Si può sapere che speri di sentire? Al di là di quella porta c’è un’altra dimensione.” considerò palesemente sarcastico.
“Bulma, è inutile… credimi…” sospirò Crilin, col tono più paziente e comprensivo che riuscì a concepire. “Non puoi sentire nulla”.
Per un tempo che a tutti i presenti sembrò più precisamente un’eternità, tuttavia, lei rimase in quella posizione, assolutamente concentrata, ignorando qualsiasi commento o tentativo di distoglierla dal suo intento. Poi sollevò il volto dal battente e si allontanò di un passo, rivolgendosi al gruppetto che l’aveva raggiunta con un’espressione che lasciò, inaspettatamente, tutti di sasso. Sembrava semplicemente radiosa.
“Non si sente un bel niente. Silenzio assoluto.” dichiarò candidamente, sfoggiando un sorriso smagliante e sollevando le spalle in un gesto spontaneo d’allegra impotenza.
Gli sguardi allibiti, letteralmente frastornati dei presenti le piombarono addosso in tutto il loro smarrimento. In un istante e uno ad uno, quegli sguardi cominciarono successivamente a tramutarsi in espressioni tra le più svariate e a rivolgersi altrove, nel chiaro tentativo di non commentare troppo apertamente quell’ennesima manifestazione di follia. Solo Trunks sembrò, per un lungo momento, assolutamente rapito da quella singolare euforia. Il ragazzo si trattenne per qualche istante a osservare sua madre, anche dopo che lei si era decisa a seguire il resto del gruppo, all’aperto. Si soffermò a scrutarle la schiena quasi incantato, evidentemente pensieroso.
Se non fosse stato qualcosa d’impossibile, in quel preciso momento, sembrava davvero che il giovane ragazzo venuto dal futuro avesse intuito, per chissà quale motivo, che quell’ineffabile, stranissima sensazione di disagio, che sua madre aveva cercato di afferrare per tutto il giorno, era improvvisamente svanita nel nulla.


L’infinita distesa bianca sembrava insinuarsi lenta e inarrestabile tutto intorno, lambiva ogni angolo, ogni anfratto, fin quasi a sfiorare la sua mente. Brillava come fosse fredda e solida, e pareva immobile, eppure aveva la consistenza eterea della nebbia e fluttuava sinuosa, raggiungendo morbida i contorni delle piastrelle laccate, dei mobili; ne increspava le linee e li tramutava in sostanze incorporee, come se il tempo fosse l’unica estensione sensoriale, in quella dimensione. Era come fosse l’unica realtà, un’unica entità inalterabile in un mondo effimero; pareva immobile anch’esso, eppure era in continuo movimento, veloce e inafferrabile. E poi c’era quel bianco, che urlava nelle sue orecchie producendo un frastuono quasi insopportabile.
L’infinita distesa candida gridava, sì, a un volume assordante. E il suo sguardo insofferente si accigliava sempre di più; si acuiva all’unisono con l’aggrottarsi concentrato della fronte, col tendersi dei muscoli del volto e con l’incupirsi e insieme l’illuminarsi di quel nero, nel fondo dei suoi occhi. Il suo sguardo si assottigliava nella concentrazione e nel tentativo di udire, di carpire un suono che provenisse da quei volti sorridenti e dal movimento delle loro labbra.
La forza incredibilmente soggiogante che gli impediva di avvicinarsi a quelle persone era, invece, appena percettibile. Se ne stava lì, immobile, quasi sorpreso nel sentirsi annientato da quell’inavvertibile contenzione che lo separava dal bianco, delineandone netto il contrasto su di sé; debolissima, eppure invincibile.
Un’ondata di stanchezza lo investì all’improvviso. Partendo tenue dal centro della testa, finì per esplodere istantanea in un rapido crescendo e una vertigine inaspettata e violenta lo costrinse a chiudere gli occhi. Fu allora che il frastuono cessò, di colpo. Quando sollevò di nuovo lo sguardo su quelle persone, il rumore delle stoviglie e delle risate lo investì inaspettatamente, affiorando dal silenzio.
Furono loro ad avvicinarsi a lui; ancora immobile, ancora assoggettato da quell’impalpabile forza che gli impediva i movimenti.
“Vegeta! Vieni anche tu a mettere qualcosa sotto i denti!” Kakaroth sollevò il bicchiere in segno di saluto e il liquido ambrato al suo interno si mosse inquieto, ondeggiando. I capelli biondissimi e quegli occhi glaciali sembrarono scomparire nel bianco. Sorrideva bonario, come aspettando una sua risposta, poi posò il bicchiere senza portarselo alla bocca e continuò a servirsi dalla tavola imbandita di ogni bendiddio, ignorando il suo stesso invito solo un secondo dopo.
“Sì, dai Vegeta! Unisciti a noi!” lo esortò il piccolo mezzo saiyan. Il suo volto divertito ostentava un’espressione benevola di scherno; e quella forza lo attanagliò in modo più sensibile, come alimentata da quel sorriso, mentre un’energia inquieta cominciava a fluirgli nelle vene e i palmi delle mani si contraevano, chiudendosi a pugno in uno spasmo insofferente. Il moccioso rideva, scambiando sguardi compiaciuti con l’altro saiyan. La loro assoluta serenità gli incendiava la pelle come aria rovente, la sentiva infrangersi contro la sua impotenza e quell’energia rabbiosa finì per scuoterlo in un fremito. Si mosse, ma non riuscì a muoversi.
“Non hai bisogno di allenarti ancora, padre. Mangia qualcosa con noi”. Suo figlio masticava lentamente, seguendo con lo sguardo un filo sottile e incorporeo di fumo, che si dipanava tra i piatti stracolmi di vivande dal profumo appetitoso. Non si era voltato nemmeno a guardarlo, pronunciando quelle parole. Un rimprovero silenzioso e saccente si palesò in quella timida esitazione, negli occhi del ragazzo, e l’energia che continuava a scorrere insofferente in ogni fibra del suo corpo, ingabbiata da quella morsa sottile e tenace, si accese furiosa, divampando come fuoco. Si mosse, con tutta la forza che aveva, senza riuscire a spostarsi di un millimetro. Spalancò le labbra per liberare quell’energia. Parlò, ma non riuscì a parlare.
Poi, uno strano e improvviso senso di nausea lo investì di colpo, annichilendo la rabbia. Il bianco ricominciò ad urlare, attutendo il rumore dei piatti, l’odore delle pietanze e il sorriso di Kakaroth, che si rivolgeva di nuovo a lui con quell’espressione ipocrita e spensierata. Distolse lo sguardo, infastidito da quello strepito insopportabile, ma fu catturato da lei, che mangiava con calma, come suo figlio, e ne seguiva assorta i movimenti. Lei piangeva.
Quella strana forza che lo arginava sembrò in un lampo potentissima. Sentì inspiegabilmente la rabbia crescere all’interno del suo corpo; la sentì espandersi come fosse un’entità concreta, mentre tentava disperatamente di erompere verso l’esterno, salendo come un maroso dal fondo di uno spazio angusto. Spalancò le labbra per urlare, ma quel grido e quell’energia implosero in uno schianto ovattato, attutito dal bianco, e finì per accasciarsi al suolo, schiacciato da quella forza sempre più soverchiante, di cui non riusciva ad avere ragione. Fu come se quel candore gli piombasse addosso e i suoi occhi spalancati verso il cielo si colmassero di quella nebbia, inconsistente e pesante.
L’istinto guidò un movimento scomposto, che colpì i suoi sensi confusi con una sferzata, e quella morsa si fece di nuovo inavvertibile, leggerissima. Si ritrovò nella stessa frustrante situazione che aveva vissuto pochi istanti prima, questa volta disteso a terra, supino, sovrastato da tonnellate di bianco leggerissimo. L’angoscia si dileguò però altrettanto leggera, come la sua coscienza, che sembrava galleggiare in quel chiarore, quasi fosse separata dal suo corpo e non potesse più controllarlo.
Mosse istintivamente lo sguardo alla sua destra, in un moto d’orgoglio e di ostinazione, attratto da un movimento impercettibile. Lei era lì, seduta accanto a lui. Lo osservava con un’espressione innaturalmente seria, tranquilla. E piangeva.
Fisso su di lui, il suo sguardo intenso e acuto, pareva nascondere un abisso d’emozione. Le lacrime scendevano silenziose sulle sue guance impallidite; scivolavano inarrestabili, su quell’espressione innaturalmente seria e tranquilla, permeando quello sguardo acuminato, che pareva squarciare le stesse lacrime. Gli sembrò perfino di sentire quegli occhi dilaniargli la carne, nel posarsi su di lui con tanta forza. Poteva percepirne il dolore sulla pelle, intenso e acuto. Reale.
E poi quel bianco sotto di lui diventò caldo, morbido, e si rese conto di trovarsi in un letto. Era ferito.
Quello sguardo silenzioso si eclissò lentamente fra le mani di lei, che si accasciò piegandosi su se stessa, reclinando il capo e nascondendolo nell’incavo delle braccia. Lui la osservò, ignorando le fitte pungenti e sotterranee che sentiva, mentre si accoccolava, esausta, accanto al suo letto. Sembrava dormisse, il volto nascosto da una cascata azzurra di capelli e il capo abbandonato, eppure continuava a sentire quelle lacrime. Ora poteva ascoltarle, assordanti, insopportabilmente chiassose.
Si sollevò di scatto, furente. “Smettila di piangere, Bulma! Maledizione!”
E furono proprio le sue stesse parole, gridate con rabbia, a lacerare in un lampo il velo dell’incoscienza e a ridestare la sua consapevolezza. Lo scossero come un segnale di pericolo, improvvise, come fossero quelle di un altro. Tutti i suoi sensi si riaccesero prepotentemente in un impulso violento, esitando anch’essi per un istante, tuttavia, nel momento in cui quella frase gli arrivò alle orecchie, come provenisse dall’esterno. Solo un istante di totale smarrimento; un turbinio di sensazioni confuse gli attraversò la coscienza, fulmineo, poi svanì come spazzato via dalla realtà. Solo il tempo di articolare fino all’ultima parola di quella frase e di rendersi conto di aver pronunciato veramente quelle parole, ad alta voce, di averla urlata a nient’altri che il bianco.
Scrutò istintivamente l’abbacinante deserto tutt’intorno e percepì distrattamente il freddo delle piastrelle, sotto di sé, e il marmo della colonna sulla sua schiena. Le enormi clessidre sancivano inesorabili lo scorrere del tempo.
Di tempo, non ce n’era mai abbastanza…
Ritrovò in un lampo la concentrazione, risollevandosi in piedi quasi all’unisono con i suoi pensieri, che avevano ricacciato nell’inconsapevolezza quella strana sensazione di disagio con tutta la tenacia che gli era rimasta in corpo. Gli restava ancora qualche ora; aveva dormito abbastanza e, soprattutto, aveva perso fin troppo tempo prezioso.


Era come un fastidio sotterraneo; come il chiacchiericcio di un gruppo di persone nella stanza accanto, che attira dolcemente l’attenzione, contro la propria volontà. Quel continuare a distrarsi, senza un motivo, perdendosi in un rumore privo di sonorità; interdetto da un muro invalicabile, eppure così invitante. Appena un mormorio, ma riusciva a catturarlo inesorabile, alimentando quella strana sensazione che ci fosse qualcosa di più importante su cui avrebbe dovuto concentrarsi, che non riusciva ad emergere dalla nebbia di quel suono ovattato, monotono, in cui di tanto in tanto spiccava un suono più acuto, a ricacciare la sua consapevolezza in balia di una frustrante disattenzione. Era come se sentisse di dover essere da tutt’altra parte; e continuava a percepire quella presenza tangibile di una realtà che non c’era, che gli sembrava di aver perso, ma ne aveva appena coscienza.
Non ne sembrava infastidito, tuttavia, appariva in realtà più che altro assorto, forse impaziente. Come gli altri, sembrava semplicemente in attesa. Aveva un’espressione quietamente concentrata su ciò che gli accadeva intorno, infatti, e il suo sguardo era posato con una delicatezza impalpabile sulla madre, che chiacchierava allegra con Crilin, come se avesse addirittura timore di farle male. Tuttavia, la levità di quello sguardo, che sembrava oltrepassare la donna e rincorrere orizzonti ben più lontani della terrazza che sovrastava il mondo, mal celava in realtà una reale distanza, che a un occhio vigile sarebbe potuto sembrare perfino distacco.
Eppure, Trunks non aveva mai avuto il sentore di essere un estraneo fra quelle persone, neppure la prima volta. Aveva riconosciuto immediatamente ognuno di loro, ogni singolo gesto o espressione, persino le loro voci. Ed era stato come essere a casa.
Era come essere a casa; e pareva confermarlo la sua espressione serena. Quelle persone l’avevano accolto come un amico, venuto da lontano, e persino Vegeta sembrava aver accettato la sua presenza. Quel poco che sapeva di lui, o quel poco che aveva imparato col passare dei giorni, pareva rassicurarlo finanche su questo. Nondimeno, quello sguardo abbandonato nel vuoto, nel tentativo di rincorrere parole che si perdevano invece nell’aria, avrebbe suggerito esattamente il contrario, a un avveduto osservatore; vale a dire che Trunks, in quel momento, si sentisse nel posto sbagliato; da tutt’altra parte, rispetto a dove avrebbe dovuto essere.

Il Santuario di Dio si era saturato all’improvviso di un’inaspettata vitalità, con l’arrivo di Bulma e con le sue stravaganti iniziative. Nessuno di loro l’aveva espresso apertamente, ma quel gesto in apparenza insensato, che la donna aveva compiuto con tanta naturalezza qualche minuto prima, aveva avuto il potere di distendere in modo sensibile gli animi di tutti presenti. Era come se ognuno di loro, disperso in una terra sconosciuta e ostile, avesse appena intravisto in lontananza la sagoma di una figura familiare; quella scintilla di consuetudine o quel gesto rincuorante fra tanti estranei e nemici, che erano riusciti infine a riconoscere e che aveva avuto il potere di indicare loro, ancora una volta, la strada di casa. L’espressione con cui Crilin ascoltava attentamente le parole della scienziata, ancorché seria e concentrata, aveva assunto, infatti, i tratti distesi di chi si era appena lasciato andare a una virtuale risata liberatoria, prima di tornare a preoccuparsi di questioni più incombenti. Gohan e Dende, d’altra parte, sembravano impegnati in un’allegra conversazione, come fossero lontani anni luce da ogni responsabilità e preoccupazione.
Trunks sorrise appena tra sé, osservando il piccolo namecciano ridere come un qualsiasi bambino, quasi fosse completamente all’oscuro di essere a tutti gli effetti un Dio. E quel sorriso si fece d’un tratto più malinconico, più pudico, come se temesse di sembrare intempestivo, mentre si sorprendeva a riconoscere, nell’altro bambino, l’espressione gentile che tante volte aveva osservato negli occhi del suo maestro; rassicuranti, sembravano incoraggiarlo anche in quel momento, con la loro inestinguibile forza interiore. Pareva fosse curioso anche di se stesso, del suo osservare quello sguardo, o dell’ascoltare semplicemente il suono infantile di quella voce, senza coglierne le parole, quando in un impeto di entusiasmo si faceva acuta e irrompeva a sua volta in una risata.
Persino Piccolo aveva sciolto, in qualche modo, quella sotterranea tensione che l’aveva pervaso nelle ultime ore, da che era uscito dalla Stanza dello Spirito e del Tempo. Se ne stava di spalle, ancora affacciato sul mondo, apparentemente assorto in pensieri distanti. Eppure, Trunks finì per soffermarsi ad osservarlo in modo diverso, come se riuscisse a carpire l’espressione del suo volto, pur non potendola scorgere. La postura impercettibilmente rilassata del namecciano avrebbe lasciato intuire, infatti, che quell’espressione tesa e assorta fosse mutata, almeno in parte, e che fosse invece assolutamente partecipe di ciò che accadeva alle sue spalle. Tutt’altro che distante.
Era come se ognuno di loro fosse stato investito da un’inspiegabile sferzata di sollievo. Un’illusione, forse, sembravano comunicare gli occhi azzurri e intensi del giovane mezzo saiyan, che vagabondavano per il Santuario come in cerca di qualcosa; ma quell’illusione aveva avuto il potere di mitigare, per qualche motivo, la latente inquietudine che aveva aleggiato su di loro negli ultimi giorni. E anche lui stesso, avesse potuto osservarsi, avrebbe notato la sua postura serena, seduto sui gradini di fronte al palazzo; quello sguardo silenzioso che scrutava gli altri, come fosse un’occupazione cui era dedito da tutta una vita. Suo malgrado, in realtà, quella sottile, strana sensazione continuava a trapelare a tratti dal suo volto, in fugaci lampi di concentrazione; nel modo in cui cercava di imprimersi nella mente i volti di quelle persone, le loro voci, le loro espressioni, pur non riuscendo ad ascoltare veramente ciò che dicevano, né a prestare loro davvero attenzione. Era il modo in cui li osservava che avrebbe tradito un’emozione differente; li guardava da lontano, nello spazio, ma anche nel tempo. E il tempo era una dimensione fragile.
Piccolo fu il primo ad accorgersi di quell’aura, prima ancora di lui; prima ancora che lui si rendesse conto di aver udito il debolissimo scatto della serratura, alle sue spalle. Il suono sommesso della maniglia s’era dissolto in un lampo, scomparendo in un mare d’energia impetuosa, tanto da sembrargli quasi illusorio, per un istante. Nel momento in cui si era dischiusa quella sottile fessura, infatti, era stato come se qualcuno ne avesse squarciato delicatamente il velo con una lama affilata e precisa, ma aveva avuto allo stesso tempo l’effetto devastante di un fiume in piena, che frantumava i suoi argini e debordava violento su ogni cosa.
Gohan e Crilin si voltarono all’unisono verso la pesante porta di legno massiccio, mentre si spalancava, attirando dietro di sé, in una sorta di magnetismo, gli sguardi così differenti fra loro di Bulma e del piccolo Dende. Trunks sembrò allora inesorabilmente attratto dalle loro reazioni; al punto che, per un momento, quasi ignorò la presenza incombente alle sue spalle, perdendosi nella contemplazione di quella scena, come fosse stata immortalata in un quadro.
Il piccolo Dio aveva scrutato l’entrata della Stanza dello Spirito e del Tempo con una certa trepidazione. In realtà, sembrava addirittura timoroso; mentre sua madre, al contrario, aveva negli occhi l’aspettativa e la naturale allegria di chi stava per incontrare un compagno. Quello sguardo, più di ogni altra cosa, sembrò catturare inspiegabilmente l’attenzione del giovane mezzo saiyan, che parve esitare in un’espressione vagamente sorpresa, come se stesse assistendo a qualcosa d’inaspettato. Come trovandosi a osservare quel luogo da lontano, ad assistere a una storia raccontata da qualcun altro, i suoi occhi finirono persino per socchiudersi, appena per un momento, nel tentativo di afferrare un particolare qualsiasi.
Nessuno sembrò farci caso, tuttavia. In quell’istante, di fatto, l’attenzione di tutti era stata calamitata dall’uomo che aveva appena oltrepassato la soglia di quella dimensione. Il tempo era così fragile, infinitamente debole. Quell’aura prepotente che era comparsa dal nulla, squarciando il silenzio di quella barriera temporale come fosse fragilissima, sembrava poter essere percepita anche da chi non ne fosse effettivamente in grado, tanto era folgorante e vitale. Trunks, probabilmente, pensò per un momento che fosse davvero così, a giudicare dal modo in cui il suo sguardo seguì, altrettanto magneticamente, la direzione che avevano preso i volti dei presenti. Quando quell’energia si propagò nella sua mente, dispotica e imperiosa, annientò in un istante quella strana sensazione, come l’avesse fagocitata assieme agli altri suoi pensieri sommersi.
“Vegeta! Finalmente sei uscito! Com’è andato l’allenamento?”
La voce di sua madre lo colse di sorpresa, ancora una volta inspiegabilmente.
“Già, com’è andata?” Le fece eco Piccolo. L’inflessione con cui aveva pronunciato quella domanda sembrò a momenti sprezzante, così come la sua espressione.
Gli occhi di Trunks si spostarono nuovamente verso quelli di suo padre, mentre si sollevava altrettanto spontaneamente in piedi e si approssimava di un passo nella sua direzione. Nervose, altrettanto sprezzanti, le iridi profonde e cupe del Saiyan avevano ignorato quelle sorridenti e luminose di sua madre e si erano posate invece sul namecciano, silenziose, inducendo il ragazzo a fermarsi e a scrutare nuovamente il resto del gruppo, senza quasi che se ne rendesse conto. Come se quegli occhi avessero posseduto di fatto un’energia concreta, in grado di tenere a distanza la totalità dei presenti, avevano tutti semplicemente accennato ad avvicinarsi a Vegeta, limitandosi piuttosto a restare dov’erano, soltanto dopo aver incrociato uno ad uno quello sguardo. Piccolo aveva mosso qualche passo in più, invece, verso l’ingresso della Stanza, e il modo in cui sosteneva l’espressione immobile del Principe dei Saiyan pareva velatamente una sfida.
“Non sono affari che ti riguardano” fu la risposta glaciale e lapidaria di Vegeta a quella sfida, prima che quello stesso sguardo, divenuto indolente, si posasse su Dende con una simile, gelida intensità.
Trunks esitò di nuovo, sul punto di rivolgergli la stessa domanda del namecciano. Ma quell’esitazione sembrò dettata da una qualche aspettativa, più che da una reale preoccupazione per la risposta che avrebbe ricevuto. L’impercettibile mutamento nei tratti del volto di suo padre, infatti, quel sotterraneo e inavvertibile moto di vera sorpresa, che non aveva avuto che lo spazio di un istante per palesarsi, parve bloccare ogni altro suo pensiero sul nascere. La strana sensazione che aveva provato negli ultimi minuti, da che sua madre aveva compiuto quel bizzarro gesto, bussò proprio in quel momento di nuovo alla sua mente, debole ma insistente, mentre constatava le emozioni più disparate che oltrepassavano i volti dei presenti. Gli occhi di suo padre, quelli del piccolo namecciano e di tutti gli altri sembravano raccontare una storia di cui lui non faceva parte. Una storia di cui poteva essere solo uno spettatore. Una storia lontana.
“C… ciao… Vegeta…” Le parole del giovane Dio furono appena un sussurro, Trunks sembrò udirle a stento, mentre si voltava a scrutare Dende con un crescente desiderio di conoscere.
“Ti ricordi di Dende, vero Vegeta?” proruppe Bulma in una tonalità cristallina, ignorando apertamente l’impaccio del bambino. “Goku ha avuto l’idea di andarlo a cercare su Neo-Namecc e di chiedergli di diventare il nuovo Dio della Terra!” annunciò entusiasta, interpretando il silenzio del Saiyan come una richiesta di spiegazioni. “Non è fantastico?!” proseguì. “Dende ha già ripristinato le Sfere del Drago e Goku è andato a cercarle.”
Ancora una volta, il sorriso di sua madre sembrò colpirlo con una certa intensità, come non lo avesse mai visto e fosse davvero diverso da quello che ricordava. Per un momento, si sentì preda di un insolito senso di straniamento e, per la prima volta, ne fu realmente consapevole. Quella strana sensazione si fece un poco più concreta, più reale, ma Trunks si sforzò per tutta risposta di apparire naturale, probabilmente preoccupato che qualcuno potesse notare quell’espressione vagamente smarrita sul suo volto. Era solo una stupida sensazione, cercò di ripetere a se stesso in modo deciso; e, d’altra parte, chiunque avrebbe scambiato quell’espressione assorta per il flusso di un pensiero distratto. Ma nessuno lo stava osservando. Vegeta, di fatto, aveva risposto silenzioso a quell’entusiasmo con una fredda indifferenza, eppure, tutta l’attenzione del gruppo pareva fosse inesorabilmente sedotta da quello sguardo, acutamente gelido.
“Mio padre dovrebbe averle raccolte quasi tutte, ormai” sorrise Gohan.
Crilin chiosò ancora una volta l’espressione allegra dell’amico con un pensiero spontaneo. “Eheh… secondo me Goku si sta divertendo. Ripensandoci, mi sarebbe piaciuto andare con lui.”
Quelle parole, in realtà, s’infransero in un muro silenzioso di malcelata e ostile irrequietezza; e Trunks non poté fare a meno di notarlo, questa volta, come gli occhi così imperscrutabili di suo padre non riuscissero del tutto a nascondere un sottile ma reale turbamento. Quella strana sensazione, che percepiva ormai sempre più consapevolmente ogni minuto che passava, sembrò suggerirgli sottovoce, in qualche angolo oscuro della sua coscienza, che la logorante insofferenza che traspariva dal volto di Vegeta fosse qualcosa d’insolito e di eccezionale, persino per il Principe dei Saiyan. All’apparenza, quell’uomo intransigente e irremovibile, che riusciva a far tremare di sconcerto addirittura un Dio e ad allontanare le persone con la sola forza di uno sguardo, pareva realmente assente, turbato da qualcosa di diverso, che non fosse l’ostinata, insistente attenzione che continuavano a rivolgergli. Sembrava realmente assorbito in un pensiero doloroso, in una qualche sensazione di disagio. Era questo che stava provando anche lui? Disagio?
Si sentì sprofondare in uno strano silenzio interiore, come se non riuscisse a trovare nemmeno una parola da dire, né un pensiero.
“Beh, insomma, magari non ci serviranno…” fece il punto Bulma, il cui tono allegro non aveva accennato a spegnersi, strizzando un occhiolino in direzione dei due amici e colmando quell’improvvisa assenza dentro di lui. “Ma non si sa mai, giusto?”
“Tsk, non m’interessa.” Vegeta fece per allontanarsi, ma si bloccò in un istante, irrigidendosi, non appena Piccolo lo apostrofò, in apparenza sovrappensiero, con un tono vagamente tagliente. “Fossi in te, non sottovaluterei la cosa, invece.” Lo sguardo del namecciano, posato distrattamente sulle spalle del Saiyan, tradì una certa ostinazione, come se non avesse pensato, nemmeno per un istante, di liquidare la risposta evasiva che l’altro gli aveva dato appena un minuto prima. “Non mi sembri così sicuro di te come quando sei uscito da lì la prima volta. O sbaglio?” puntualizzò con un’inflessione apertamente provocatoria.
Il modo in cui il Piccolo si era rivolto a suo padre sembrò sorprenderlo di nuovo, per un momento. C’era qualcosa, in quello sguardo, che lo rendeva ai suoi occhi straordinariamente simile a quello di Vegeta e, per di più, per la prima volta da che aveva conosciuto suo padre, Trunks sembrò cogliere nell’espressione sprezzante e fiera che questi rivolse al namecciano, voltandosi appena, un sentimento che avrebbe potuto essere persino rispetto, se solo non fosse stato affogato nel disprezzo e intriso di velenosa ostilità.
“Questo lo vedremo” ringhiò sommesso il Principe dei Saiyan.
“Sì, beh. Lo vedremo.” Piccolo replicò abbozzando una smorfia beffarda. “Ma mi sembra proprio che la tua aura non sia aumentata poi tanto, rispetto a prima.” precisò poi con una punta di malizia. “Aveva ragione Goku, a proposito della Stanza. Non è vero?” Quell’ultima domanda ebbe il potere di produrre un fremito, quasi invisibile, attraverso i muscoli tesi del Saiyan, che si voltò definitivamente verso il suo interlocutore e lo scrutò a lungo, in silenzio, evidentemente innervosito.
“O magari ti stai trattenendo…”
“Anche un piccolo incremento però potreb …” Il motivo per cui Trunks sentì il bisogno di intervenire, probabilmente, non fu del tutto chiaro nemmeno a lui. E fu come se sentisse lui stesso di aver articolato un pensiero sbagliato, terribilmente stridente. Le parole gli scemarono in gola, infatti, quasi come avessero il sapore di un fallimento e ne avessero avuto esse stesse la consapevolezza.
“Tsk. Se è quello che credi…” Allo sguardo carico di disprezzo di suo padre e a quello impassibile del namecciano, in cui Trunks sembrò leggere un tacito disaccordo, finì infatti per rispondere come si guardasse in uno specchio. “Beh, ecco…” Ma che diavolo gli era preso?! Perché parlava come se fossero ancora alle prese con i due Cyborg e non con quell’essere mostruosamente potente? “Non volevo dire che non…”
“Ma insomma!” Sua madre ruppe nuovamente quel suo strano silenzio interiore, quella maledetta sensazione, anticipando di un soffio almeno un paio dei presenti. “È ovvio che ce la metterà tutta, è mio figlio no?!” sbottò esasperata. “Sentite, qui stiamo facendo tutti del nostro meglio. Quindi andrà tutto bene, accidenti!”
“Certo, ha ragione Bulma. E poi mio padre sconfiggerà Cell, di sicuro.” sorrise Gohan, cogliendo il tentativo di lei, che annuì convinta, di rimando.
Crilin si lasciò sfuggire l’ennesimo sospiro sconsolato. “Beh, se non altro vorrei avere il vostro ottimismo” commentò apertamente ironico, ridacchiando tra sé con una buffa espressione imbarazzata.
I volti improvvisamente distesi degli altri, che avevano finito per lasciarsi contagiare dall’allegria del terrestre, s’irrigidirono tuttavia sul nascere di una risata, scemando di colpo in una cupa e silenziosa gravità, non appena Vegeta dichiarò bruscamente che la sua disponibilità al dialogo era giunta drasticamente al termine. “Tsk. C’è troppa gente qui che non fa funzionare il cervello” proruppe contrariato. Dopo aver riservato un’occhiata in tralice ai suoi interlocutori, poi, si allontanò definitivamente a passo spedito, accompagnato dallo sguardo palesemente irritato del namecciano.
“Aspetta, Vegeta!” Bulma lo seguì quasi correndo, ignorando completamente l’espressione truce di lui e lo strano e improvviso silenzio che era appena calato fra i presenti. “Ho portato altre Battle Suit, mi sembra che ne hai proprio bisog…”
Quell’insolita sensazione di essere nel posto sbagliato, spettatore di una storia non sua, lo colse a quel punto di sorpresa, proprio in quel momento, quando Trunks si ritrovò, suo malgrado, completamente catturato dal gesto impercettibile di Vegeta, che rallentò appena l’andatura e si lasciò raggiungere da lei. E non poté fare a meno di ignorarla, questa volta, perché la percepì brutalmente intensa e reale, quando notò, solo un secondo dopo, l’espressione spontanea e serena di sua madre che si rivolgeva al Saiyan e si avvide dello sguardo di lui. Per un istante, esitò nuovamente, preso alla sprovvista dalla sua stessa incredulità.
“Beh, Trunks, che aspetti ad entrare?” La voce di Piccolo lo fece a momenti sussultare, ridestandolo improvvisamente, prima che potesse rendersi conto di che cosa avesse realmente visto in quello sguardo.
“S… sì, certo.” replicò istintivamente, senza pensare. “Tocca a me.” Si sforzò di sorridere.
“Buona fortuna, amico!”
“Buona fortuna!”
“Mi raccomando, non strafare…”
“Grazie! Farò del mio meglio.” Il suo sorriso si fece più intenso, mentre rispondeva ai saluti di Crilin, Dende e Gohan, quasi all’unisono, e si avviava deciso verso quell’ennesima soglia dimensionale. Il tempo era così fragile, volubile… ormai.
Si voltò solo un istante, a dare un’ultima occhiata ai suoi genitori, istintivamente. Vegeta era ormai di spalle e Bulma continuava rivolgergli parole che Trunks non riusciva a sentire, con la stessa espressione serena. Osservò per un lungo momento la schiena di suo padre; lo stesso sguardo assorto, che ad un occhio attento sarebbe potuto sembrare distante. Solo dopo un momento, notò con la coda dell’occhio che il sorriso di Bulma si rivolgeva proprio a lui, ugualmente affettuoso. La osservò mentre gli faceva un cenno da lontano, agitando una mano, e gli sembrò di udire un saluto, forse un incoraggiamento, che si perse ancora una volta nell’aria. Sorrise con affetto, rispondendo a quel saluto, e incrociò un attimo dopo gli occhi impassibili di Vegeta, che si era voltato appena a guardarlo.
Li incrociò solo un istante, prima di varcare quella soglia. Ma lo scatto della serratura che risuonò sordo, amplificato innaturalmente dal silenzio, e il bianco abbacinante che lo avvolse un istante dopo, sembrarono offuscare in un lampo l’espressione felice di lei e quella immobile di lui. I loro volti sprofondarono fra la nebbia e fu allora, all’improvviso e inaspettatamente, che gli fu finalmente tutto chiaro.
Quando quella foschia abbagliante si sollevò abbracciando i suoi sensi e annebbiò, subito dopo, anche lo sguardo gentile e forte di Gohan, quello beffardo e orgoglioso di Piccolo e quello allegro e onesto di Crilin, sembrò vagare un istante fra quei volti come tentasse di ricordarli. E finì per soffermarsi su quegli occhi buoni… Dende… Un Dio che non sarebbe mai esistito nel suo tempo...
Era stato come essere a casa, ma quella non era casa sua, sussurrarono i due occhi azzurri, scrutando malinconici il deserto candido. E quelli non erano più gli stessi Bulma, Gohan, Piccolo… Vegeta, che conosceva, che aveva conosciuto… che avrebbe potuto conoscere. Proprio a causa sua, del resto; quell’unico scherzo del tempo che lì e in quel momento aveva avuto un senso, eppure non aveva un futuro. E quel bianco abbacinante si avviluppò finalmente attorno al suo corpo, come una calda colata di magma, morbido, velando l’immagine di un bambino in fasce, che ormai non era più lui. Il tempo era una dimensione fragile… e incredibilmente volubile.
Sorrise, pensando allo sguardo di Vegeta, così diverso, che aveva intravisto appena, da lontano, ricordando le parole di sua madre e quelle del suo maestro, che avevano cercato di proteggerlo, eppure gli avevano raccontato sempre e solo la verità. Fu come sentirlo, chiaro e inconfutabile, mentre una voce familiare, che pareva provenire direttamente da quel chiarore infinito, glielo comunicava all’orecchio. Decisa, quasi rabbiosa. Anche lui avrebbe avuto una verità da raccontare…
Poi, chiuse gli occhi e cadde in uno stato di profonda serenità e concentrazione. Quella strana sensazione era completamente svanita, e aveva perso fin troppo tempo prezioso.


Non era da lei abbandonare il lavoro di punto in bianco, specie in un momento in cui c’era così tanto da fare; per seguire un impulso improvviso, poi, una strampalata sensazione apparsa chissà quando e da chissà dove… Beh, accidenti… Il sorriso che spuntò beffardo e ironico le sue labbra, però, all’unisono con quel pensiero, sembrava suggerire che, in realtà, una simile condotta le si addiceva alla perfezione invece, e che fosse intenta piuttosto a farsi beffe delle sue stesse riflessioni. Quel sorriso finì per perdersi altrettanto spontaneamente, tuttavia, in un’espressione inquieta, impaziente, un attimo dopo aver formulato a se stessa quel rimprovero divertito, mentre scrutava il cielo, attraverso il vetro dell’air jet, e si faceva apparentemente assorta in qualche calcolo. Un’occhiata distratta al navigatore ebbe l’effetto di inspessire per un istante le sottili increspature sulla sua fronte, che si aggrottò in un moto di concentrazione. E quando scorse il Santuario di Dio farsi largo fra le nuvole, bianco nel bianco, quel sorriso ricomparve per un momento, per poi scemare esitante in una nuova, vaga incertezza. Man mano che l’imponente palazzo si faceva più vicino, quella strana sensazione sembrava, invece, farsi più concreta, più intensa.
Non riusciva a spiegarsi il perché avesse sentito il bisogno di recarsi in quel luogo. Curiosità, forse. Bulma Brief era sempre stata una donna estremamente curiosa, questo era certo. Ma più quei contorni si facevano nitidi, di là del vetro, più sentiva che quell’assurda sensazione avesse qualcosa a che vedere con quegli strani e angoscianti sogni che continuava a fare da giorni, in cui vedeva suo figlio piangere.
Certo, era davvero un’assurdità! Proprio in quel momento, quando finalmente non esisteva più alcun motivo per piangere. Proprio quando, alla fine, non c’era proprio alcun motivo per non essere felici… Ma qualcosa sembrava proprio suggerirle che, per quanto insensato potesse essere, doveva assolutamente farlo. Al diavolo tutto! Doveva seguire quell’impulso improvviso che aveva sentito nel momento in cui Trunks gliene aveva parlato, doveva vedere quel luogo con i suoi occhi; perché in qualche modo, esisteva un qualcosa, proprio in quel luogo, che aveva a che fare con quello che provava in quel momento. Ne era sicura.
La sua espressione determinata, peraltro, pareva confermare quelle convinzioni più che tenacemente; ma, quale fosse il modo e cosa fosse quel qualcosa, in realtà, rimanevano di certo decisamente un mistero, così come il risultato che sperava di ottenere seguendo ciecamente quell’istinto.
Poco male, in ogni caso. Bulma Brief non aveva di certo bisogno di un motivo, per precipitarsi in qualunque luogo le passasse per la mente, o per gettarsi a capofitto in qualsiasi situazione. Non sarebbe stata di certo la prima volta. Eppure, non riusciva a togliersi dalla testa quella sottile, fastidiosa sensazione che, in realtà, in quel caso, un motivo esisteva davvero e che, qualsiasi esso fosse, doveva essere un motivo davvero valido.
Riconobbe subito la persona che, col naso all’insù, la fissava col volto inespressivo, mentre rallentava e planava sull’ampia terrazza. Sorrise, rivolgendosi a lui e un istante dopo a se stessa, mentre scendeva dal velivolo e lo riponeva nella capsula, ripercorrendo involontariamente immagini nella sua memoria che parevano appartenere ad un’altra vita.
“Ehilà!” Salutò con la mano. “Come va? Sono Bulma…”
“Bulma.” ripeté meccanicamente lo strano uomo, interrompendola quasi, senza mostrare alcuna sorpresa. “L’amica di Son Goku. Mi ricordo. Posso fare qualcosa per te?” chiese gentilmente.
“Beh, ecco. Veramente non saprei…”
Si sforzò di continuare a sorridere, colta di sorpresa da un’improvvisa e inaspettata tristezza. Quel palazzo era esattamente come l’aveva descritto Trunks, così come l’aveva immaginato per giorni, avvinta dai suoi racconti. Tuttavia, Bulma si era sentita invasa inspiegabilmente da un senso di malinconico stupore, nel trovarlo in quel momento così desolatamente deserto e silenzioso. Quella strana sensazione sembrò farsi più intensa, al punto da affiorare appena sul suo volto in un’espressione inquieta, quando incrociò lo sguardo immobile del suo interlocutore, che si era limitato a restare in silenzio. Per un momento, le sembrò di scorgere la stessa desolazione in quello sguardo e la cosa accrebbe il suo disagio. Quella strana sensazione che provava da giorni, da quando Trunks era tornato a casa, era davvero disagio?
“Credo di essere venuta qui semplicemente per curiosità.” Rispose vaga, incerta, sorridendo appena e cercando più che altro di colmare un silenzio che rischiava di diventare opprimente.
“Capisco” annuì l’altro.
“Mio figlio è riuscito a sconfiggere i Cyborg.” proseguì, ritrovando un sorriso più allegro e palesemente orgoglioso, mentre il suo sguardo si perdeva invece rincorrendo un tragitto immaginario; lungo la scalinata, attraverso le colonne, percorrendo il porticato.
“Lo so. È un vero sollievo che sia tornata la pace. Sono felice.”
Fece un passo, istintivamente, seguendo quel percorso astratto come ne fosse sedotta in modo inspiegabile. “Sai, per dire la verità…” esordì sovrappensiero.
Ma non riuscì a terminare quella frase. I suoi piedi si mossero, quasi indipendentemente dalla sua volontà, verso una direzione precisa. L’altro si limitò a voltarsi e ad accompagnarla con lo sguardo. La osservò impassibile per un lungo momento, poi si decise a seguirla, mentre si avvicinava all’edificio lasciando in sospeso ciò che stava per dirgli.
“È quella la Stanza dello Spirito e del Tempo?” domandò Bulma con una certa apprensione, voltandosi appena verso di lui e indicando una massiccia porta di legno.
“Sì, ma non ti è permesso entrarci.” puntualizzò in tono piatto il suo interlocutore, senza manifestare alcuna emozione.
“Volevo… solo vederla.” Quelle parole le uscirono di bocca in un sussurro, come se quella sensazione, sempre più intensa, avesse appena risposto al suo posto a una domanda che si era rivolta lei stessa, giustificando un pensiero che continuava a fluttuare inconsapevole nella sua coscienza da giorni. E quell’uomo così innaturalmente impassibile, dallo sguardo magneticamente inespressivo, sembrò persino esitare, quando la donna appoggiò senza alcun preavviso entrambe le mani sul legno e avvicinò l’orecchio al battente, come fosse in ascolto.
“La stanza è vuota.” si limitò a spiegare Mr. Popo, come se la sua ospite non ne fosse a conoscenza.
“Shhh, fammi sentire!”
Pronunciò quelle parole nervosa, senza rendersene conto, con un’inflessione vagamente impaziente; e rimase in quella posizione, a contatto col legno freddo, per un momento che parve eterno. Poi, nel silenzio assoluto, quella voce affiorò rabbiosa dal nulla, pronunciando il suo nome e quelle parole. E fu un’onda d’urto, un colpo violento che la centrò in pieno petto come una scarica elettrica, improvvisa e potentissima. Sussultò visibilmente, per la sorpresa e per il dolore, impiegando tutta la forza che aveva per non scostarsi istintivamente dalla parete di legno e mantenere un contatto, uno qualsiasi, mentre un brivido le attraversava la spina dorsale.
“Va tutto bene?” le chiese l’uomo, notando lo strano fremito che l’aveva attraversata.
Ma lei rimase per un lungo momento immobile, nel tentativo di arrestare le palpitazioni del suo cuore, che intense parevano risuonarle fino nella mente. Si allontanò solo in un secondo momento, visibilmente a malincuore e per un attimo confusa, in preda ad un’emozione palpabile. Con una mano ancora appoggiata sulla porta, leggera come una carezza, si voltò verso l’altro e annuì sorridendo appena, mentre sentiva che quel calore che le era cresciuto dentro all’improvviso aveva avuto la forza di traboccare.
“Stai piangendo.” Le fece notare lui, come se non se ne fosse accorta.
“Oh, sì…” rispose Bulma schernendosi e asciugandosi in fretta le lacrime. “Che stupida!” Si lasciò sfuggire una risata imbarazzata. “Sarà meglio che la smetta… Vero… Chissà cosa mi è preso?!”
L’altro si limitò a fissarla, ancora una volta senza manifestare alcuna emozione, come potesse ottenere una spiegazione più chiara soltanto scrutandone la figura. La seguì nuovamente con lo sguardo, mentre si allontanava finalmente a passo spedito, verso la terrazza, ancora tremante. Ma chissà se fu solo una combinazione, una coincidenza, che in quel momento Mr. Popo si trovasse a ricordare proprio lui; quello strano bambino, che anni prima era sbucato dal nulla, dopo tutto quel tempo. Lo ricordò proprio come se non fosse passato che un giorno, quel ragazzino cocciuto, che non voleva arrendersi e pareva determinato ad aspettare anche in eterno per vedere Dio, quando, con la sua espressione sbalordita ed entusiasta, aveva esclamato quanto fosse incredibile, mentre lui gli spiegava che è molto più importante sentire che vedere.
Goku non aveva aspettato a lungo, alla fine. Lui, al contrario, avrebbe continuato ad aspettare. E quella donna che sorrideva adesso, invece, nello stesso luogo in cui aveva pronunciato tempo addietro quelle parole, aveva tutta l’aria di qualcuno la cui lunga attesa era finalmente terminata.


FINE




Grazie mille a chi è arrivato fin qui^^.




  
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