La
stava guardando da qualche minuto, l’intensità del
proprio sguardo sul suo
viso, a studiarlo in ogni suo lineamento. Quant’era
bella. La bocca contratta, in quella smorfia arrabbiata che
non era mai così
arrabbiata, perché punteggiata di
imbarazzo, quella sensazione di disagio che le si intrufolava nel
cervello e le
impediva di essere qualcos’altro oltre che arrabbiata.
Si
allentò il nodo alla cravatta. Quant’era
bello. La camicia stirata, ma un po’ più
spiegazzata rispetto al mattino.
Le mani sui fianchi, l’andatura cadenzata, avanti e indietro,
davanti alla
scrivania, gli occhi sempre puntati su di lei. La giacca beige sulle
spalle,
che non toglieva mai. Aspettava che fosse lei a farlo? I capelli tirati
indietro, le occhiaie un po’ accennate, la fronte corrugata.
Da quando aveva
iniziato a catalogare ogni caratteristica del suo volto? Stava passando
troppo
tempo.
«Ha
messo in pericolo la vita di tutti, qua dentro.»
Non
faceva nemmeno più domande: metteva per iscritto
nell’aria, come leggesse un
rapporto.
E
lei era stanca, avrebbe voluto togliersi quella divisa di cui avvertiva
la
pesantezza sulle spalle, rinfrescarsi la pelle e le idee sotto il getto
della
doccia, buttarsi sul letto e dimenticare per quella notte il casino che
era
successo.
«Ma
ormai sono diventate una sua prerogativa, le adrenaliniche irruzioni a
scapito
della sicurezza.»
Aveva
iniziato un’ora prima, senza mai smettere di ripetere lo
stesso ritornello.
«Poi
in procura devo risponderne io.» Si passò una mano
tra i capelli, e finalmente
diede tregua al maresciallo, perché si voltò di
spalle, e ci rimase qualche
istante.
Andrea
ne approfittò per leggere l’ora sul cellulare.
Erano le undici passate, e di
nuovo si vide in camera sua, lontana da lui, oppure con lui, se solo
fosse
diverso, se solo la smettesse di rivolgersi a lei come se la dovesse
mettere
costantemente alla prova.
«È
perché sono una donna, vero?»
«Ma
che dice!» Si voltò di scatto, raggiungendo la
scrivania in un paio di rapidi
passi. Appoggiò i palmi sul pianale di legno, chinandosi
verso di lei, la
cravatta a sfiorare i fogli sparsi.
Andrea
non si sentiva oppressa.
Non
si sentiva in trappola.
Era
solo stanca. E arrabbiata.
«In
questo lavoro non è una questione di sesso.»
«Sembra
sempre di sì, invece.» Andrea rimase a guardarlo,
impassibile.
Cesari
invece socchiuse le labbra per ribattere, ma ne uscì solo
aria silenziosa.
Entrambi
sapevano che era lei ad avere ragione, e ad avere ragione di essere arrabbiata.
Qual è la mia colpa, dottore?
Avrebbe
dovuto trascorrere la sua serata libera a leggere un libro, mesi prima,
ecco
qual era il problema.
«Ci
vediamo domani» Cesari sveltì il congedo.
Perché
così in fretta?
«Ho
ragione allora.»
«Ho
forse detto questo?»
«Quando
ho ragione finge di avere altro da fare.» Andrea si
alzò dalla poltrona e fece
il giro della scrivania, percorrendone il bordo con le dita.
«Ha paura di
parlarne?»
«Sono
solo arrabbiato, e non vorrei pentirmi di quello che potrei
dirle.»
Io, sono arrabbiata.
Cesari
rimase con la mano a mezz’aria, fino a pochi attimi prima
pronta ad afferrare
la valigetta stesa su una delle poltroncine.
«E
io sono stanca, però-»
«Mi
spiega cosa vuole?» Questa volta aveva gridato, e
automaticamente lo sguardo
della Sepi raggiunse la porta, come ad assicurarsi che fosse chiusa. Sapeva che era chiusa. Ma la voce di
Cesari si era alzata troppo.
Fece
un passo verso di lei, sufficiente a chiuderle la visuale della porta,
nel
contempo via di fuga e ragione di intrappolamento.
«Vorrei
che si rendesse conto che essendo a capo di questa caserma sono in
grado di
gestire le azioni che organizzo con i miei uomini, e ad assumermi le
responsabilità se qualcosa prende una brutta
piega.»
«Una
brutta piega? Quella gente era armata! Lo sapevate questo,
sì?»
«Lo
avevamo messo in conto.»
«In conto.»
Cesari
era più alto di lei. Era un dato oggettivo. Tutti potevano
osservarlo. Il dottor Cesari supera il
maresciallo Sepi
di dieci centimetri abbondanti. Da così vicino,
però, sembrava molto più
alto.
O
forse è perché era solo arrabbiato.
Lui
però non aveva messo in conto
che
avrebbe dovuto lavorare con quella donna.
Quella
donna che non avrebbe dovuto più rivedere, quella donna la
cui pelle l’aveva
conosciuta sotto la luce delle candele. Quella donna troppo bella,
anche
adesso, anche stanca, anche i capelli non più in ordine.
Andrea
si appoggiò alla scrivania, le dita contratte ad afferrarne
il bordo.
Cesari
la seguì, con gli occhi e coi passi.
«La
prossima volta mi avverta prima di ripetere una simile
sciocchezza.»
«Il
cellulare, il cellulare non prendeva» farfugliò
lei.
«Il
mio o il suo?»
Non
lo sapeva più.
«Poteva
morire, lo sa, sì?»
«Non
siamo in un’aula di tribunale, non sta facendo un
controinterrogatorio, la
prego, smetta di urlare o sveglieremo tutta la caserma!»
alzò la voce anche
lei.
«Lei
non aiuta in questo senso.» Sorrise.
«Se
lei grida alle persone, anche le persone saranno portate ad
url-»
Cesari
aveva sorriso. Stava ridendo? No, solo… era una smorfia
fatta a sorriso, o un
sorriso non riuscito, o una mal nascosta intenzione di prenderla in
giro.
«Continui.»
«Ad
urlare contro di lei.»
«Lei
ha imparato presto a farlo.»
«Vorrei
non averne le ragioni.»
L’intensità
delle voci di entrambi si era chiaramente ridotta.
Andrea
si passò una mano sul viso, come a reprimere
un’espressione, o solo per trovare
qualcosa da fare pur di non guardarlo.
E
come riuscirci?
«Se
è ancora qui a farlo è solo merito della
fortuna.»
«Allora
escludiamo a prescindere che possa essere stata la bravura mia o dei
miei
colleghi.»
«Se
non le hanno piantato una pallottola…»
«Lei
non vede l’ora che succeda.»
«Ma
che dice.»
«Non
stiamo parlando d’altro. Di come sarebbe potuta finire se. Ma sono qui, e lei avrà
altri mille motivi in futuro per
prendersela ancora con me. Ne è felice?»
«Non
immagina quanto.»
Avrebbe
voluto alzarsi in piedi, ma l’equilibrio precario sul bordo
liscio della
scrivania e la figura di Cesari di fronte a lei, ad una distanza
così… – da
quanto tempo erano così vicini? – le impedivano di
muoversi. Finì tutto in un
attimo, quando occhi braccia e piedi e il tappetto che si
attorcigliò e Cesari
a sorreggerla dietro la schiena, teso a spostare il peso verso la
scrivania su
cui si faceva forza con l’altra mano per non lasciarsi
trascinare indietro dal
tappeto che continuava a scivolare.
E
poi piantò i piedi sul pavimento, e Andrea
picchiò la schiena alla scrivania, e
Cesari il fianco, e fu di nuovo silenzio, Andrea stretta a lui, e
Cesari
stretto a lei, a sorreggersi a vicenda in equilibrio precario, fisico o
di
cuore non era lecito saperlo.
«Sta
bene?» le chiese Cesari.
«Me
lo chiede adesso?»
«Quando
avrei-» s’interruppe, e poi ricominciò
dal principio. «Come sta, maresciallo?»
«Ho
avuto paura» la sua voce tremava, e nessuno dei due voleva
muoversi, perché non
voleva che a spostarsi fosse l’altro. Paura di adesso, paura
prima, paura di
avere paura di avvicinarsi di più, o di allontanarsi il meno
possibile. «Ma
adesso è finita.» Fece per tirarsi su. Non poteva
durare per sempre.
«Stava
per farsi molto male, lo sa, sì?»
«Mi
spiace averla coinvolta.»
«Sono
già coinvolto abbastanza, lei che dice?»
Poi
accadde una cosa.
Cesari
sorrise, questa volta davvero.
Andrea
si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, anche se non
le dava davvero
fastidio.
Ciò
che le dava davvero fastidio era la
voglia di sorridere che aveva con lui.
Appoggiò
le mani sulle braccia che la stavano ancora avvolgendo, non sapeva se
per
indicargli di allontanarsi, o solo per ricordare come fosse toccarlo.
Non si
erano più sfiorati, da quella notte.
«Buonanotte,
maresciallo.»
Andrea
osservò e memorizzò gli spostamenti di Cesari,
che evitò il bordo arrotolato
del tappeto, afferrò la valigetta, e sostò
davanti alla porta dandole le
spalle. Aspettava un saluto anche da parte sua? O la richiesta di
aspettare,
ché ancora non si erano chiariti, ma era anche tardi, quindi
avrebbero dovuto
rimandare al giorno dopo, e quando si sarebbe presentato in caserma?
Perché al
mattino avrebbe dovuto sistemare tutte quelle scartoffie e quindi forse
il
pomeriggio sarebbe stato meglio.
«Grazie,
dottore.»
L’assenza
di ogni rumore le permise di ricevere in risposta un sospiro, o un
mugugno.
Forse non era più così arrabbiato.
Di
certo lei lo era eccome, perché avrebbe voluto esserlo,
quando invece l’unico
sentimento che in quel momento provava non somigliava proprio per
niente alla
rabbia.