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Autore: Seth_    13/05/2016    1 recensioni
Dal testo:
"Lety aveva parlato di come le cose fossero rimaste le stesse anche durante la mia assenza. Di come tutti si erano fatti una ragione del mio improvviso trasferimento. Compreso lui.
Lui, che credevo disperato per la mia perdita, ora stava con una ragazza che nessuno aveva mai visto prima d’ora. Si chiamava Thaira, e secondo la mia "amica", non mi faceva onore. Diceva che si aspettava di meglio, del resto Victor, aveva sempre puntato in alto. A detta sua, lui aveva trovato me, e mi aveva presa. Senza nemmeno chiedere il permesso.
Io smisi di ascoltare a quel punto. Non credevo ad una sola parola di ciò che diceva, ed allo stesso tempo,mi sembrava troppo vero perfino da far male. Sapevo che lui lo avrebbe fatto, prima o poi, ma avevo sempre nascosto a me stessa il perché. Ora mi era chiaro.
Io non ero abbastanza.
E non lo sarei mai stata."
.
.
.
"And everything you love will burn up in the light
And every time I look inside your eyes
You make me wanna die"
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Castiel, La zia/La fata, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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Show me all the things that I shouldn't know.

 
"E il fulmine si vanterà della sua opera."
Bill Manhire
 
 
 

Alzai un sopracciglio incredula. 

Forse avevo sentito male, forse non avevo capito bene cosa aveva detto.

Forse avevo ancora della schiuma di sapone nelle orecchie.

Sbattei più volte le ciglia, focalizzandomi su chi avevo davanti. 
Uno come lui poteva davvero fare una cosa simile? Poteva davvero dire una cosa simile?

Forse era possibile, forse era solo la mia depressione a parlare. Forse ascoltare musica triste, rintanarmi sotto le coperte, e cercare di non piangere su vecchi ricordi mi stava rovinando.

Certo, era sicuramente quello.

Chiunque era capace di fare quello che stava facendo lui, chiunque poteva farlo, perfino io, Joe e Victor. Chiunque poteva svegliarsi una mattina e decidere di farlo.
Sì, e allora perché sembrava così strano?

Suonava come una canzone già sentita, bellissima, di cui ricordi le parole, ma ti sembra strano ricordarle.

- Ne sei sicuro? - gli risposi togliendo la cuffietta dall’orecchio. Lui assunse un’espressione piuttosto normale, prima di alzare le spalle.
- Non te lo chiederei, altrimenti - disse lui togliendosi la cuffietta e spegnendo la musica dal telefono.

Rimanemmo a guardarci per un po’, seduti sul letto, io con le gambe incrociate, i capelli ricci sciolti che solleticavano la pelle nuda delle spalle, e le mani a tenere dei fogli spiegazzati. Castiel aveva la schiena appoggiata al muro, il telefono in mano, e la bustina del tabacco nella tasca, che lentamente, tirava fuori.

- Non puoi fumare in camera mia - gli dissi. Lui sbuffò. Prima di dire che allora saremmo andati fuori a fumare. Annuii, dicendogli che mi sarei vestita prima. Aprii l’armadio, quindi, e tirai fuori una camicia a quadri, che legai alla vita, nel caso avesse fatto freddo ed avevo preso un paio di jeans un po’ larghi. Li gettai sul letto, e lo guardai
- Dovrei cambiarmi -

Castiel alzò lo sguardo su di me, poi sui pantaloni, infine sorrise malizioso.

- Non vuoi cambiarti davanti a me? - disse. 

Io sorrisi maliziosa, e lo guardai alzando un sopracciglio in segno di sfida. Non avrei mai perso contro di lui.
- Ti piacerebbe - sospirai poco lontana dal suo viso.

Ricordavo quanto faceva male, era straziante.


Il suo viso a pochi centimetri dal mio, il suo fiato caldo, che iniziavo a non sopportare, il suo sguardo freddo.

Come potevano due occhi azzurri trasmettere un tale gelo? Nemmeno i miei erano così freddi quando ero arrabbiata, e pensare, che lui mi stava solo chiedendo come stavo.

Mi alzai, guardandolo con più finta sicurezza potevo inscenare, mentre annuivo 
– Sto bene - risposi, tenendomi una mano sullo stomaco. Non faceva poi così male, gli dissi.
Era straziante, pensai.
- Chi cazzo è stato?? - chiese lui rabbioso dandomi le spalle improvvisamente. 
Faceva male. Cazzo, se faceva male. 
Non lo guardai direttamente, fissai il vuoto nella sua schiena muscolosa, i muscoli tendersi.
- Allora?? Chi cazzo l’ha colpita così forte? - chiese lui. Io sospirai, girandomi per andarmene. Il mio piano era andare verso gli spogliatoi, fare finta di niente, dire che non era poi niente, se mi avesse interpellata. Fargli credere che stavo bene, dopotutto, era stato solo un colpo leggermente più forte degli altri.
Joe mi prese per il braccio strattonandomi forte. Era stupido, si lamentava che qualcuno mi facesse del male, quando lui era il primo a farlo. Mi sentivo ridicola. Stavano guardando tutti. La puttanella di Joe, era stata colpita, ed ora qualcuno avrebbe dovuto parlare, qualcuno avrebbe dovuto pagare.

Ma nessuno lo avrebbe fatto.

Nel branco, si è più forti, si ha il sostegno di qualcuno, si è parte di qualcosa, ci si sente più forti. 

Ci si sente diversi.

Io non mi sentivo diversa.

- Dimmi chi cazzo è stato! - disse lui. Lo fissai negli occhi, ignorando quanto stesse facendo male, quanto mi sentiva strano sentire il mio braccio pulsare.
- Non lo ricordo - dissi, mentendo. Lunghi capelli neri, raccolti in una treccia, occhi nocciola, sorriso colpevole, sopracciglia aggrottate. Un’espressione vittoriosa, lunghe unghie sporche di pelle e sangue. Fango, sotto le mie unghie. Avevo stretto un po’ troppo forte il tappoeto sotto di me.

Ora era tutto strappato, mentre mi tirava, avevo sentito pezzi di me staccarsi.

- Mi prendi per il culo?? - strinse più forte, se possibile. O forse ero io che mi sentivo sempre peggio. 
Eccola, la sensazione di capillari che si spezzano. Con la stessa facilità di come si spezza la venatura di una foglia. Fa lo stesso rumore. Ed anche se non lo si sente. Lo si avverte. 
– Ma dove cazzo credi di essere?? - Non lo so.

- Ora ti mi dici chi è stato, e risolviamo la cosa. - sibilò lui. Alzai la testa. Quando la avevo abbassata? Perché con lui era sempre una gara a chi si faceva più male? Perché non potevo io fare del male agli altri senza soffrirne?
Come facevano gli altri? Perché provocavano così tanto dolore senza ricevere niente in cambio? Perché succedeva solo a me?
- Fault, sei viola ovunque. Come cazzo credi di risolvere la cosa? - disse.
- Chiamerò un’amica, e mi farò ospitare. A scuola nessuno farà domande perché coprirò i lividi! -

Io starò bene. Pensai. 

Starò bene quando la smetterai di farmi del male, quando la smetterai di essere così ‘male’ per me. Perché sei tu il mio problema principale. 

Io e te, non dovremmo nemmeno guardarci in faccia.

Perché per te è facile ferire.
Per me no.

- Le diresti di questo posto? A lei lo spiegheresti come ti sei ridotta così? - chiese Joe.

Cosa avrei dovuto fare? Mentire anche a lui? Ancora? Mi volevo davvero così male? 

Ma cosa avrebbe fatto più male?

- Sì - risposi. 

Sentii qualcuno trattenere il fiato, qualcun altro inveire contro di me. 

Sapevo che qualcuno mi stava già maledicendo, e che qualcun altro stringeva i denti, sentendosi in qualche modo tradito. 
- Lo sa già. - dissi. 
Era vero, lei lo sapeva, lei non mi avrebbe mai fatto del male, non mi avrebbe mai tradito.

Non come io avevo tradito loro.

- Traditrice!- urlò Jasmine in mezzo alla folla. 

Quegli occhi nocciola, quei capelli legati in una treccia..

Joe mi mollò il braccio strattonandomi, ed io mi tirai indietro, andando verso gli spogliatoi. 
Verso l’uscita.

Un uscita talmente finta, che ricordava più una porta dipinta su un muro. In trappola, come un topo. Stavo andando verso un altro muro impenetrabile. Cosa c’era fuori dal muro? Chi mi stava aspettando? C’era qualcuno che mi aspettava? 

Joe iniziò a parlare ai membri del branco, alcuni venivano rassicurati, altri venivano calmati.
Scoppiò una rissa, che lui placcò.

Sentiva freddo. Si sentiva tradito anche lui.

Come ci si sente, quando stai andando in fiamme, ma la tua pelle si rizza come venuta a contatto con il ghiaccio?
Brucia uguale, vero?


- FAULT! - mi chiamò Joe, io mi girai su un piede, voltandomi velocemente verso di lui. E se mi avesse attaccata? Lo avrebbe mai fatto? 
A pochi passi da me, lui non dava segno di non volerlo fare. Mi avrebbe caricata partendo da un solo e veloce passo, immaginavo. Ma mi tradì con quell’espressione contrariata. 

- Non voglio un’altra mocciosa sulle spalle. - disse. Gelai.
- Vai alla tana, ne parliamo dopo - sbrigò con un gesto della mano. 

Io annuii, accelerando il passo.

Arrivata agli spogliatoi girai a destra, arrivando agli armadietti color acciaio, rovinati dal sudore, dall’umidità, dai colpi subiti.

- Paura del resto? - chiese una voce dal bagno.

Lei.
Occhi nocciola, pelle olivastra, lunghi e grossi capelli neri legati in una treccia.

Chiuse il rubinetto dell’acqua in un lento gesto. Lei era tranquilla. Asciugò le mani sulle gambe coperte dai leggins grigi, lasciando le macchie più scure, come le impronte di una tigre che segna il territorio.

- Io non ho paura di te. - dissi, e non era una bugia. 
Io non avevo realmente paura di lei, o di qualsiasi altra persona. 
Avevo paura di farmi del male, avevo paura che qualcuno mi avrebbe potuto fare del male.
E lo facevano.

Jasmine sorrise, avvicinandosi a me, io me ne andai, velocemente, verso sinistra, infilando la canotta, la felpa, lasciando le garze che mi ero sfilata dalle nocche sulla panca.
Non era mio compito pulire, il mio compito, per quel momento, era andarmene più velocemente possibile da lì.

- Ma.. Scappi? - ridacchiò la ragazza, io scossi la testa. 

No, il mio orgoglio avrebbe volentieri lasciato cadere lo zaino a terra, la giacca, anche la maglia, e sarei rimasta in piedi, a lasciarmi picchiare, a mostrargli che non sentivo niente di quello che lei mi stava facendo, che non sarebbe mai stato niente, il suo dolore, rispetto a quello che stavo sentendo dentro.

Ma i miei ematomi avevano il controllo delle mie gambe, camminavo, senza sapere dove avevo intenzione di andare, ma ogni posto sarebbe stato lo stesso, uguale, terribile. Ed io ne avevo abbastanza.
Mentre la testa mi imponeva di rimanere e combattere, il mio corpo strisciava verso un’uscita dipinta sul muro. Sospirai pesantemente, mentre, al contrario, velocemente aprivo la porta d’uscita.

E scappavo.




Sbattè più volta le ciglia, io anche.

- Ma stai bene?- chiese lui, annuii, allontanandomi lentamente.

No.
Per niente.
Come potevo stare bene? Io non stavo bene. 
Stavo affogando, ancora, non riuscivo ad uscire da quel buco in cui potevo ogni cosa sopra di me. Intrappolata, non potevo raggiungere le cose che vedevo, ma mi tormentavano.
Mi stava esplodendo la testa.
Aiutami.
Ti prego.


Indicai la porta con il pollice. 
- Aspettami di sotto, arrivo in un attimo- dissi mentre prendevo i pantaloni in mano e mi sedevo sul letto, sospirando. Castiel si alzò dal letto, senza dire una parola, ed uscì dalla stanza, proprio come avevo detto. 

Si girò una sola volta, a guardarmi, lo potevo vedere dal riflesso sulla finestra, ma non volevo girarmi, e guardarlo davvero. Non disse una parola, si girò, e chiuse la porta dietro di sé. Forse, mi dicevo, era meglio così.

Joe chiuse la porta della sua camera passandosi una mano fra i capelli, ci mise un po’ a girarsi, prima di guardarmi. Io chiusi gli occhi, sedendomi sul suo letto. Tremavo tutta, più che per la paura, per il dolore, ma avevo deciso di ignorarlo per un po’.

Joe si parò davanti a me - Guardami - disse alzandomi il mento con la mano. 
Io alzai un sopracciglio, spostando lo sguardo verso destra. I suoi trofei. Lui era un tipo da esibizione bello come il male, forte come un eroe.. peccato, mi dicevo, avesse un pessimo carattere ed una predisposizione malata per l’illegalità.

- Che ho fatto stavolta? - risposi acida, noncurante. Non che non sapessi ‘cosa’ avevo fatto, cosa avevo lasciato fare… ma volevo indisporlo un po’. In quel momento, non me ne importava assolutamente.

- Tu? Niente, è questo che mi preoccupa. - 
- E da quando ti preoccupi per una mocciosa? -

Joe lasciò il mio mento. Io mi sdraiai sul suo letto. Le sue parole avevano fatto male. 
Molto più male di quello che mi sarei dovuta aspettare. 

Io ero fidanzata, giusto? Perché le parole del mio capo mi ferivano così tanto? Forse ero solo paranoica, ma mi sembrava, che Joe fosse sul punto di esplodere, di fare una cosa che non avrebbe mai voluto fare.

Scoprii che avevo ragione, pochi minuti dopo.

Joe si sedette accanto a me. 
- Perché mi rispondi così? - chiese fingendosi dolce.
Io non risposi, costringendolo a continuare - Eh? - disse infatti, io sbuffai, sentendo che si avvicinava, spostandomi una ciocca di capelli dal collo. 

Si mise a baciarlo lentamente, proprio dove sentivo bruciare. Non potevo sapere cos’avevo, ma fingevo fosse un bruciore comune a tutti i lividi restanti sul mio corpo. Mise una mano sulla mia pancia, verso il basso. Joe amava tenere le mani sul mio grembo, ripeteva spesso ‘che era l’unica cosa che di una donna amava davvero’, e per mia sfortuna, io ero quella donna che avrebbe dovuto fargli giocare con il mio grembo. Non che non mi piacesse, quel momento di dolcezza, ma mi stava stretta. Stonava, con la rabbia inquietante che stava provando

-…Non me la sento. - dissi cercando di divincolarmi. 
Joe s’innervosì, prendendomi per i fianchi e tirandomi più verso di sè
- Di fare cosa? - ridacchiò. Quella non era una risata. - Vieni qui. -
- No, non mi va.. -

Sentii qualcosa incrinarsi, forse era solo il dolore generale a farmi parlare, ma io davvero, sentivo qualcosa incrinarsi. 
Boccheggiai, prima di capire che mi trovavo a pancia in su, con la mano di Joe a stringere la mia bocca, ed il suo braccio affianco alla mia testa.
Ringhiava,

- Tu non devi dire ‘non mi va’! -

Misi le mie mani sl suo polso, tringendo più forte che potevo.
Alla fine, la mia, era la stretta pari a quella di una farfalla.
Non contavo assolutamente niente.

- Tu non mi puoi comandare. - soffiai, e Joe si chinò sul mio viso.

Faceva male, averlo così vicino.

- Lo sto già facendo. - rispose serio.

Mi divincolai, sentendo le mie guance creparsi.
Quando prendi una farfalla per le ali, non le senti spezzarsi tra le tue dita?

Mi alzai dal letto, allontanandomi, mentre mi massaggiavo la guancia sinistra, quella presa peggio 
- Tu non mi avrai mai. Non sarò mai davvero parte del tuo branco. - dissi. 

Joe mi fulminò con lo sguardo. Nessuno doveva parlare male del suo branco, nessuno doveva insinuare che il branco non fosse reale.
Nel branco, ti senti più forte.
E lui aveva bisogno di sentirsi ‘più’ forte.

- E' anche il tuo - sibilò alzandosi lentamente dal letto. 
Si mise seduto, come se stesse aspettando qualcosa da me. 
Un momento di debolezza, un momento di tristezza.
Arrendevolezza.
Ma con lui non mi sarei mai arresa.
- No. - sibilai.

Silenzio.

Joe stette in silenzio, alzandosi dal letto e prendendo la felpa azzurra appoggiata alla sedia. 
Se la infilò velocemente, andando poi a recuperare le scarpe sotto il letto.
- Vestiti. Ti porto a casa. -

Strinsi i pugni, recuperando velocemente le scarpe ed infilandomele, superandolo 

- Non sei costretto. - biascicai accelerando il passo.

Joe lanciò qualcosa a terra, io mi girai, sorpresa dal rumore, da quel gesto. Era in piedi, con i pugni stretti, lo sguardo freddo, acceso dalla rabbia. Indicava la porta, con gesto di sfida.

- ALLORA VA’! - sussultai, facendo un passo indietro, mentre lui diventava livido di rabbia. 
I suoi occhi erano inquietanti, parevano vibrare, le iridi erano piccole e pungenti, le vene sul braccio erano in rilievo, e salivano sul collo, sulla tempia. 

-VATTENE!- urlò ancora. 

Io alzai la testa. Sentendo gli occhi farsi lucidi, le guancie diventare rosse. 
Avevo paura, non l’avevo mai visto così arrabbiato. Joe aveva un pessimo carattere, questo lo sapevano tutti, ma con me non si era mai arrabbiato. In mia presenza, Joe era sembre stato controllato, aveva sempre cercato di essere l’angelo del paradiso che tutti dicevano fosse. Ma quell’angelo, era caduto molti anni prima. Joe fumava di rabbia, ed io non ero in condizione di fronteggiarlo. Forse non lo sarei mai stata..

Scelsi di scappare, ancora.

Avevo certamente paura delle conseguenze, della rabbia di Joe. 
Avevo paura si mostrasse per quello che i maschi del branco dicevano che fosse.
Io non sarei potuta mai resistere.
Girai i tacchi, e camminai, aprendo la porta della sua camera e sbattendola dietro di me. 

Dopo quel gesto.
Corsi.

Il nostro primo, vero, litigio.
La prima volta che mi era stato permesso di andarmene. 
La prima volta che davvero me ne ero andata.

Però, non mi aspettavo fosse così, volevo essere felice, mentre attraversavo la porta della palestra, mentre venivo illuminata dalla luce dei lampioni, delle macchine, delle stelle che quasi non si vedevano.

Come la mia figura nella notte, le stelle non si vedevano.
Però, al contrario, le mie lacrime sì.

Perché faceva male? Perché soffrivo di quella liberazione? Perché stavo piangendo? 

Avevo un sacco di domande da pormi, e tutte finivano con quel nome ‘Joe’.
Avevo paura di lui, ma allo stesso tempo, stargli lontana, mi rendeva triste.

Mi rendeva triste che lui non fosse più il ragazzo controllato e gentile, e mi faceva paura questo lato di lui che non conoscevo.
Credevo di conoscerlo bene, ma evidentemente, lui conosceva meglio me.

Joe.



Mi presi la faccia tra le mani, cullandola lentamente, cercando di tranquillizzarmi. 
Perché Castiel mi faceva quell’effetto? Perché mi ricordava lui?
Mi distesi sul letto, inspirando a pieni polmoni.

Era strana quella somiglianza, quel modo di fare, quelle parole, quelle strane e dolci abitudini. Sospirai pesantemente, che anche Castiel fosse come Victor? Che anche lui stesse nascondendo qualcosa di brutto, che mi avrebbe spaventata?

Ero stanca di avere paura, in realtà, ero stanca un po’ di tutto. 
Anche a Le Havre, i ricordi mi tormentavano. 

Forse, mi dicevo, era ovvio. 
Cambiare casa, città, cambiare anche nome magari, non avrebbe cambiato essenzialmente niente. 

Perché non potevo cambiare la mia testa. Non potevo cambiare quello che c’era dentro

Ero solo una stupida ragazzina che cercava di fare l’adulta, giocavo con i grandi, senza sapere cosa stessi facendo davvero. 


Alla fine, la mia vita, era riassunta in quella citazione che avevo ritrovato pochi giorni prima nel testo di scuola: “un vaso di terracotta tra vasi di ferro”.

Scoraggiata ancora, mi alzai dal letto, spogliandomi velocemente, ricordandomi che qualcuno mi stava aspettando appena fuori da casa mia. Era stato un gesto molto carino, il suo, ed io per ricambiare lo stavo facendo aspettare.

Castiel era seduto sui gradini dopo la porta. 
Aveva la sigaretta fra le dita, guardava la strada dopo il giardinetto, poi, la sigaretta spariva dietro la sua testa.

Mi sedetti affianco a lui, stringendo fra le mani un proiettile affilato, vecchio, ma ancora lucido.
- E' un proiettile? - chiese lui indicandolo con la sigaretta, mentre sbuffava fumo grigio. Io annuii.

Piangevo per strada come un’idiota, pensando a quanto facesse male, non a quanto stessi male davvero.

Perché alla fine è questo il dolore, assillante, stupido, pensieroso, atroce. Potrei trovare un milione di aggettivi per descriverlo, tutti, farebbero pensare a qualcosa che ti chiude, come una campana di vetro. 

Ti isola dal mondo esterno. 
E c’è silenzio. 
C’è così tanto silenzio che sembra che la testa stia per esploderti. 
Inizi a chiederti quando finirà, quando potrai avvertire altro, qualsiasi altro tipo di altro. 
Andrebbe bene qualsiasi cosa. 

Mi fermai in mezzo alla strada, girandomi, cercando di vedere la macchina rossa di Joe.
Ma la strada, ora, era deserta. Si potevano solo sentire i miei sospiri mozzati, i miei passi sulla strada, i miei singhiozzi radi.

Ma io, di quel momento, sentivo solo il dolore.

Non era come quello al braccio, all’addome, alle gambe…ma faceva male uguale.
Faceva male esattamente come il resto del corpo. 
Dolorante, pulsante. 
Insostenibile. 

C’era qualcosa, lo ammetto, che mi avrebbe dovuto far capire che non ero sola, che io ed il mio dolore avremmo avuto conforto in un paio di braccia, ma quelle braccia traditrici, avevano le spine. 

Ed io non mi fidavo.
Joe, Victor..

Ne avevo abbastanza.

Ne avevo abbastanza di tutto. 

Della scuola, della famiglia, di quei due.. 

Perché tutti provavano ad avermi? 

Imprigionarmi? 

Io sarei sempre stata altrove. 

Non avevo bisogno di nulla.

Avevo già lei.

La mia migliore amica.
E mi sarebbe bastata lei, per andare avanti all’infinito. Solo pensarla, mi fece sospirare, e trovare le forse per asciugarmi le lacrime, e così feci. 

Mi asciugai velocemente le guance, ed altrettanto velocemente, ripresi a camminare, stringendo nel pugno, un piccolo oggetto di metallo tirato fuori dalla tasca.


Girai il proiettile nella mano.
Volevo si conficcasse nella mia testa. 
A partire dalla tempia destra, fino alla sinistra. 
Doveva conficcarsi, passarla tutta, distruggere tutti i ricordi che c’erano dentro. 

Ogni cosa. 

- Non ricordo come si chiama, però questo tipo di proiettile lo chiamano proiettile fortunato. - spiegai, lui si portò la sigaretta alle labbra
- Che strano- sospirò. 

Io annuii, avevo detto la stessa cosa quando quelle parole erano state dette a me. 
Perché le ripetevo a lui? Non ne ero certa, molto probabilmente, non c’era nessun tipo di spiegazione metafisica. 

Forse ero solo ossessionata da alcuni oggetti. Forse quegli oggetti mi riempivano, e come un bambino con i suoi giocattoli, non potevo semplicemente farne a meno.

Lo guardai per qualche secondo, in silenzio, prima di aprire la bocca per prendere parola. Volevo parlarne con qualcuno, anche se questo qualcuno non poteva sapere nulla di me, del mio passato.

Però volevo che qualcuno lo sapesse.

Non che fosse importante, emozionante, fenomenale… Non avevo mai brillato in niente, e le mie sventure non erano nemmeno state mai così disastrose, da meritare di essere raccontate.

Ma volevo farlo lo stesso.

Castiel mi ammonì con lo sguardo, io inarcai un sopracciglio. 
- Non dirmelo. - disse spegnendo la sigaretta vicino al suo piede -non dirmi chi te l’ha dato. - spiegò di fronte al mio sguardo perplesso.

Mi chiesi il perché, e, tristemente, pensai che forse, non gli importava. Forse avevo davvero frainteso le sue parole, non si era preoccupato per me.

- Non voglio che tu ti metta a piangere mentre lo racconti.- disse lui ad un certo punto, io sbuffai, ridacchiando.

- Io non piangerei mai per una cosa simile. - mentii, forse, ripensandoci, non era troppo una bugia. 

Avevo già pianto, abbastanza, credevo di averne abbastanza. 
Di non poterlo fare più. 
Quindi, continuai, sollevata da quella confessione. 

- Grazie, per avermelo detto, prima-
- Cosa? -
- Che sei venuto perché eri preoccupato per me. - sorrisi, guardandolo.

Spalancò gli occhi grigi, ed iniziò a giocare con la punta dei capelli rossi, che gli nascondevano il volto. Ma potevo vedere, che si mordeva il labbro, che si sentiva in imbarazzo. Che stava arrossendo.

- Non l’ho detto. - bofonchiò, io lo spintonai con il gomito
- Ti… Imbarazza? -

Castiel sembrò riprendersi, leggermente meno rosso sulle gote, con lo sguardo dritto davanti a sé.
- Pff, nei tuoi sogni!- mi rispose. 

Sentii i miei occhi farsi lucidi, e le mie guance tirarsi sempre di più. 
Non riuscivo, in quel momento, a smettere di sorridere.

- Perché ti ha fatto piacere? - mi chiese, io sospirai, guardando il cancelletto marroncino davanti a noi. 
- Perché hai fatto qualcosa. Eri preoccupato e sei venuto a trovarmi. -
- Non ha senso parlare se non ci si può vedere. - si giustificò. -dovremmo tutti usare i sensi contemporaneamente, non un po’ alla volta. - continuò. -che senso ha sentirti al telefono, se non ti posso vedere?-
- Sei una specie in via d’estinzione, Castiel.- quelle parole parvero compiacerlo, perchè sorrise smisuratamente, gonfiando il petto e drizzando la schiena.
- Unico. - disse lui, indicandosi con la mano, come per dare ancora più senso al suo 'unico'. 

Scoppiai a ridere, e lui si finse offeso, chiedendomi perché ridevo di quella ovvietà. 
Sembrava strano, ma ero felice.

Fino a poco prima pensavo a quanto il dolore mi sembrava soffocare, ma poi, con lui, ero tornata a sorridere. Ed erano stati, forse, sorrisi nervosi, parole dette velocemente, un tramonto leggero, come la sfumatura di un acquarello, ma alla fine, eravamo tornati dentro casa, avevamo preparato delle cotolette al limone, delle patate al forno, un sacco di coca cola, e la nostra tavola era pronta. 

Lui aveva, giustamente, fatto dei commenti su quanto fossero dure le mie cotolette, e di quanto lui avrebbe saputo cucinarle meglio. Allora, ridendo, dandoci pugnetti ogni tanto, avevamo cucinato ancora, ed ancora. Fino ad essere completamente sazi.

Dopo una certa ora, mi chiese se quella sera mia zia sarebbe tornata, ed io, un po’ amaramente direi, risposi di no. Mi piaceva quella donna, dal primo momento che mi aveva accolta, fino alla sua partenza per cercare un nuovo lavoro. Inoltre…avevo sempre avuto paura di dormire da sola.

- E così rimarresti a dormire con me? - gli dissi, lui annuì asciugandosi le mani sul canovaccio mentre alzava le spalle, io sorrisi, ringraziandolo mentalmente per essersi offerto, mentre stavamo mangiando.

- I miei stanno spesso via per lavoro, quindi è normale per me stare a casa da solo.. Anche settimane- spiegò Castiel. 

Mi chiesi, come fosse possibile che un ragazzo di diciassette anni potesse stare a casa da solo per così tanto tempo. Non era illegale, o qualcosa di simile? Eppure lui sembrava così tranquillo, rilassato. 

Forse si era semplicemente abituato alla solitudine, o forse non glie ne importava poi molto. Un’altra parte di me, non escludeva l’ipotesi che Castiel avesse un suo branco, che a modo suo, facesse parte di un’altra grande famiglia.

Effettivamente, io non avevo mai scartato l’idea di dover appartenere per forza ad un branco.

Pensai a quanto gratificante fosse la sensazione di dire ‘io ho un branco’ ed a quanto Joe, aveva costruito la sua maschera, il suo ‘io’ su quell’idea. Forse era un’idea malsana, nel modo in cui Joe l’aveva applicata, ma mi convincevo sempre di più, che alle persone, un branco dove rintanarsi, servisse. 

Amici fidati, alleati, una seconda famiglia.

Qualcuno presente giorno e notte, qualcuno a cui non era impossibile niente, pur di proteggerti.
Al contrario, da solo, cosa eri in grado di fare?

- E non hai paura di.. chessò. Ladri, vandali, assassini..? - gli chiesi. 

Castiel masticò bene le mie parole, come se ne stesse cercando un senso. 
Come se uscite dalla mia bocca, dovessero avere un significato più profondo, di quello che sembravano apparentemente.

Mi squadrò per un po’, sorridendo alla fine della sua conclusione
- Hai paura del buio? - chiese sorridendo. 

Io guardai altrove fingendomi scocciata. 
In parte aveva capito. 

Ed anche se una parte di me era dispiaciuta per quella comprensione parziale, l’altra si diceva che ovviamente, lui non poteva sapere nulla del branco di Joe.

- Tsk, certo che no, solo che mi annoio, tutto qui. - mentii
- Invece scommetto che hai paura! - 

Una fastidiosa vocina nella mia testa ripeteva ‘beccata!’ e un’altra rideva di quell’ammissione infantile. Persino Castiel si divertiva dopo quella scoperte. Sbuffai.

- Scommetti male! - ribbattei scocciata dirigendomi verso il soggiorno. Ci eravamo accordati, che Castiel avrebbe dormito sul divano, quindi poco prima, mentre lui faceva i piatti, ero salita a prendere coperte pesanti e cuscini.

Ci sedemmo sul divano, ma non accendemmo la televisione. Forse, eravamo sazi anche per quello.
- Mangi un sacco. - disse lui distrattamente stiracchiandosi – Come fai a non essere grassa? -
- Correzione, io sono grassa. - 

Sì, ero grassa. Ero molto più grassa di quando facevo parte del branco. 
Quanto tempo che non partecipavo ad uno scontro? 
Quanto tempo che oziavo sul mio letto invece di lottare?
Più o meno un anno.

Più o meno da quando mi ero ritirata, per fare contento Victor, per scappare da Jasmine, dalla rabbia di Joe…
Più o meno da quando ero scappata.


Castiel sbuffò sarcastico, talché gli diedi un pugno sul braccio

- Sono una falsa magra! - dissi avvicinandomi a lui mentre appoggiavo le mani sulla sua spalla, ed il mio viso sulla sulle mie mani. Eravamo molto vicini, pensai, ma allo stesso tempo, mi rilassai. Non avevo da stargli lontana, eravamo solo io e lui a casa. Non dovevamo dimostrare nulla a nessuno. E poi…. Avevo bisogno di sentire il calore di un corpo accanto al mio.

Castiel guardava avanti a se, aveva acceso un caminetto, mentre cucinavo le prime cotolette. 
Diceva che quando era piccolo, a casa di suo nonno, ce n’era uno enorme, in giardino, e loro lo usavano per farci le grigliate. 

Io non avevo fatto molte grigliate con i miei nonni, ci avevo passato davvero poco tempo, eppure, abitavano a solo un’ora da casa mia. Mentre lui, a detta sua, prima di morire abitavano con loro.
Mi chiesi perché quando lo diceva sembrava così triste.

- Tu sei una falsa felice, è diverso. - chiarì il rosso. Mi sembrò assurdo.
-..Cosa? - feci per chiamarlo, quando iniziò a parlare lui, per primo
- Ti fingi felice, disponibile, sempre allegra… Ma non lo sei. - disse. –Anche a scuola. Quando aiuti gli altri.. si vede che ti sforzi- spiegò. 

Sentii l’aria venire meno, le mani tremare, la sudorazione aumentare. E mentre una voce, nel cuore, sembrava dirmi ‘è lui, è lui’ un’altra, nella testa, mi ammoniva ‘ricordati’ diceva, ed io, non potevo che sentirmi persa, seduta sul mio divano, a guardarlo.

Quegli occhi così grigi, quelle labbra che si muovevano velocemente, quelle parole che uscivano, aria, che non potevo sentire davvero.

- Aiuti gli altri, nella speranza di essere aiutata, ma nessuno lo farà. - continuò. 

Quelle parole mi parvero talmente tanto assurde, che sorrisi sarcastica. O forse no, non sapevo spiegare quello che provavo, e forse non saprei spiegarlo nemmeno adesso. Ma mi sentivo come se stesse dicendo delle assurdità, che però mi colpivano. 

Che stesse svelando nuove parti di me che non conoscevo? Poteva anche essere, comunque fosse, quelle nuovi parti di me non mi piacevano. Sembravo debole, piccola… insignificante. Ero davvero così?

– Quindi smettila di fare la finta gentile con chi non ti piace. - disse sbuffando. 

Stava chiaramente parlando di qualcuno che non piaceva a lui, ma non avrei mai saputo dire chi, essendo lui un ragazzo dal carattere piuttosto difficile, odiato da principalmente metà scuola. Avrei dovuto ricordarmi questo particolare più avanti: Castiel non piaceva a nessuno

E sebbene lo sapessi per i fatti, a parole, nessuno aveva mai avuto il coraggio di dirlo. Come se si sentissero in colpa. Come se sapessero di essere nel torto.

Senza che me ne accorgessi, eravamo vicini. Le mie mani sulla sua spalla, il suo volto a sfiorare il mio, la sua espressione corrucciata così vicina, da poter contare le rughe espressive del suo volto. La luce nei suoi occhi pareva vibrare, esatto. Castiel vibrava. Era una di quelle rare occasione, per cui chiunque si scioglierebbe. Quell’umanità, nei suoi occhi, quella naturalezza quasi innaturale per lo stereotipo che lui dava l’impressione di essere, era totalmente fuori luogo. Però mi piaceva.

E come un fulmine a ciel sereno, arrivò la rivelazione.
- Altrimenti confonderai le persone a cui piaci.

Silenzio.
Cazzo.

Deglutii a vuoto, sentendo il mio battito cardiaco aumentare, così come la sudorazione sulle mani, che per imbarazzo, si allontanarono fulmineamente dalla sua spalla, aggrappandosi alla superficie del divano. E c’era qualcosa di miracoloso in quell’accaduto: credevo che mai più, il mio cuore avrebbe battuto così forte per qualcuno che non era Victor.

E poi, l’ennesimo fulmine.
Mi era mai battuto così forte il cuore, con Victor?

Non riuscii nemmeno a pensare a quella risposta negativa, che mi spostai da Castiel, tenendo una mano davanti alla bocca.

- Non posso.. - dissi cercando di essere il più convinta possibile.  –io… Sono già fidanzata con un ragazzo… A Parigi.- spiegai. 

Non seppi spiegare il motivo, ma mi sentii morire.

Castiel aprì gli occhi, e li sbattè più volte, cercando di capire se stessi mentendo o meno, ma forse, il mio volto incrinato dal dolore, parlava per me. Cercai di sorridere, forse, avrebbe alleviato la tensione, ma la risposta fu alquanto scioccante. 

Castiel corrugò la fronte, prima di sporgersi in avanti e baciarmi.

E fu il bacio più deludente della mia vita.

Quando ci staccammo, sentii chiaramente il bisogno di baciarlo per davvero. Perché non era possibile che stesse ghignando soddisfatto di una mia reazione positiva al suo test. Non era possibile che si fosse tolto la felpa usandola come coperta mentre si sistemava comodamente sul mio divano.

- Allora sei una pessima fidanzata. -

Lo guardai scocciata, oltre ad avermi ingannata, ora prendeva in giro perfino il mio onore? Non potevo sopportarlo, lo guardai truce assumendo l’espressione più contrariata che conoscessi.
- Come prego?! - squittì senza nemmeno accorgermene. Non riuscivo a controllarmi, ogni fibra del mio corpo tremava oltraggiata dal suo comportamento e dalle sue parole.
- Quale fidanzata per bene vorrebbe mai baciare un altro ragazzo? -

Feci per ribattere qualcosa, ma le sue parole erano maledettamente vere. 
E di fronte ad una verità così lampante, non avevo da ribattere. 
Semplicemente, mi sembrava insensato tutto ciò. Ed aveva ragione.

Perché, semplicemente, non era possibile che mi avesse baciato a lato della bocca, per dimostrare a me, più che a se stesso, che ne volevo ancora. 
Che io volevo lui, e non Victor. 

Che cazzo di mente contorta era? Cosa voleva veramente da me?? 


Non dissi niente, semplicemente, mi alzai indignata dal divano, chiudendo la luce del salotto mentre salivo le scale per accedere alla mia stanza. Non appena aprii la porta della camera, lo sentii ridacchiare una ‘buonanotte’. Sbattei la porta.

Tsk, ormai era un rito farlo, quando ero nervosa.

Mi spogliai velocemente, infilandomi il pigiama e prendendo il mio pelouche preferito, infilandomi sotto le mie coperte, avrei voluto tanto scendere di sotto e picchiarlo, sbatterlo fuori da casa mia a calci, e barricarmi fino a dimenticare quello stupido gesto infantile.

Però, quella notte, la passai a toccarmi l’angolo delle labbra, sorridendo. E come une menomata mentale, più sorridevo, più mi scocciava farlo. E non potevo controllarlo.

Semplicemente, iniziavano davvero a starmi sui nervi. Lui ed il mio stupidissimo sorriso.
   
 
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