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Autore: _browneyes    16/05/2016    1 recensioni
“Le paure superficiali sono facili, la paura del buio che hai quando sei bambino, solo perché temi che un mostro salti fuori dal tuo armadio, è facile.
Sai quando arriva il difficile?
Quando le tue fobie sono radicate dentro di te, quando la tua mente continua a farti rivivere le cose peggiori che ti sono capitate e ti tormenti, perché temi che possano succederti di nuovo, quelle cose.
E forse tu non lo capisci, ma è dannatamente difficile vivere in un mondo che ti sbatte in faccia le tue paure peggiori in continuazione, senza che tu possa fare nulla per impedirlo.
Vivere in questo mondo è come vivere in un incubo e il problema è che non puoi svegliarti."
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Capitolo Dodici.
 

Rottura.
 
 
 
E’ bellissima, lei.
Sono anni che, ormai, Luke lo nota, ma questo non significa che si sia abituato a ciò. ‘Chè esistono quelle cose talmente incredibili che uno non si rende mai conto che queste possano essere veramente reali.
Nirvana Harris è esattamente così, adesso, anche struccata e con i capelli raccolti in uno chignon che cade morbido e disordinato sulla nuca, i vestiti un po’ sgualciti del giorno precedente e l’espressione assonnata in viso. E Luke, vedendola così, manco ci pensa che non dovrebbe essere in quell’appartamento, ma in quello accanto, e non con lei, ma con una ragazza che non è neanche il suo pallido riflesso, una ragazza che non ama.
Nirvana lo guarda, sbatte qualche volta le palpebre per abituarsi alla luce flebile che penetra dalle tapparelle non del tutto abbassate e poi mormora qualcosa che vorrebbe sembrare un “buongiorno”. Poi, senza aggiungere altro, si alza dal letto e sparisce il più velocemente possibile in corridoio, tanto veloce che sembra quasi che stia scappando da Luke, da quel letto, forse dai pallidi ricordi della notte precedente. È ancora scossa per via di questi, ‘chè lei ha toccato Luke; si, è stata una frazione di secondo, ma erano mesi che si sforzava di non avere contatto fisico con nessuno. Certo, Luke Hemmings non è proprio uno qualunque.
Cerca di rimettere apposto le idee e darsi un contegno, Nirvana, mentre si sciacqua la faccia e tenta, senza grandi risultati, di far sparire quell’espressione stanca che ormai la accompagna da un po’ troppo tempo. Sa di non poter rimanere chiusa in bagno per sempre, così si fa forza ed esce, non dopo aver guardato un’ultima volta il suo viso vagamente stralunato riflesso nello specchio. In realtà, era un po’ che non si guardava così bene.
Luke la aspetta, seduto davanti al tavolo della cucina con le mani nervosamente strette attorno alla tazza di caffè fumante che Krista, la coinquilina di Nirvana, gli ha mollato pochi minuti prima di uscire, lanciandogli sguardi enigmatici ed interrogativi di cui lui proprio non ha capito il significato. Si guarda attorno, spostando ripetutamente gli occhi cerulei per la stanza, soffermandosi sui piccoli particolari, come fa sempre ed è così concentrato nel farlo che quasi non si accorge di Nirvana che appare sulla soglia, silenziosa come uno spettro.
Le sorride e la osserva dirigersi verso il frigorifero coperto di calamite colorate e prendere da questo uno yogurt, che non ha intenzione di mangiare; poi lei va a sedersi di fronte a lui, lo sguardo basso di chi non prova altro che vergogna. Lui continua a guardarla e proprio non riesce a capacitarsi che una meraviglia come lei sia proprio lì con lui e che gli lanci qualche occhiata di sottecchi di tanto in tanto.
Si schiarisce la voce, «Stai bene?», chiede poi, incerto, con più preoccupazione nella voce di quanta vorrebbe mostrare, in realtà.
Nirvana alza finalmente lo sguardo dal vasetto dello yogurt, su cui ha rivolto tutta la sua attenzione fino a quel momento, e serra le labbra rosee; Hayden non se n’era mai preoccupato. Poi alza leggermente le spalle esili e deglutisce, «Non sto male». Luke la guarda e vorrebbe che lei capisse che di lui si può fidare, che lui per lei farebbe di tutto, ma lei non ricambia il suo sguardo, lei sfugge come ha sempre fatto.
«Mi dispiace se in parte è colpa mia», mormora.
«No, Luke, tu non c’entri nulla. È che da quando sono tornata qui a Sydney niente sembra andare per il verso giusto e, forse, me lo merito anche. Ero una stronza quando me ne sono andata qui e capisco che Amethyst mi detesti, come Ashton e gli altri», si interrompe un attimo e sospira, «Anche Colleen mi detesta, e lo capisco. E poi ci sei tu, Luke, che sei l’unica cosa bella che mi è successa da quando sono tornata, davvero, ma è complicato. Io sono complicata», parla tutto d’un fiato, tanto che Luke quasi fa fatica a seguirla e a capire quello che vuole dire.
«Non mi importa che tu sia complicata, Nirvana, lo siamo tutti, io per primo. Lascia che io ti aiuti».
Lei scuote la testa e si alza per buttare nella spazzatura il vasetto di yogurt, nonostante questo sia ancora completamente pieno e lei non ne abbia mangiato neanche un cucchiaino. «Non puoi aiutarmi, Luke».
Lui tace, non sa che dire, non vuole insistere, non vuole fare o dire nulla che potrebbe infastidirla; però, allo stesso tempo, muore dalla voglia di sapere, muore dalla voglia di vederla sorridere per davvero.
Continua a stare zitto e, alla fine, è lei a parlare: «Perché hai paura di stare da solo?», mormora. Luke stringe le labbra, non è un argomento che gli fa piacere affrontare, soprattutto non vorrebbe farlo adesso, con lei.
«Più che altro ho paura di rimanere da solo con me stesso. Sono io la cosa di cui ho paura. Ho fatto delle cose di cui non vado particolarmente fiero, è per questo che neanche i miei genitori vogliono più avere nulla a che fare con me», spiega, senza voler dare altre spiegazioni e Nirvana capisce, ‘chè nessuno più lei tende a celare le cose.
«Qualunque cosa sia, io non ho paura di te, Luke», sussurra, piano come un sospiro. Luke le sorride e poi si alza, affiancandosi a lei, che sta poggiata al bancone bianco della cucina, e la guarda, «Vorrei davvero rimanere a parlare con te, ma purtroppo devo andare, sto facendo tardi all’università. Però, se ti va, dopo ci facciamo un giro», la guarda, interrogativo. Nirvana annuisce, «Si, mi farebbe piacere».
Lei lo accompagna fino alla porta e lo saluta con un cenno della mano, rimanendo ferma sull’uscio per guardarlo entrare in casa sua, dall’altra parte del pianerottolo. E, mentre lo guarda, finalmente, sorride per davvero.
Anche Luke sta sorridendo quando entra in casa, sorriso che però è destinato a durare ben poco. ‘Chè seduta sulla poltrona dell’ingresso, con le braccia incrociate e gli occhi rossi di rabbia e di pianto, c’è Colleen, che non gli dà neanche il tempo di salutarla. «Eri con lei. Sei stato con lei tutta la notte, non è vero?».
Lui abbassa lo sguardo, si sente un verme, ‘chè, nonostante non la ami, vuole bene a Colleen e vederla stare male per colpa sua è una cosa che avrebbe preferito evitare.
«Mi dispiace, Colleen, davvero. Se può servire, comunque, in quel senso fra noi non è successo mai nulla».
La bionda scuote leggermente il capo e si alza, Luke nota solo adesso che vicino alla poltrona ci sono due borsoni, ma non dice nulla, lascia che sia ancora lei a parlare. «Non importa. Io me ne sto andando, Luke; questa situazione non fa bene né a me né a te. Credo che sia il momento di farla finita».
Luke annuisce, sa benissimo che è la cosa più giusta e più sana per entrambi, ma non ha mai avuto il coraggio per dirlo lui stesso, ha lasciato che le cose si protraessero troppo a lungo. «Lo credo anche io. Mi dispiace, davvero».
«Anche a me dispiace» mormora Colleen, alzandosi sulle punte dei piedi per stringerlo in un ultimo abbraccio. Si sente già male, ma sa che questa è la cosa migliore, ne è fermamente convinta. Luke la stringe e la lascia un bacio fatto solo di profondo affetto sul capo, tra i capelli fini, «Ti voglio bene, Colleen. Non sparire». La ragazza annuisce e scioglie l’abbraccio, fissando lo sguardo negli occhi cerulei di Luke, «Anche io te ne voglio, Luke. Fatti sentire e buona fortuna con Nirvana, è una ragazza davvero fortunata e spero se ne renda conto presto».
Gli rivolge un ultimo sorriso, poi prende le sue borse, caricandosene una per spalla, ed esce, chiudendo la porta dietro di sé.
Luke è solo e la sua paura si rifà strada in lui. Colleen è l’ennesima prova del fatto che lui distrugga tutto ciò che tocca, che di sé stesso e delle sue azioni non può che avere paura.
 
 
Quando Calum, finalmente, si fa coraggio ed apre la porta della camera di Amethyst, lei gli grida di andarsene, maledizione.
Lui non la ascolta ‘chè, ormai, è stanco di star seduto in silenzio davanti alla porta bianca della camera, aspettando, come ha fatto durante la notte precedente. Adesso ha bisogno di parlarle, di capire, e non può più aspettare. Soprattutto perché, quando Seth è venuto per lei, qualche ora prima, lei l’ha fatto entrare.
Così ignora le sue urla ed accende immediatamente la lampada posata sulla cassettiera accanto alla porta, che produce una debole luce soffusa, che non è un gran che, ma almeno gli permette di vedere qualcosa ed annulla il buio profondo che prima inghiottiva la stanza, tanto che quasi non riusciva a distinguere la sua figura. «Se proprio devi stare qui, almeno spegni la luce» borbotta la mora, dopo aver capito che a Calum, evidentemente, non importa se la sua presenza è o meno gradita. Il ragazzo scuote la testa e si avvicina a lei, tanto che osa addirittura scostare il piumino blu notte per infilarsi sotto questo, troppo vicino a lei.
«Che stai facendo, Hood?» sbotta Amethyst, voltandosi per guardarlo con un sopracciglio alzato e la tempesta negli occhi celesti. Non vuole nessuno lì, figurarsi lui.
A Calum, però, non sembra importare più di tanto, visto che si limita ad alzare piano le spalle ed allunga una mano per rubarle lo spinello, regalo di Seth, che stava stringendo fra le dita esili, per poi spegnerlo sul posa cenere posato sul comodino, dove lo abbandona.
«Questo non risolverà il problema, ‘Meth, qualunque questo sia».
Lei alza le spalle e distoglie lo sguardo, «Lo so, ma cosa lo farà?».
«Parlarne. Parlane con me, sfogati».
«Che stronzata. Tu non parli dei tuoi problemi, perché io dovrei raccontarti i miei?». Calum non dice nulla, non nega niente, ‘chè, per quanto sia bravo a mentire con gli altri, con Amethyst non riesce. Perché, infondo, loro due sono uguali, lei capirebbe. «Adesso non c’entro io. Sei tu quella che sta chiusa in una camera buia da giorni a fumare e prendere pasticche, aspettandosi che questo possa risolvere qualcosa». Amethyst deglutisce, perché lui, ormai, l’ha inquadrata. Ha capito tutto e, adesso la cosa più logica da fare, per lei, sarebbe sbatterlo fuori dal letto e dalla camera, dalla sua vita; però non lo fa, anzi, scoppia a piangere. Calum non la abbraccia con commiserazione, si limita a guardarla e ad aspettare che parli.
«Tutte le persone a cui tengo, in un modo o nell’altro, trovano il modo di ferirmi e di lasciarmi da sola, di andare via da me, tu non sarai diverso. Trovami tu una soluzione a questo» sbotta, con una rabbia nella voce che Calum non le aveva mai sentito prima, nemmeno durante i battibecchi peggiori; è furiosa. Tace e ripensa alle sue parole, capendo che lui non potrebbe dire nulla per rassicurarla o farla stare meglio, forse nulla potrebbe aiutare in quel momento. Così si sporge in avanti per lasciarle un bacio lievissimo a fior di labbra, leggero, per poi mormorare, a pochi millimetri dal suo viso, «Io sono qui, Amethyst, non vado da nessuna parte».
Lei lo allontana, «Stronzate. Prima o poi dovrai tornare a Melbourne».
Calum tace di nuovo, Amethyst ha l’incredibile capacità di lasciarlo sempre senza parole, cosa che in pochi erano riusciti a fare prima. Lei lo disarma, totalmente.
«A proposito», aggiunge la mora, «perché sei andato via?».
«E a te cosa è successo, esattamente?»
Lei, stranamente tace, e così è lui a dover prendere nuovamente la parola, «Facciamo così: io faccio venti domande a te, a cui tu dovrai rispondere sinceramente e poi tu farai lo stesso con me. Okay?»
Amethyst scoppia a ridere, quasi con scherno, non credendo che Calum stia facendo sul serio, «Oh andiamo Hood, mica siamo alle elementari».
Però la mano del moro la stringe lo stesso.
 
 
Michael non risponde alle telefonate, o, almeno, non a quelle di Rain; non da quando hanno litigato, da quando lei non ha fatto altro che farlo sentire peggio di quanto stesse già per conto suo. E Rain che l’aveva sempre capito e tirato su nei momenti peggiori, adesso, è stata quella che l’ha buttato giù. Non capisce perché continui a telefonare, lui con lei non vuole parlare, non ancora, almeno.
Scuote la testa e silenzia la suoneria del cellulare, malamente abbandonato sulla scrivania accanto ad una tazza di caffè lasciata a metà molte ore prima ed una pila di documenti sul nuovo palazzo che lo studio del padre dovrebbe progettare, ma a questi può pensare più tardi.
Sono le quattro e mezzo ed Euphemia finisce alle sei, glielo ha ricordato il giorno prima, ma, forse per un giorno possono entrambi fare un’eccezione; infondo lui è il figlio del capo e, visto che il padre non c’è, la responsabilità adesso è sua, dunque non ha bisogno di chiedere il permesso a nessuno.
Così spegne il computer e si alza dalla sua sedia di pelle nera, che detesta, dirigendosi a passo svelto verso la stanza nella quale, lo sa bene, troverà Euphemia, intenta a parlare al telefono con qualcuno, probabilmente.
Ed infatti questa è proprio la scena che gli si para davanti pochi secondi e una manciata di passi dopo.
Euphemia Scott, brillante quasi avesse luca propria avvolta dai jeans chiari che le fasciano alla perfezione le gambe sottili e un crop top bordeaux scuro che fa contrasto con la pelle chiara, ha appena concluso una telefonata e sospira, scostandosi con nonchalance una ciocca di capelli sfuggita alla coda alta.
«Disturbo?», non appena Michael entra quasi timoroso nella stanza dopo averle fatto questa domanda, lei si volta, indossando all’istante il suo sorriso migliore. Scuote piano la testa, cercando di fingere, più con sé stessa che con Michael, che vederlo lì non le faccia alcun effetto; «No, per niente».
Lo osserva rilassarsi; ha di nuovo i capelli biondi e una camicia rossa a scacchi, con le maniche tirate su che lasciano intravedere i disegni sulle braccia, e se ne sta lì come non fosse affatto conscio del suo essere meraviglioso, quasi come avesse paura d’essere di troppo in quella stanzetta.
«Ha chiamato Ashton, voleva parlare con te», prende la parola lei, avendo ormai capito che lui il primo passo non lo fa mai, nemmeno per iniziare una conversazione sciocca ed irrilevante, è troppo insicuro. Pronuncia il nome del ragazzo con un’evidente nota di fastidio nella voce che nemmeno tenta di camuffare e Michael lo nota ma decide di lasciar correre. Infondo non si conoscono Ashton ed Euphemia, giusto? Perciò perché dovrebbe preoccuparsi?
Si avvicina alla ragazza, che intanto ha aperto la pagina delle mail al computer, «Lo richiamerò dopo, non sono venuto per parlare di Ashton»; con una sicurezza presa chissà dove, poi, poggia la propria mano sopra quella di lei, ancora ferma sul mouse argentato, e la stringe piano, facendo così sì che per Euphemia perda immediatamente importanza ciò che stava facendo fino ad un attimo prima. «Avevamo un appuntamento oggi, sbaglio?».
Lei scuote piano la testa, «No, ma sono le quattro e mezzo, io stacco fra un’ora e mezzo, lo sai».
Michael alza le spalle con un sorrisetto furbo dipinto sulle labbra rosee, «A volte essere il figlio del capo ha i suoi vantaggi, Scott».
Al che la castana si alza, senza nemmeno premurarsi di spegnare il computer o di chiudere i documenti aperti, «Allora possiamo andare».
 
 
Che Ashton sia nervoso lo potrebbe notare chiunque e a Rain, dunque, che lo consce meglio di chiunque altro, non riesce proprio a nascondere il suo fastidio.
Sono le sette e ventisei di pomeriggio e loro sono ancora sdraiati pigramente a letto, si sono alzati giusto per andare ad aprire la porta al fattorino che gli ha portato la pizza alle due, per poi tornare nuovamente a letto.
Ashton ha passato la notte qui, nel letto della bionda; in casa sua non c’è nessuno, ‘chè i genitori sono in viaggio per festeggiare i loro vent’anni di matrimonio mentre Celia ha approfittato della situazione per uscire a divertirsi con gli amici, nonostante sia solamente mercoledì. Rain non è andata a seguire le lezioni all’università oggi, così come Ashton; si sono presi una giornata di vacanza da tutti, eccetto che da loro due. «Cos’hai?», la voce della ragazza, ancora in pigiama, lo scuote dai suoi pensieri, mentre lascia cadere nel bicchiere che un paio d’ore prima conteneva SevenUp la cenere dell’ennesima sigaretta della giornata, ormai quasi finita. Avverte il tocco familiare delle dita leggere di lei fra i propri capelli, mentre gli scosta delicatamente questi dalla fronte; lo sta sfiorando quasi fosse un’opera d’arte, un qualcosa che merita una devozione e una cura inequivocabile.
Il riccio schiude piano gli occhi, lasciando che questi si abituino alla penombra che rega sovrana nella stanza, e lascia cadere il mozzicone della sigaretta finita nel bicchiere poggiato sul comodino bianco, poi scuote piano la testa, attento a non rivolgere il proprio sguardo sulla bionda, «Ho avuto una discussione con Euphemia, tanto per cambiare», sbotta.
«Non pensavo t’importasse ancora di lei», mormora piano Rain, forzandosi quasi a pronunciare quelle parole, come se temesse la risposta che potrebbe ricevere; le sue dita continuano a correre piano fra i capelli castani di lui, intrecciandosi ai suoi ricci, perdendosi in quell’istante che pare durare un’eternità.
Ashton scuote nuovamente la testa mentre si volta leggermente in direzione di lei, facendo frusciare le lenzuola azzurrine che lo coprono fino a circa metà del busto. «Non m’importa infatti, almeno non in quel senso. Non provo nulla per lei, ma mi frustra il fatto che mi abbia lasciato senza una spiegazione quando io le ho dato tutto; è come un chiodo fisso, capisci?».
Rain annuisce piano, senza staccare un attimo il suo sguardo ceruleo dai tratti deliziosi dell’amico, «Si, lo capisco. Non provo più nulla per Isaac, ma quello che è rimasto in sospeso fra noi mi impedisce di lasciarlo andare». Ashton non parla, ma lei percepisce il suo corpo avvicinarsi di pochi centimetri al suo, il suo braccio contro la sua vita sottile e non si ritrae, continua a parlare. «Tu sai che ho paura dei ricordi e di pensare al passato, ma allo stesso tempo non voglio che lui smetta di pensare a me, a quello che si sta perdendo. Ed il motivo per cui continuo a voler portare avanti questa manfrina del finto ragazzo con te non è lui; non è più lui», sottolinea, osservando di sottecchi Ashton, che non s’è perso una singola parola che è uscita dalle sue labbra. Non è più lui.
E poi succede tutto troppo velocemente perché uno dei due possa fermarsi o possa pensarci su, i corpi scivolano inequivocabilmente più vicini, quasi si attirassero, una calamita ed un pezzo di ferro; le labbra si trovano, come se avessero bisogno di quel contatto per respirare.
Succede tutto velocemente e nessuno dei due ha il buon senso di darsi un contegno.
Le labbra di Ashton sono ovunque, sulle labbra di Rain, contro la sua mascella ed il suo collo, le braccia di lei strette attorno alle sue spalle nude, ‘chè la maglietta di lui ormai giace disordinatamente sul pavimento, presto raggiunta anche da quella di lei e dal resto dei loro indumenti.
 
 
«Ciao Nirvana, sono Hayden, ho bisogno di parlare con te. So bene che non hai motivo di volerlo fare, ma ti chiedo semplicemente altri cinque minuti del tuo tempo, se vuoi poi sparirò dalla tua vita per sempre; so che negli ultimi mesi non ho avuto un atteggiamento corretto nei tuoi confronti e non posso tornare indietro, purtroppo, ma credo che meriti delle spiegazioni a riguardo. Se non vuoi parlarne di persona possiamo farlo anche al telefono, come preferisci».
 
Il messaggio si conclude e Nirvana Harris rimane in silenzio, completamente spiazzata, senza sapere, per forse una delle prime volte in vita sua, che cosa dire o cosa fare. Si volta a guardare Luke, seduto al suo fianco, per trovare i suoi occhi che vorrebbero essere rassicuranti, ma, si vede lontano un miglio, sono solamente preoccupati.
«Voglio finire questa cosa, Luke», mormora piano, riempiendo il silenzio pesante che s’era creato; il biondo annuisce, la capisce, se anche lui potesse parlare con i suoi demoni lo farebbe, peccato che questi non vogliano vederlo o rivolgergli la parola. «Verresti con me?», gli chiede in un sussurro.
Luke annuisce piano e le sfiora con delicatezza la mano, che lei non ritrae ma, anzi, avvicina di più alla sua, che stringe piano; il biondo sorride, ma non si muove, non volendo mettere la ragazza a disagio.
Nirvana sospira profondamente e fa partire la chiamata.
 
 
 
 
Writer’s wall.
 

Sinceramente non so da dove iniziare con le scuse per non aver aggiornato per mesi ma, sinceramente, ho avuto veramente un brutto periodo durante il quale ogni volta che scrivevo qualcosa venivano fuori capitoli veramente cupi e pesanti, quindi ho preferito aspettare che passasse. Ad essere sincera non è passato del tutto, ma vedere i ragazzi a Roma l’altro ieri mi ha veramente dato la voglia e la spinta di cui avevo bisogno per rimettermi davanti a questo computer e finire questa storia (ormai mancano pochi capitoli). Cercherò di postare almeno un capitolo a settimana.
Grazie se avete letto fin qui, se avete deciso di lasciarmi una recensione o di aggiungere questa storia fra le preferite/seguite/ricordate.
Ai 5 Seconds Of Summer, che mi stanno rimettendo in piedi.
Alla musica.
A G., perché lei ha capito.
Un bacio,
-Mars
  
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