Ragazze/i,
non temete, A Lexark story NON è abbandonata.
Devo
solo togliermi dalla testa questa storia prima che
diventi pazza.
Non
so se saranno due o tre parti, vedremo.
Spero
davvero tanto che vi piaccia, erano anni che non mi
succedeva di dover a tutti i costi scrivere una storia sorta dal nulla
nella
mia testa.
Insomma, buona lettura e non dimenticate che si tratta di un AU
ambientata ai
nostri giorni.
Northstar.
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La prima volta
che la vedi hai l’impressione di averla già
vista.
E’
già successo, innumerevoli volte, di imbatterti di nuovo
con gente che hai conosciuto in giro per il sud est asiatico.
C’è
una strana tendenza a ritrovarsi continuamente, anche a
distanza di mesi, come con quella Monique che continuavi a incontrare
ovunque
andassi e quasi pensavi fosse un segno del destino.
Ti sbagliavi, perché questo
lo è.
Stai inseguendo
il tuo cappello, volato via con un colpo di
vento, che rotola inarrestabile tra mille e mille gambe lungo la strada.
Non riesci a smettere di ridere perché, per qualche strano motivo, continui ad immaginare come possano vederti dall’esterno e sai esattamente quanto appari ridicola agli occhi della gente.
Una goffa
ragazza bionda che ride inseguendo un cappello.
Non riesci a fermarti e, sinceramente, non ti interessa.
Finalmente il
tuo cappello si ferma, grazie alle mani veloci
di un bambino che ride, divertito, come te.
Lo ringrazi e
gli regali uno dei tuoi braccialetti.
Ed è
in quel momento che succede.
Alzi gli occhi
e nella notte affollata di Denpasar riesci
appena a cogliere il suo sguardo.
Ma la vedi, ed è già un miracolo.
Tra la gente
affaccendata, le nuvole di fumo dolce delle
sigarette balinesi e il vapore di mille cucine mobili per la strada.
Vedi Lei.
E’ un
istante, è un lampo, è tutto quello di cui hai
bisogno.
Cominci a dirti
che non puoi averla già vista, semplicemente
perché… Beh… ti ricorderesti di lei.
Ne sei sicura.
Cerchi di
seguirla, di farti strada fra la folla, ma come la
gente si dirada e si avvicinano le prime case di Lei non
c’è più traccia.
Cammini avanti
e indietro, sulle punte dei piedi per
guardare oltre la coltre di turisti.
Cammini per
almeno venti minuti, ma Lei non c’è più.
Ti siedi su un
marciapiede e sbuffi.
Chissà.
Forse dopotutto non era destino.
La seconda
volta che la vedi non può sfuggirti, pensi.
E’ un
afosissimo tardo pomeriggio sulla spiaggia di Seminiyak
e le nuvole minacciose hanno fatto fuggire la maggior parte dei turisti.
E’
seduta sulla sabbia, guarda concentrata l’orizzonte
disegnato dalle onde.
E’
imbronciata.
Esattamente come l’ultima volta che l’hai vista.
Gli
occhiali le nascondono gli occhi e una canotta verde copre il costume
che indossa.
I capelli,
sciolti, ondeggiano al vento.
Lo stesso vento
che sfoglia un libro poggiato al suo fianco.
Stavolta non può
sfuggirti.
Prendi un lungo
respiro, lasci lo zaino sotto il tuo
ombrello di vimini, e ti avvicini.
“Ciao.”
Cominci con un sorriso.
Alza il volto
verso di te e devi prendere l’ennesimo,
profondo, respiro.
Ti guarda per
qualche istante, poi mormora un
“Ciao.”.
“Ti
dispiace se- se mi siedo qui?”
“Prego.”
Risponde semplicemente, facendo cenno di
accomodarti al suo fianco.
Ma non sposta
il libro.
Lo lascia fra
di voi, come una sorta di barriera.
Resti in
silenzio per diversi minuti.
Non sai cosa
dire e non vuoi dire qualcosa di banale e
passare subito per l’idiota che non sei.
Poi realizzi.
Non vi siete
presentate.
“Mi
spiace, non mi sono nemmeno presentata.” Cominci e ti
guarda con quell’espressione impassibile che hai tutte le
intenzioni di
toglierle dal volto “Clarke Griffin.”.
“Lexa.”
Replica subito dopo, tornando a guardare il mare.
Di nuovo,
rispetti il suo silenzio.
L’occhio
ti cade sul libro aperto.
E’ una lingua che sicuramente non conosci.
Pieghi la testa
per cercare di leggere qualche parola e,
prima che possa afferrare di quale lingua si tratti Lexa ti parla.
“E’
latino.”
“Latino?!”
replichi stupefatta.
“Latino.”
Ripete.
“Oh.”
sospiri “Wow…”.
La guardi
incredula perché, insomma, non è da tutti
conoscere una lingua morta, figuriamoci leggerla come fosse
nulla…
“Hai
studiato… latino?” domandi curiosa.
“No.”
“Hai
imparato da sola?”
“No.”
La guardi
confusa.
Si volta e con
l’espressione più seria che tu abbia mai
visto, dice “Guardo soltanto le figure”.
Afferri il
libro e scorri velocemente le pagine prima di
osservare “Non ci sono figure.”.
Non risponde,
ma noti che comincia a far fatica a mantenere
quell’espressione riflessiva e distaccata.
“Mi
prendi in giro.”
“Chiaramente.”
Replica accennando un sorriso, poi prende il libro
e ti fa vedere “C’è la traduzione a fine
testo.”.
Prende la sua
penna e scarabocchia qualcosa fra le pagine,
mentre leggi lentamente il titolo del libro.
“De
brevitate vitae…”
“A
proposito della brevità della vita.” Traduce per
te,
poggiando nuovamente il libro fra di voi.
“Wow…
sembra… uhm… allegro…”
“Ti
sorprenderebbe, invece…” risponde sorridendo.
“Cosa
ci fai qui, a Bali, a leggere un libro latino sulla
brevità della vita?”
“Cosa
ci fai qui, a Bali, a chiedermi di un libro latino
sulla brevità della vita?”
Stai per
rispondere quando un tuono fa letteralmente tremare
la terra e, qualche secondo dopo, la pioggia comincia a cadere a
goccioloni, fitti e
pesanti.
La vedi
raccogliere in fretta e furia le sue cose e pensi
che il tuo zaino è sotto un ombrello di vimini che ripara a
malapena dal sole.
Ti alzi e corri
a recuperarlo cercando di non perderla di
vista.
Ma non
è sufficiente.
Come afferri il
tuo zaino e chiudi l’ombrello, di nuovo, di
lei non c’è traccia.
O forse
sì.
Sorridi
più di quanto dovresti quando vedi il suo libro conficcato
in malo modo nella sabbia.
Nella
fretta, deve esserle
caduto.
Quella
sera, nella tua minuscola
stanzetta in affitto, separi pazientemente pagina per pagina con dei
bastoncini.
Non
puoi restituire un libro
rovinato.
Passano un paio
di giorni.
Ovunque vai ti
guardi attorno.
Lo fai
istintivamente.
Ti fermi a dipingere ai piedi di un tempio.
Un occhio
sempre sui pennelli (le scimmie, hai imparato, li
adorano per qualche misterioso motivo e in un'ora ne hai già
persi due),
l’altro sui passanti.
Dev’esserci
la minuscola probabilità di incontrarla.
Hai quasi
finito il disegno del tempio quando ti sembra di
vederla tra la gente.
Ti alzi di
getto e dimentichi degli acquerelli in equilibrio
sulle tue ginocchia che finiscono diretti sul tuo preziosissimo foglio
di
cotone artistico.
Spalanchi gli
occhi di fronte al caos che hai combinato e ti
sfugge un poco delicato “Merda!”, che fa voltare un
gruppo di turisti curiosi.
“E’
più bello così.”
Senti alle tue
spalle.
E’
una voce che conosci e che hai risentito mille volte
nella tua testa.
E’
lei.
“Dici?”
replichi prima ancora di voltarti.
“Mmhmh. Ora ha
qualcosa di vero, di vissuto.”
“A me
sembra solo un bel casino.” Rispondi, e ti volti.
“Che
c’è di male in un bel casino?”
E seduta comodamente su un muretto.
Il suo zaino
poggiato lì per terra, la macchina fotografica
al collo.
Chissà
da quanto è lì.
“Da quanto tempo sei lì a guardare?”
“Chi
ti dice stessi guardando te? Il
panorama è mozzafiato.”
La guardi e
sollevi le sopracciglia.
“Mi
sono seduta quando la scimmia ti ha portato via il
pennello. Il primo pennello.”
“Sei
li da più di due ore?!”
“Si.
Come ho detto, il panorama è mozzafiato.”
Non rispondi,
ma ti sfugge un sorriso.
“Quindi
credi che dovrei lasciarlo così?” domandi
indicando
il tuo disegno.
“Indubbiamente.”
Le ti siedi
vicino, sul muretto.
Non ti guarda,
continua a guardare dritta davanti a sé non
sai se il tuo acquerello o il tempio alle sue spalle.
Restate in
silenzio per diversi minuti.
E’
strano come questo silenzio fra voi non sia mai
imbarazzante, anzi.
Ha qualcosa di
stranamente calmante.
La vedi
guardare l’orologio, poi fa per alzarsi.
“E’
stato bello rivederti. Ora devo andare.” Replica raccogliendo
velocemente le sue cose.
Resti per un attimo basita e non sai cosa dire, poi ti colpisce un
fatto.
“Ho
qualcosa di tuo, lo sai?” cominci.
“Davvero?”
si ferma, ma senza girarsi.
“Si.”
“Si
tratta per caso del mio libro?” domanda e si volta a
guardarti.
“Si.”
“Lo
hai letto?”
“No.”
“Beh,
avresti dovuto. Posso riaverlo?”
“Dipende…”
cominci.
“Ah
si? Da cosa?”
“Vieni
a cena con me.”
“E’
un po’ vaga come proposta…”
“Domani
sera, per cena. Ci vediamo all’entrata del Potato
Head.”
“Seriamente?”
replica scettica “Il Potato Head?”
“Non
ho detto al
Potato Head, ma all’entrata
del Potato Head…”
spieghi “Ci sarai?”
“Questo
dovrai scoprirlo…” sorride e si allontana di nuovo.
In
una notte leggi tutto il
libro.
Quando
volti l’ultima pagina,
noti la scritta.
“Spero
di vederti di nuovo,
Clarke Griffin.”
Non
l’ha perso.
Lo
ha lasciato perché tu lo
trovassi.
Sorridi
come una bambina.
Devi
essere sincera.
Non
è con poca agitazione che la
aspetti fuori dal Potato Head.
Potrebbe
sempre non presentarsi,
ti dici, e cerchi di prepararti anche a questa evenienza.
Giocherelli
nervosamente con le
maniche della tua camicia e ti guardi intorno.
Poi
la vedi farsi strada, con un
enorme zaino in spalla, fra un gruppo di turisti tedeschi chiaramente
ubriachi.
E’
diversa.
L’hai
sempre vista in costume,
coperta da una magliettona o da una camicia.
Stasera
indossa degli shorts di
Jeans, chiarissimi, una canotta nera e delle converse che, un tempo,
dovevano
essere bianche.
C’è
qualcos’altro però che ti
colpisce più dell’abbigliamento.
Sono
i suoi capelli.
Non più sciolti, in balia del vento, ma legati in un
meticoloso ordito
di trecce.
C’è
qualcosa di regale, di solenne,
noti, in Lei.
“Allora?
Dov’è che vuoi andare?”
Andate ovunque e da nessuna parte.
Girate lentamente tutte le bancarelle, tutti i piccoli cucinini sparsi
per le
vie della città.
Mangiate
qua e là facendo felici
un po’ tutti i venditori ambulanti e vi fermate a comprare
qualche bracciale e
orecchino, sfoggiando il vostro balinese appena comprensibile.
Parlate
del più e del meno.
Scopri
che Lexa (insiste nel non
volerti dire il suo cognome) ha due anni più di te.
Scopri
che è americana, come te.
Scopri
che è enormemente
intelligente e acculturata.
Scopri
che ha una strana
ossessione per le candele, che compra in ogni, singola, bancarella.
Scopri
che non le piace parlare
di sé e, ad ogni occasione, riporta il discorso su di te.
E
ti ascolta, sempre, con
estremo interesse.
Fa
domande, osservazioni e (non
con poca sorpresa) fa anche battute e di un certo livello.
Quando
parli, noti, non è
sfuggente come è di solito: ti guarda, ti scruta, come se
non le bastasse ascoltarti e volesse
leggerti nel pensiero.
Quando
parli, noti, più di una
volta il suo sguardo scende sulle tue labbra.
Intorno
alle due del mattino le
bancarelle cominciano a chiudere e vi ritrovate a passeggiare lungo la
spiaggia.
Sta per sorgere il sole e siete ancora lungo il bagnasciuga a fare
lentamente
su e giù.
“Ora
che sai praticamente tutto
di me, c’è qualcosa che vorresti condividere di
te?”
“Parto
fra poco più di un’ora.” Sospira,
continuando a camminare, lo sguardo puntato di fronte a lei.
“Oh…” rimani un momento senza parole.
Senza respiro, ad essere sincera.
“Non
era esattamente quello che
mi aspettavo.”
“Mi
dispiace.”
“No,
non- Non dispiacerti.”
Continuate
a camminare e cerchi
di ignorare quella sensazione di angoscia che ti preme sulla bocca
dello
stomaco.
“Sono
a Bali, a leggere un libro
latino sulla brevità della vita, perché ho
dimenticato come ci si sente ad
essere felici.”
“Senza
offesa, ma un libro sulla
brevità della vita non mi sembra un’ottima idea
per ricordare come ci si sente
ad essere felici.”
“Hai
letto il libro, poi?”
“Si.”
“Forse
dovresti leggerlo di nuovo. Hai totalmente mancato il punto."
“Quello
in cui diceva… -Spero di vederti di nuovo- ? O un
altro?” domandi divertita.
"Un altro, chiaramente."
Ti
sorride, ma c’è un velo di
malinconia nei suoi occhi.
“Parto fra poco più di
un’ora.” ripete.
“Si, me lo hai già detto.”
“Ti va di venire al porto con me?”
“Molto volentieri.” Sorridi.
Camminate
nel totale silenzio
fino al porto.
Lexa
individua il suo battello,
fa il biglietto e chiede di poter lasciare il suo mega-zaino a bordo.
L’uomo sorride e lo carica.
Poi
torna da te.
“Il
battello parte alle sette.”
Guardi
l’orologio, sono le sei e
venti.
“Ok.”
“Vuoi
mangiare qualcosa?”
“Va
bene.”
Entrate in un minuscolo bar dove, incredibilmente, fa già
caldo.
Lexa ordina qualcosa, poi ti raggiunge al tavolo.
Portano
del caffè ancora più
annacquato del solito e delle sottospecie di pancakes, che
però apprezzi.
Lexa
non ha ordinato niente per
sé, dice che teme di soffrire il viaggio nella battello
stracolmo di gente.
Non
la biasimi, ma la forzi a
mangiare qualcosa della tua colazione.
Continuate
a non parlare per
tutto il pasto.
Insiste
nel pagare per te e le
lasci coprire i 25 centesimi di dollaro che devi al barista e la
aspetti fuori.
Sedete
lungo il pontile, i piedi
a penzoloni sull’acqua limpida.
Poi, all’improvviso, la vedi sporgersi a guardare in acqua.
La guardi con aria confusa.
Dopodiché si volta, ti sorride, e si lancia in mare.
“Lexa?!”
esclami quando la vedi
riemergere “Cosa fai!? La barca parte fra un quarto
d’ora!”
Chissenefrega.
Lasci
lo zaino e senza nemmeno
toglierti le scarpe la raggiungi.
L’acqua
è, nemmeno troppo
sorprendentemente, già calda.
Le
braccia di Lexa attorno alla
tua vita la rendono ancora più calda.
Ti
trascina dove l’acqua è più
bassa, sempre sotto il pontile.
Poi
ti guarda dritta negli occhi
e non sai più come si respira.
Ti bacia, poi.
E
nulla è mai stato così.
Nulla,
temi, sarà mai cosi.
Sa
di sale e latte di cocco e
tabacco dolce.
Sa
di un ricordo lontano, di
familiarità e sicurezza.
Sa
di amore.
Ed
è troppo presto che si
allontana dalle tue labbra.
“Grazie.” Comincia, gli occhi chiusi e le mani
attorno al tuo viso “Grazie per
questo spiraglio di felicità.”.
“Cosa?”
“Grazie.”
Ripete e stavolta
lascia cadere le braccia e si volta, allontanandosi verso riva e verso
il
pontile dove il suo battello è già in moto.
“Lexa?!”
provi ma non si volta.
Provi
a fare qualche passo ma le
tue maledettissime scarpe ti rallentano terribilmente.
“Lexa!?”
insisti e ti viene in
mente “Ho ancora il tuo libro!”
“Tenilo.”
Replica voltandosi “Me
lo restituirai un’altra volta.”
L’ultima
cosa che ricordi di
Lexa sono i suoi occhi colmi di lacrime.
Torni
a casa due settimane dopo.
Sistemi
i tuoi ricordi in un
cassetto.
Bracciali,
orecchini, biglietti,
conchiglie e persino qualche candela.
Quel libro
finisce tra i tuoi preferiti, subito sotto il comodino.
Torni
cambiata e con una nuova
voglia di fare.
Hai
raccolto abbastanza energia
ed emozioni, soprattutto, per dipingere ore e ore, sette giorni su
sette.
Non
sei mai stata così
produttiva ed apprezzata e ben presto cominci ad essere un nome
conosciuto.
Conosci
Finn un paio di mesi
dopo.
E’
lui che si occupa di
organizzare la tua prima, vera, mostra.
E’
simpatico, dolce, ingenuo ed
è straordinariamente abile a distrarti dalle mille ansie che
porta la tua prima
mostra.
Comincia
un po’ per gioco con
Lui, poi prima che te ne accorga la cosa si fa seria.
Un
anno e mezzo dopo ti
trasferisci da lui.
Non avevi mai avuto dubbi su Finn.
Eri
felice con Finn.
Almeno
fino a quando, durante il
trasloco, quel libro
ti cade tra i piedi e, come un fulmine in piena notte, ti
domandi se sei veramente felice con lui o se la felicità ha
il sapore di sale,
latte di cocco e tabacco dolce.
Una
settimana dopo prenoti un
biglietto di sola andata per la Tailandia.
Nella
valigia, oltre a qualche
vestito, ai fogli da disegno e agli acquerelli, getti anche il quel libro.
Non
si sa mai.