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Autore: Alphabet Loser    18/05/2016    0 recensioni
Sulle sponde dell'imponente fiume Tigri, Ashur, un giovane dio, assiste alla nascita del piccolo Theophilos. Immediatamente legato a quella fragile vita, segue per anni la sua crescita, sviluppando per lui attaccamento quasi morboso. Quando il re della città rivolgerà al ragazzo nuove attenzioni, Ashur soccomberà alla gelosia.
[4507 parole]
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Partecipante al contest Gelosia idetto da YUKO CHAN e Aurora_Boreale_ sul forum
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fuori dal suo palazzo, l’aria è umida e gli pesa sulle spalle, appiccicosa, sporca come le parole untuose di un re ubriaco. Il cielo deve essere coperto di nuvole grigie. Alza gli occhi verso l’alto, e attinge ai suoi ricordi per immaginare l’intangibile volta dipinta di ceruleo da mani invisibili.
 
Theophilos nacque in una notte d’estate, e nel cielo una bianca mezzaluna scintillava sovrana. Il ventre ancora teso della madre era imperlato di sudore, le sue braccia ricaddero sulle lenzuola, più sotto macchiate di sangue, a cercare pace e ristoro, finalmente. Il suo respiro caldo affannoso riempiva la stanza. Ashur assistette a quell’evento per caso. Il suo sguardo stava vagando sulla terra rigogliosa che si incuneava tra due imponenti fiumi. Le strade e i palazzi erano silenziosi, la gente dormiva. Il trambusto che regnava in una grande casa lussuosa attirò la sua attenzione. Su un giaciglio sfatto e bagnato di rosso una donna era semisdraiata. I lunghi ricci scuri erano incollati col sudore al collo e alle guance.
 
Accende il fuoco con la cautela della cecità. I rami sottili si infiammano poco a poco, con un dolce crepitio. Ha sempre amato la vista del suo fuoco, che frenetico si muove come una danzatrice asiatica vestita di preziosi drappi rossi. Ha sempre amato sentirne la musica, guardare i pezzi di legno uno ad uno soccombere alla sua forza, sentirne sulla pelle quel particolare tipo di calore. Quando sfila il coltello dal suo fodero, smette definitivamente di amare.
 
Era nato gracile, quel bambino. Piccolo più del normale, anche se non abbastanza da causare serie preoccupazioni. Ci erano voluti alcuni secondi perché il suo pianto, prima solo un gemito soffocato, irrompesse fragoroso nell’aria sudata della stanza. Ashur vide quella minuscola creatura passare di mano in mano, di braccia in braccia, con gli occhietti strizzati e i pugni chiusi. Non era bello da vedere, su questo non c’erano dubbi –Ashur aveva visto molti bellissimi uomini e donne, e gli pareva strano che all’inizio fossero così–, ma emanava quasi luce. In quel bambino erano racchiusi tutti gli sforzi compiuti da lui e dalla madre nelle ore appena trascorse, che si tramutavano in nuova vita. Non era qualcosa a cui lui era abituato. Si scoprì incapace di distogliere lo sguardo da quella scena per buona parte della notte, finché i lumi nella casa non vennero spenti. Era un evento così banale, quasi insignificante, del resto accadeva ogni giorno, ma per lui era qualcosa di inaspettato. Non fu una decisione presa da lui, in realtà. Non era un suo capriccio. Semplicemente, da quel momento ogni giorno doveva controllare quel bambino e la sua famiglia. 

La sua costituzione poco resistente fu ovviamente salutata con ostilità dai parenti, che confidavano in quel primo figlio maschio, in particolare del padre, che già aveva pianificato il futuro di suo figlio. Dovette cambiare programmi. In quanto comandante dell’esercito che presiedeva alla difesa delle mura, sperava che Theophilos  avrebbe potuto succedergli. Sua moglie non sembrava più essere in grado di dargli un altro figlio, e si decise così a cercare di ottenere per il bambino un altro ruolo: quello di consigliere regio. Partiva già avvantaggiato, conoscendo di persona il re, ed erano molto poche, le cose non avrebbe fatto per ottenere per suo figlio quella carica.
Il fumo comincia a salire verso un cielo che già da diverse ore minaccia pioggia senza aggredire davvero, mentre la legna partorisce piccole isteriche scintille che scoppiano in fuoco. La fioca luce illumina in modo spettrale le sue dita bianche, o quello che delle sue dita rimane. Sembrano ossa spezzate, e levigate da un artista pazzo.
 
La città era in festa. Fra le vie polverose sfilavano i carri trainati dai buoi, spronati dai miseri cocchieri con grida e schiocchi di redini. I bambini correvano, le nuvole in un cielo splendente d’azzurro giocavano con loro. Un vento leggero e danzante rendeva più pulita l’aria, finalmente più respirabile, spazzava via l’afa delle settimane passate. Era il compleanno del re, che veniva celebrato dalla città tutta. Ogni abitante sapeva che quello era il giorno in cui il sovrano prendeva importanti decisioni riguardo all’affidamento di diversi ruoli, quali il comandante dell’esercito e il suo consigliere. Chiunque avesse voluto entrare attivamente a far parte della corte, sapeva che era il momento migliore per fare una buona impressione. Qualcosa si agitava fra il petto e lo stomaco di Theophilos, qualcosa che lo rendeva inquieto ma anche, al tempo stesso, quasi entusiasta. Aveva da poco compiuto diciannove anni, era diventato per la società un adulto, e secondo suo padre i tempi erano ormai maturi perché lui diventasse collaboratore del re. Non gli interessava, in realtà, quel ruolo, ma non aveva molte altre scelte. Appoggiò un piede su un masso, stringendosi sulla caviglia i lacci di cuoio dei sandali. Non sapeva cosa aspettarsi da quella giornata.
 
Non c’è altro modo, pensa. Ma questo è un modo? È una maniera dignitosa di recidere una vita? Ma quale altro dio ha mai desiderato morire, strapparsi con le sue stesse membra l’anima come se non valesse niente? Nessuno. Ovviamente. E perché qualcuno dovrebbe farlo? A che scopo?, si chiede, mentre vaglia la sua anima alla ricerca della conoscenza innata  -primigenia, come se alla nascita il primo pensiero che occorre ai viventi fosse quello della morte-  che gli permette di sapere come si fa, come è possibile, uccidere un dio. È come un sacrificio, una preghiera, insieme, a se stesso, a suo padre e a sua madre, ai suoi millenari fratelli, ai figli immortali che non ha mai avuto, che non avrà mai. Una preghiera davanti a quel fuoco, su cui basterà far cadere poche stille di sangue per sentire l’immortalità abbandonare il proprio spirito. E una volta mortali, ovviamente, niente è più facile che morire.

Era presente, quel giorno, il dio Ashur. Lo sguardo rivolto verso la culla della civiltà.
Le ginocchia di Theophilos impressero il loro stampo sulla polvere bianca sabbiosa. Chinò la testa e fu come se il Sole si fosse eclissato dietro una coltre spessa di nuvole scure. Tra le mani il piatto di terracotta pieno nella sua concavità di frutta e fiori aveva un qualcosa di grottesco. L’uomo a destra del re, il consigliere, che sul cranio probabilmente calvo portava un copricapo a tronco di cono, lo prese e lo affidò ad un’ancella il cui seno prosperoso le faceva sollevare la veste sui polpacci. Theophilos la intravide con la coda dell’occhio, senza alzare il capo, e notò che aveva i tratti forti e quasi da sacerdotessa delle egiziane. I lunghi capelli neri, liscissimi, su cui non si rifletteva la luce del Sole, sembravano un’unica massa compatta che si adagiava sulle spalle brune e lucide. Con un solo cenno, il re lo fece alzare. Eseguì poggiando le mani sulle ginocchia, sotto lo sguardo vigile di Ashur. Quella mattina Theophilos sembrava splendere ancora più del solito. Fiori e nastri rossi erano intrecciati nei suoi capelli scuri come l’ebano. Portava una tunica corta di un’ocra chiaro decorata a motivi geometrici colorati, in un tripudio di rosso e arancio. Il sovrano sorrise, lanciò un’occhiata al padre di quel ragazzino, uno sguardo tra due complici criminali. Accarezzò impudentemente una guancia di Theophilos, dallo zigomo fino al mento, dove corti e radi peli di barba segnalavano il suo passaggio all’età adulta. Poi allungò verso di lui la mano, e le labbra di Theophilos baciarono leggere il pesante anello del sovrano. Ashur  decise allora di assecondare quella strana sensazione che lo consumava dentro.
 
Fu solo un lampo di luce accecante. Sotto i suoi piedi sentiva la terra rientrare formando due solchi profondi. Le grida di paura e confusione non erano alle sue orecchie che un brusio di sottofondo, un ronzio come di sciame d’api. E le sue dita strinsero con forza, con troppa forza, il braccio sottile e morbido di Theophilos. Le parole vane del re, gli sciocchi sorrisi dei cittadini festanti non importavano. Svanirono entrambi senza che nessuno vedesse nulla.
 
Quando quel velo denso di luminosa nebbia svanì, Theophilos poté vedere il luogo in cui era stato trasportato. Si trovavano in una grande sala dalle pareti di arenaria bianca. Alte colonne dai capitelli decorati sorreggevano il soffitto, posto ad un’altezza quasi incommensurabile, rappresentante un cielo blu che davvero pareva reale. Si rese conto solo dopo qualche istante che sul suo polso ancora stringeva quella presa salda e ferrea. Sentiva le falangi premere sulla sua carne. Si voltò. Davanti a lui comparve quello che a una prima superficiale occhiata poteva sembrare un uomo. Ma non lo era, ne era certo. Sebbene la sua statura fosse normale, egli si ergeva in quella stanza monumentale come la statua marmorea di un imperatore. Qualcosa nei suoi occhi gli dava l’aspetto di un essere ultraterreno. Theophilos arretrò, spaventato, confuso. L’espressione di Ashur si addolcì, e lui allungò una mano verso il viso del giovane nel tentativo di tranquillizzarlo.

«Non avere paura»
Sulle sue labbra comparve persino un sorriso, ma il ragazzo non fu convinto.
«Chi siete?» chiese, e la sua voce tremava.
Ashur gli prese delicatamente una mano. Nella luce arancione e soffusa delle candele il suo viso assumeva tratti divini. Conosceva il suo aspetto fin da quando era nato, ma mai si era accorto di quanto fosse bello. Le leggere asimmetrie del suo corpo sembravano dettagli unici e irripetibili lasciati da uno scultore come firma su una statua della sua gioventù, meno tecnicamente apprezzabile ma infusa di un sentimento che presto sarebbe svanito. Con dita incerte sfilò dai suoi ricci i resti dei fiori rossi.
«Chi siete?» ripeté il ragazzo, e lui fu costretto ad interrompere la sua contemplazione e parlare.
«Sono un dio» lo disse come se fosse stato qualcosa di scontato. Di ovvio.
Theophilos si sottrasse al suo tocco.                                               
«Scatenerete l’ira degli dei, parlando in questo modo»
«Non ti preoccupare. Non ho mentito. Sono un dio uno di quelli per cui preghi, il figlio della coppia creatrice. Sono Ashur, colui che sovrintende a questo pianeta. Al tuo pianeta»
Per un attimo tutte le fiamme delle candele si riunirono intorno a loro, per poi tornare al loro posto subito dopo, come a voler dimostrare la veridicità delle sue affermazioni.
 
Gli tese una mano. Theophilos non l’afferrò.
«Perché mi avete portato qui?»
L’espressione di quell’uomo  -di quel dio, di quella creatura, qualunque cosa fosse- si indurì, e il ragazzo trattenne il respiro.
«L’ho fatto solo per il tuo bene, Theophilos. È da molto che ti conosco, anche se tu non conosci me. Ma è normale, io sono un dio. Ti ho visto nascere, ti ho visto crescere. So che non meriti la carezze di quel re. Ti ho portato via da lui»
«Non capisco»
Ed era vero.
«Sappi  solo che tu sei un essere infinitamente più meraviglioso di lui, o della tua famiglia, dei tuoi concittadini. Non voglio privarti della loro compagnia, ma voglio che tu e quel sudicio sovrano capiate che non avete nulla da spartire. Resta con me, Theophilos. Per ora non hai alcun altro posto dove stare»
«Ma io…»
«Resta con me»
E le fiamme delle candele tremarono, Theophilos finalmente lasciò andare un sospiro di spavento, mentre il sole tramontava all’orizzonte e le braccia di un dio si chiudevano intorno alle sue spalle.
 
 
Deara, la madre di Theophilos, semplicemente era impazzita. Aveva perso il contatto visivo con suo figlio      -il suo unico figlio, il suo bambino-  per solo qualche secondo, ma quel breve tempo era bastato. E lui non c'era più. Davanti al cocchio del re, la sabbia si stava ancora posando a terra, sollevata dal vento. Da principio balbettò il suo nome, stupita, confusa, poi si ritrovò ad urlarlo, mentre il sovrano, senza riuscire a capire, come i suoi sudditi, che cosa fosse successo, diede disposizione alla sue guardie per cercare il ragazzo. Ora, per lei, l’unica possibilità era chiedere aiuto agli dei, senza sapere che era uno di loro ad essere responsabile.
 
 
Era addormentato. Solo una striscia azzurrina di luna lo illuminava, disteso elegantemente sul letto, con il lenzuolo calciato verso i piedi, per difendersi dal caldo afoso che anche di notte imperversava. Ashur  gli sfiorò una spalla e sentì un brivido attraversare ogni nervo del suo corpo. Era una sensazione che non si ricordava di aver mai provato. Desiderava toccarlo. Me senza alcuna dolcezza, senza alcun affetto. Anche senza rabbia, in effetti. Solo disperazione. Aveva bisogno di stringerlo, così piccolo, così caldo, poter esplorare ogni centimetro della sua pelle dorata e sentire sotto le labbra il profumo e il sapore lieve dei suoi capelli ricci. Riusciva quasi a sentire le sue dita sfilare la veste di quel giovane e lasciarla cadere a terra. Salì sul letto con lui. Non lo amava come un fratello, come un figlio da guardare con commozione, né come un migliore amico da trattare come allievo e maestro allo stesso tempo. Era di tutt’altro tipo, quel sentimento, e non lo comprendeva. Lo abbracciò e sentì il battito furioso del suo cuore infrangersi contro il petto di quel ragazzo. Cos’era, tra le sue braccia? Sembrava solo un pezzo di carne.
Avvicinandosi a lui sempre di più, finì per far affondare la punta del naso contro la sua guancia così morbida. Mentre gli passava un braccio intorno alla vita, udì un lieve mugolio lasciare le labbra di quella creatura a cui non riusciva più a dare un nome. Inspirò. Un profumo impercettibile riempì le sue narici. Ogni cosa bruciava, intorno a lui. Lo amava come aveva amato alcune donne? Sperava di no. Chiunque avrebbe giudicato sbagliato quel desiderio che gli agitava i pensieri e gli torceva le interiora. Ma Theophilos era così bello, la sua pelle così liscia. C’era poesia persino nel modo in cui il suo petto e le sue spalle obbedivano all’incedere lento del suo respiro addormentato. Dietro di lui, oltre i ruvidi muri di terracotta, la luna lo guardava beffarda, come a sfidarlo.
 
 
 
Le mani a stringere un antico medaglione appartenente alla sua famiglia da generazioni, inginocchiata davanti all’altare, Deara con gli occhi sgranati pregava. Le carni umide di sangue di un giovane montone sfrigolavano a contatto con le fiamme. I fiori profumati che le ricoprivano, neri ormai, e accartocciati, crepitanti, diffondevano nella stanza un odore aromatico e penetrante, che stordiva Odeon e Baaria, il padre e la sorella maggiore di Theophilos. Dalle labbra di Deara usciva quella che sembrava un’incomprensibile nenia, una lunghissima preghiera pronunciata a mezza voce, masticando le parole, mentre le pupille della donna quasi scomparivano sotto le palpebre, nel tentativo di guardare quel cielo coperto dal soffitto.
 
Theophilos non si era svegliato. Aveva solo compiuto qualche movimento cauto  -il letto era sconosciuto-  nel sonno che Ashur sperava fosse il più quieto possibile. Non aveva tempo, lui, per dormire. La luce rosata del sole all’alba già scontornava le colline nere all’orizzonte, quando lui ancora tentava di estrapolare, con poteri divini, ogni segreto contenuto nella mente del re. Ciò che gli dicevano quei segreti era che a quell’uomo di Theophilos importava poco o nulla. Era un ragazzo poco dotato, debole, inadatto alla guerra, e aveva ricevuto un’istruzione troppo sommaria. Tormentandosi la veste con le mani, lui non ci credeva. Sapeva, che era tutto un trucco, un trucco escogitato solo per lui, per fargli abbassare la guardia, per fargli mollare la presa. Sciocco. Non avrebbe mai lasciato andare Theophilos.
 
Aveva abbandonato il suo palazzo per così poco, per appena qualche minuto, eppure, al suo ritorno, quando ormai il sole fulgido splendeva, Theophilos non c’era più. Sapeva che non se n’era andato. Qualcuno gliel’aveva portato via.
 
Con la punta di un dito percorre le fitte decorazioni di quel diadema che porta sugli occhi. Inutile ornamento, patetico tentativo di abbellire il suo dolore. Come se cambiasse qualcosa.
 
 
 
Percorse il corridoio a testa alta, con i pugni serrati, a lunghi passi. Il re era di fronte a lui, seduto sul suo trono. Alla sua destra, la famiglia di Theophilos. Avvertì il re deglutire, il suo pomo d’Adamo sobbalzare. Le sue mani fremevano.
«Io so» disse.
«Io so cosa vuoi tu da lui. Non ti permetterò mai di ottenerlo»
Troppo a lungo la sua rabbia era stata repressa.
 
Non erano le sue mani, che stringevano la gola umida e sudata di quell'uomo indegno. Non era la sua pelle, che lo toccava. Era la sua ira condensata in raggi di luce mortale, la gelosia di un dio troppo grande per potersi permettere di tenere in mano fragili vite mortali. Strinse. Non sentiva niente. Solo una versione lontana e distorta della sensazione che pensava avrebbe provato a sentire sul corpo le dita calde di Theophilos. Era quella l'unica cosa che contava, in fondo. Non urlava, il re. Non ce la faceva. Emise solo un rantolo, come di una bestia chiusa in gabbia che si rende conto di non poter sfuggire alle angherie inferte dal bastone che si infila tra le sbarre della sua prigione, e morì. Ashur percepì allora il suo collo tra le dita, e quasi gli sembrò di sentire sotto quella pelle sbiancata la carne raffreddarsi, i muscoli irrigidirsi. E in quel momento ogni parte del palazzo in cui si trovavano tremò. Una folata di vento caldo invase la stanza, nel boato che scosse le pareti comparvero due imponenti figure. Sua madre, avvolta, come una regina, da un lungo mantello scarlatto che la copriva dalle spalle ai piedi, aperto a mostrare il sottostante abito, di pregiata fattura. Suo padre sembrava un generale dell’esercito pronto a sterminare i soldati nemici. Con la mano sinistra si appoggiava ad un grosso bastone dorato con incastonata in cima una gemma preziosa celeste; una ferita alla gamba riportata in un’antica battaglia gli rendeva difficoltoso camminare liberamente. L’aria si saturò di vibrazioni ancor prima che aprisse bocca.
«Ashur»
Il dio si inginocchiò, tremante, come era stato il re fino a poco prima.
«Ti inginocchi come un codardo adesso che non ti trovi più ad essere il più potente nella stanza»
«Padre. Per quale motivo siete-»
«Per quale motivo?» tuonò la madre, e nel farlo una vaporosa ciocca di capelli chiari si mosse come spinta dalle onde. «Per quale motivo, ci chiedi?»
Il padre riprese la parola.
«Non è forse un motivo sufficiente il fatto che tu abbia contravvenuto ad ogni legge divina ed umana, desiderando un maschio e infine uccidendo, per futilissimi motivi, un sovrano?»
«Perdonatemi, ma…»
«No. Non meriti perdono»
Alzò una mano e lampo di luce azzurra si scagliò contro il volto giovane di Ashur.
Un urlo lacerante costrinse Theophilos, semi nascosto dietro a un colonna, a coprirsi le orecchie.
«I miei occhi! I miei occhi!»
Ashur si teneva il viso tra le mani, orribili versi di dolore squassavano le sue membra.
«Non ci vedo!» gridò. «Padre, non ci vedo!»
«Non hai mai visto. Non sei mai stato capace di vedere. Tutto questo ne è la prova. Nemmeno sei stato in grado di comprendere che ero stato io, e non questo misero re, a strapparti il ragazzo, che tu stesso avevi rubato, come un capo di bestiame, alla sua famiglia. Tu non hai mai dato molto ascolto alle preghiere, figlio mio»
«Ti prego, padre, ti prego! Non farmi questo! Ti prego, fa così male!»
Ma tutto quello non bastava.

Forse le sue scapole si erano allungate e affilate. A quell'altezza, sentì la sua schiena lacerarsi. Un taglio profondo, che veniva da dentro, e non aveva la precisione di una ferita da coltello. Il suo corpo si strappava. Si strinse gli avambracci con le mani, nell'infantile tentativo di sfuggire al dolore, ma non ci riuscì. Le sue dita erano ormai nient'altro che artigli, bianchi, duri, e freddi come ossa.
«Non è qui che vivrai» disse suo padre. «Non più. Hai tradito la tua divinità, hai tradito la mia fiducia. Hai dimostrato di non meritare né gli dei né gli uomini. E ora vivrai come un rapace, sulle vette più alte di questi monti, in luoghi a cui nessuno può accedere, e non sarai abbastanza in alto per vivere tra gli dei e nemmeno abbastanza in basso per vivere tra gli uomini. Sappi solo quanto questa sentenza mi pesa, Ashur, sangue del mio sangue. La vergogna che mi hai provocata è enorme»
Dio gridò, come un animale ferito, come una giovane donna che sfugge fiera alla presa di un uomo, mentre quattro lunghe ali blu si dipartivano dalla sua schiena, reclamavano la loro appartenenza a quel corpo.
«È indicibile» concluse suo padre.
 
Come erano venuti, se ne andarono. Dio si ritrovò inginocchiato a terra, con le gambe tremanti, in preda a scosse di dolore. Sentiva il suo corpo come un essere estraneo a lui, che non riusciva più a governare. Era solo un dio decaduto, e davanti a lui Theophilos si stava forse stringendo le braccia dalla paura, ma lui non lo vedeva. Intorno a lui era tutto notte buia e luna nuova. Un singhiozzo agitò le sue spalle. Non se la ricordava, l’ultima volta che aveva pianto.
 
Sui palmi delle mani sente il calore asciutto delle fiamme. L'odore acre, ma quasi confortevole, del fumo è l'unico elemento che lo trattiene dal disperdersi in una dimensione priva di tempo e spazio. Il cielo è fermo. La terra è ferma. Le sue pupille, chiuse dietro la cortina invalicabile delle sue palpebre, sono ferme. E anche la sua vita, per un attimo, si ferma, per poter afferrare un secondo di universo e in esso esistere con la consapevolezza della star esistendo, prima che tutto finisca. E le scintille di fiamma che come carcasse cadono sulle sue ginocchia fanno male, ma lui si dice di no, che non è vero, perché vuole pensare che prima della morte niente possa far male. L'unica cosa che si muove, in fondo, è quel piccolo rumore dietro di lui, forse un uccello. Potrebbe essere venuto lì con il preciso intento di assistere al suo sacrificio. Il rumore, poi, finisce, e anche quello se ne va. Non gli rimane più niente. Nemmeno il rumore di un uccello che ha giudicato troppo noiosa e banale persino la sua morte. Con gli artigli puntuti si sfiora il polso chiaro. Lo ricordava più forte, muscoloso, e invece lo sente debole e sottile come quello di una vergine. Con le sue stesse dita porrebbe uccidersi. Ma è un pensiero che lo rende infinitamente triste, ha tra le gambe il coltello che assolverà quel compito.
«Aspettate»
Non è il rumore di un uccello né di un piccolo quadrupede di montagna.
«Aspettate»
Ha parlato più piano, adesso; con la mano tesa in avanti forse non ricorda che Ashur non può vedere. La saliva nella gola del dio sembra essersi fatta all'improvviso più spessa, e gli è difficile digerire. Di nuovo torna a mancargli la visione di quei ricci scuri, della tunica bianca sulle spalle color terra. Sotto le ginocchia la sabbia graffia.
«Perché?»
La sua voce è poco ferma, e avrebbe dovuto spiegarsi meglio. Vuole sapere perché lui è lì.
«Non lo fate»
Ha davanti i suoi occhi, così scuri e luminosi, e non li può vedere. Come può continuare a vivere?
«Non lo fate, per favore. Vi prego. Per me»
Per lui farebbe qualsiasi cosa. Ma qual è quella giusta? Quale, quella che lui si merita.
«Non c'è altra possibilità. È l'unico modo, Theophilos. È per te che lo sto facendo»
Un suono lieve gli racconta che ragazzo si sta avvicinando a lui.
«Non è vero. Io non voglio che voi lo facciate»
Le sue dita sottili sul suo polso sinistro riscuotono il suo corpo da quel febbrile torpore in cui era immerso. Il sangue nelle sue vene riprende a scorrere impetuoso, e come il Tigri che in autunno irriga i campi ridona vita e calore agli anfratti più nascosti della sua persona, in cui noncurante si inoltra. Pensa a come gli amori vengano consumati per lo più di notte, lontano dagli occhi indagatori del Sole e della gente. Forse allora la vista non è così importante, l'unico bisogno che ora ha è di stringere tra le mani Theophilos, sentirlo caldo contro di sé, possedere il suo corpo né come un dio né come un uomo, come un amante, come un amato. La sua pelle brucia di desiderio. La sua anima inquieta lo scongiura di non soddisfarlo.
«Come potrò fare senza di te?»
Lo ha detto la sua bocca, senza chiedere il permesso al suo cervello.
«Sono qui» gli risponde. Ed è vero. È lì, e lo sente.
«Sono qui» ripete, e fra le sue braccia di ragazzo Ashur si sente bambino, e per la prima volta capisce cosa significhi essere uomo.
Può ancora sfiorarlo. Con immensa cautela, cerca e trova con le dita i suoi capelli, la sua schiena che vorrebbe esplorare.
«Non dovresti»
Come sono morbide, le sue guance. Affonda il viso nell’incavo del suo collo, sulla fronte sente la sua spalla.  Si rende conto che se potesse vedere il buio rosato della sua pelle, se con le mani potesse toccarlo senza alcuna paura, se il fuoco non stringesse attorno al suo collo un fumoso cappio, potrebbe spendere il resto della sua eterna vita così.
Alzando il viso sfiora con il naso la pelle di Theophilos, le sporgenze e le rientranze delle orbite oculari e degli zigomi. Quasi senza accorgersene lo bacia, delicatamente, a un angolo della bocca. Forse le cose belle sono state create peccaminose per testare la forza morale degli uomini.
«Come puoi perdonarmi?»
«Non ti ho perdonato»
Le prime gocce cominciano a cadere sulle loro spalle, sulle loro teste.
«Però potrò perdonarti, un giorno»
Stringe le braccia intorno ai suoi fianchi, vorrebbe per lo meno essere nato mortale.
«Io ti amo, Theophilos. Questo non si può perdonare»
Il ragazzo sfiora le sue labbra con le proprie, all’apparenza accidentalmente. Sorride, e Ashur lo riesce a sentire sotto le dita. Non riesce più a non toccarlo.
Lui gli prende le mani.
«Vorrei vedervi ancora»
Non risponde. China la testa.
«Me lo promettete?»
«Che cosa?»
«Promettete di accettare la mia compagnia?»
«La tua compagnia è l’unica cosa che io desideri. Ma non voglio farvi altro male»
«Allora promettete anche questo. Promettetemi il vostro impegno. Promettetemi che, solo per merito vostro, ogni volta che penserò a voi, sarà per pensare del bene»
Dio sospira come un bambino che è stato sgridato dalla balia.
«Lo prometto?»
«È una domanda? Allora sì, lo promettete»
Lo promette.
 
È relativamente triste, la vita di un dio che ha scelto la mortalità ma non ancora la morte, che vive solo tra le rocce esiliato dal suo regno. Un fruscio lo fa voltare. Non lo vede, ma immagina Theophilos che posa su di un tavolo un canestro colmo di frutti, con un lieve sorriso sul volto. È sua sorella, che da sempre predilige gli uomini agli dei, a portarlo al suo palazzo, come fece la prima volta, senza nemmeno essere esplicitamente invocata, manipolando abilmente i venti tra le sue dita sottili. È poco, il tempo che ha a disposizione per parlargli, per accarezzare le sue ginocchia, ma sa che è lui la causa del suo destino. Presto Theophilos attraverserà l’uscio, e tornerà alla sua casa, ma per ora è lì, con lui. È solo relativamente triste, la vita di un dio che dio più non è.
 
 
 
  
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