Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Segui la storia  |       
Autore: IrethTulcakelume    22/05/2016    7 recensioni
Park Jimin, 21 anni, testa sempre tra le nuvole – sì, se le nuvole hanno i capelli neri e tre anni in meno di lui.
Jeon Jungkook, 18 anni, mente brillante versata per lo studio, un po’ meno per gli affari di cuore.
Min Yoongi, 22 anni, passione per il basket, ma qualche problemino con i blackout.
Kim Namjoon, 29 anni, uno studio di psicologia tutto suo che spesso ospita un paziente in via in guarigione.
Kim Seokjin, 31 anni, cattedra universitaria di economia e un incorreggibile complesso del salvatore.
Kim Taehyung, 18 anni, tante foto, incubi abituali e un paio di conti in sospeso con il passato.
Jung Hoseok, 21 anni, una sorella fortunatamente ficcanaso e vigliaccheria a profusione.
Non si sentono i suoni se non c’è silenzio.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
ANGOLO AUTRICE:
Ebbene sì, sono tornata con una long. Ho scritto un paio di cose sugli EXO andate a leggerle altrimenti vi troverò e vi ucciderò perché io sono la giustizia, ma adesso mi cimenterò con i miei amati Bangtan, ovvero il primo gruppo k-pop che ho iniziato a seguire con ferocia inaudita. Detto ciò, alcune precisazioni sulla storia che state per andare a leggere: è vagamente ispirata al cd dei The Script "No sound without silence", un capitolo per ogni canzone. Tuttavia questa storia non è una song-fic, in quanto ho preso solo spunto dalle canzoni, senza usarle in maniera massiccia. Tuttavia, se avete questo cd, vi consiglio di ascoltarlo mentre leggete, perché vi metterà nel mood in cui ero io mentre scrivevo. Aggiornerò all'incirca ogni venti giorni perché so che se ho l'ansia di pubblicare ogni settimana mollo la storia. Nel momento in cui dovessi finirla prima, allora aggiornerò con maggiore frequenza.
Piccola precisazione: io adoro fare i banner, li amo, e ne avevo preparato uno anche per questo capitolo, ma il programma che uso per mettere le immagini mi odia oggi e non mi fa caricare il banner. Appena riuscirò a risolvere il problema metterò anche quello.
Bene, credo di aver detto tutto. Vi lascio alla lettura!
Ireth.




 
NO SOUND WITHOUT SILENCE






There's an art in breaking hearts





 
Le strade di Seoul erano affollate come sempre. Le suole delle scarpe da ginnastica di Park Jimin battevano ritmicamente sull’asfalto del marciapiede, le mani ficcate in tasca, la testa chissà dove. Chiunque lo vedesse passare, consapevolmente o no, non poteva fare a meno di chiedersi a cosa – o a chi – fossero rivolti i suoi pensieri.
Avrebbe voluto saperlo anche lui.
In realtà non pensava a niente, Jimin. Guardava la punta delle scarpe vecchie di anni ormai, pensando solo a camminare, camminare – camminare verso casa.
Probabilmente nessuno se ne sarebbe accorto, ma in quel momento un lieve sorriso fece la sua comparsa sul suo viso.
Forse sapeva a cosa – a chi – pensava ininterrottamente, da quando arrivava nella classe di economia alla Korea University sbattendosi la porta dietro la schiena cercando di non fare troppo rumore – operazione naturalmente inutile – a quando ne usciva. Mentre il suo vicino di banco, Jung Hoseok, chiacchierava ininterrottamente, anche quando avrebbe dovuto prestare attenzione alle parole del professor Seokjin. Un viso da bambino, due occhi scuri che sprizzavano entusiasmo, un sorriso che avrebbe potuto illuminare la casa in cui abitavano insieme da ormai quasi due anni senza bisogno della luce elettrica.
Quella cosa – quel qualcuno – aveva un nome, un cognome e un musetto adorabile: Jeon Jungkook, diciotto anni appena compiuti, primo anno di università, facoltà di medicina.
Jimin sollevò lo sguardo: era finalmente arrivato a casa. Tirò fuori le chiavi dalla tasca sinistra del cappotto e aprì la porta del condominio, per poi dirigersi verso l’ascensore. Arrivato di fronte a quest’ultimo, però, cambiò idea: abitava solo al terzo piano, perché prendere l’ascensore per sei sole rampe di scale? Afferrò il mancorrente verniciato di un insolito verde scuro e saltò con grazia sul terzo gradino facendo svolazzare la parte inferiore del cappotto grigio scuro, cominciando poi a percorrere la prima rampa due gradini per volta.
Non si stupì quando, giunto davanti alla porta di casa, la trovò aperta: non sapeva come, ma Jungkook riusciva sempre a riconoscere il suo passo, e apriva prima che Jimin potesse suonare al campanello o tirare fuori la chiave.
- Kookie, sono a casa! – urlò per essere sicuro di essere sentito dal coinquilino una volta che si fu chiuso la porta dietro la schiena con un tonfo sordo. Si guardò intorno sconsolato: quel ragazzo era di un disordine unico, una volta l’aveva addirittura definito “teoria dell’entropia personificata”, troppo stanco di richiamarlo.
- Lo so, per quello ti ho aperto la porta, idiota di un Jimin – gli rispose una voce acuta proveniente dal loro piccolo studio, fintamente scocciata. Con il sorriso ancora a solcargli le labbra, il ragazzo appese il cappotto all’attaccapanni facendo tintinnare le chiavi all’interno di una delle tasche e diresse i suoi passi in direzione della voce udita poco prima.
Ciò che vide lo lasciò a bocca aperta – non si sarebbe mai abituato a quello spettacolo, anche se lo vedeva ogni giorno. Jungkook era chino su tre libri diversi, osservando concentrato il foglio sul quale stava scrivendo riassunti e schemi per l’esame che avrebbe dato di lì a un mese, se la memoria non lo ingannava. Poi smetteva per qualche secondo di scrivere e mordicchiava la matita, mentre leggeva attentamente la parte successiva.
Lo sguardo di Jimin finì inevitabilmente sulle labbra di Jeon, che accarezzavano delicatamente l’estremità della matita…
Park Jimin, ti prego, controllati.
Chiuse per un paio di secondi gli occhi, stringendo i pugni lungo i fianchi mentre faceva qualche respiro profondo: sì, inutile negarlo, era attratto da Jungkook dalla prima volta in cui l’aveva visto. Ricordava ancora le sue guance arrossate dal freddo di gennaio, le nuvolette di vapore che aveva abbandonato la sua bocca quando gli aveva detto che aveva letto che stava cercando un coinquilino per pagare, sì, beh, per pagare l’affitto del suo appartamento nei pressi dell’università di Seoul, chiedendogli se poteva alloggiare con lui. Ricordava anche quel sorriso che gli aveva fatto quando Jimin aveva risposto che sì, era perfetto, assolutamente perfetto.
- Jiminnie? Tutto bene?
Jimin scosse la testa e sollevò le palpebre, guardando il viso di Jungkook, le sopracciglia lievemente aggrottate dalla preoccupazione e dalla voglia di capire cosa fosse preso al suo hyung.
- Niente, niente, è tutto a posto – lo liquidò con un gesto distratto della mano e un lieve sorriso, andando a posizionarsi di fianco a lui. Si appoggiò con una mano alla scrivania ingombra e avvicinò il viso a quello di Jungkook. – Cosa studia il mio piccolo genietto oggi?
Quello fece un’espressione sconsolata e si coprì la faccia con le mani, lasciando cadere la matita su uno dei libri aperti con un rumore sordo. – Fisica… - annunciò infine, enfatizzando la tragicità contenuta in quella singola, terribile parola.
- Hai ancora un mese per studiare, e guarda, sei già a un ottimo pun…
- No, Jimin, ho ventinove giorni e… che ore sono?
Jimin guardò l’orologio da polso e, una volta che ebbe riappoggiato la mano alla scrivania, rispose: - Sono le sei e mezza del pomeriggio.
- Che cosa?! Sono già le sei e mezza? Ma io devo ancora finire gli schemi del sesto capitolo di questo, e il riassunto di questa pagina qui…
Jimin lo interruppe prendendogli le spalle tra le mani e fissando il suo sguardo con il proprio. – Jeon. Jungkook. Ascoltami bene. Sei un fottuto genio, e hai ancora un mese non osare interrompermi – aggiunse a voce più alta per sicurezza quando vide un lampo correre negli occhi di Kookie, già pronto a correggerlo – per studiare tutta questa roba. Sei già a un terzo del lavoro, e suppongo che tu stia studiando da quanto? Quattro ore almeno?
Jungkook si morse il labbro colpevolmente e i suoi occhi guizzarono cercando una via di fuga che gli permettesse di negare. Jimin aveva fatto centro.
- Come pensavo. Ora io, in qualità di tuo hyung, ti ordino di chiudere questi dannati libri e alzarti da questa dannatissima sedia. Adesso.
- Ma… volevo almeno finire il cap…
- Niente ‘ma’, ora fila a riposarti – gli rispose perentorio Jimin, allontanandosi dal suo viso e posizionando i pugni chiusi sui fianchi in una posa che voleva essere intimidatoria – ma che proprio intimidatoria non era, data la statura non molto elevata del ragazzo.
Jungkook, infatti, si alzò immediatamente e, sfruttando i suoi cinque centimetri di altezza in più rispetto a Jimin, torreggiò su di lui. – Altrimenti che mi fai? – L’espressione di sfida dipinta sul volto di Jungkook lo divertì: con chi credeva di poter fare il gradasso?
- Sicuro di volerlo scoprire?
Il ragazzo più piccolo non fece una piega, sollevando un sopracciglio alla non troppo velata minaccia di Jimin, ma quando lo vide alzare le mani all’altezza del suo busto indietreggiò andando a sbattere contro la sedia, gli occhi spalancati.
- No, non oserai, vero?
Jimin lo guardò e avanzò verso di lui, intrappolandolo contro lo schienale della sedia. – Tu mi hai sfidato… e ora subirai la mia vendetta!
Subito iniziò a fargli il solletico sulla pancia e sui fianchi, ottenendo come risultato un Jungkook riverso sulla sedia che rischiava seriamente di cadere per terra e rompersi qualche osso di vitale importanza – non che Jimin se ne preoccupasse: sapevano entrambi che il più grande l’avrebbe preso comunque. Il fatto di essere attratto da Jungkook, però, non impedì a Jimin di prendersi la sua piccola vendetta: le sue mani salirono alle ascelle, e poi al collo, mentre il ragazzo in suo potere si contorceva sulla sedia dimenando le gambe cercando di allontanarlo.
- Ti prego! Minnie ti prego basta! – non faceva che urlare Jungkook, ma Jimin continuò implacabile, ridendo tra una mossa e l’altra. Solo in quel momento il ragazzo più piccolo sembrò ricordarsi nuovamente di essere più alto, e decise di sfruttare questo particolare a suo vantaggio: proprio mentre il suo hyung era chino su di lui, si sbilanciò in avanti, facendolo cadere sul pavimento e precipitandogli addosso a cavalcioni.
Jimin produsse un mugolio di disappunto, facendo una smorfia: aveva sbattuto la schiena per terra per colpa di quello stupido ragazzino, che in quel momento si ritrovava tutto soddisfatto sopra di lui.
Oh. O mio dio.
Non appena comprese in che situazione si ritrovavano, si irrigidì, il cuore che gli batteva nel petto come una grancassa, e portò lo sguardo oltre la testa di Jungkook, puntandolo sul soffitto che presentava alcune crepe. Iniziò a contarle e a delinearle con il pensiero…
- Che cosa stai guardando, Jimin-ah?
Smise di trattenersi dal guardare Jungkook, ma se ne pentì immediatamente: alcune ciocche color ebano gli erano scivolate sugli occhi, coprendoli in modo disordinato, e aveva il respiro affannato per il solletico. L’unica cosa che Jimin riuscì a pensare fu che fosse tremendamente bello, con il petto che faceva su e giù in modo frenetico, la chioma scura scompigliata, il suo solito sguardo curioso come dipinto a olio nelle iridi scure quasi quanto i capelli.
- Mh… niente, niente – rispose esitante. L’altro lo guardò stranito, poi si strinse nelle spalle e si sollevò dal corpo immobile di Jimin, che tirò un sospiro di sollievo. Se fossero rimasti ancora a lungo in quella posizione, si sarebbe ritrovato uno scomodo problema nei pantaloni, e quella era una situazione assolutamente da evitare.
Ogni volta che i loro corpi si trovavano se non a stretto contatto, quanto meno molto vicini, Jimin si illudeva che, in fondo, Jungkook ricambiasse i suoi sentimenti, o che almeno provasse più di semplice affetto nei suoi confronti.
Invece finiva sempre così: una scrollata di spalle, e facevano entrambi finta che non fosse successo nulla di importante. E anche se ogni dannata volta a Jimin si spezzava il cuore, faceva attenzione a nascondere il proprio dolore: si sarebbe goduto fino in fondo ogni tipo di attenzione che Jungkook gli avrebbe dato, avrebbe raccolto anche le briciole, se fossero state l’unica cosa che gli avrebbe concesso.
Si accorse di non aver più fame, e si ritirò in camera dicendo a Jungkook di aver già mangiato mentre tornava a casa. Scosse la testa guardando la stanza in cui aveva appena messo piede: la metà di sinistra, rivolta verso la finestra, era in perfetto ordine, il letto rifatto, i vestiti riposti nell’armadio sul fondo della stanza. La metà di destra, invece, era tutta un’altra storia: le coperte erano sollevate contro il muro, c’erano fogli, libri e vestiti di vario genere gettati sul materasso o per terra. Il caricabatteria giaceva ancora attaccato alla spina, mentre il cellulare – scollegato – riposava sul cuscino spiegazzato. Sentì il trillo che annunciava l’arrivo di un messaggio, e Jimin non poté fare a meno di sbirciare l’emissario del testo incriminato: un certo “Tae”. Si chiese chi fosse: magari era un compagno di corso di Jungkook, o forse un suo parente. In quel momento, però, Jimin decise di accantonare i pensieri sul suo coinquilino, e si lasciò cadere sul letto socchiudendo gli occhi.
Senza neanche accorgersene, in pochi minuti cadde tra le confortevoli braccia del sonno, salvo poi essere svegliato dallo squillare del suo cellulare, questa volta. Si stropicciò un po’ gli occhi e sbadigliò pigramente, tirandosi su e accorgendosi di avere una morbida e calda coperta di plaid addosso. Stranito, si voltò, e vide che anche Jungkook stava dormendo, una mano pigiata tra la guancia e il cuscino, il viso rivolto verso di lui.
Gli venne da sorridere al pensiero che si fosse preoccupato per lui, tanto da mettergli una coperta addosso per non fargli prendere freddo, o che si fosse addormentato guardandolo riposare; subito dopo, però, si ricordò di essere un semplice amico per lui, e che probabilmente non sarebbe mai significato nient’altro: un amico, un semplice, inutile amico.
Il sorriso si spense sulle sue labbra.
Spinse via la coperta accartocciandola ai piedi del letto e si passò le mani sulla faccia, come se così facendo potesse cancellare i suoi pensieri, cancellare ciò che provava per Jungkook. Ma Jimin sapeva fin troppo bene che sarebbe stato impossibile: per farlo, avrebbe dovuto annullare se stesso e tutto ciò che era stato da due anni a quella parte. Troppo stanco perfino per pensare, prese il telefono in mano per controllare chi avesse osato disturbare il suo sonno. Non appena ebbe visto il nome di chi gli aveva inviato il messaggio e ne ebbe letto il contenuto, una smorfia di divertimento si dipinse sul suo volto, e facendo attenzione a non svegliare Jungkook, uscì dalla loro stanza. Afferrò il cappotto e, dopo aver controllato di avere ancora le chiavi in una delle tasche ed essersi infilato le scarpe, varcò la porta di casa.
Riceveva spesso quel tipo di messaggi, e sempre verso quell’orario: un luogo, sempre lo stesso. “Quando ci vediamo?” Il prima possibile.
In fondo, cos’era meglio di una sana chiacchierata con l’unica persona che lo conosceva davvero, l’unica a cui aveva rivelato quasi ogni suo segreto?
Si ritrovò nuovamente a girare per le strade della metropoli, svolta dopo svolta: ormai conosceva a memoria la strada. Dopo una ventina di minuti, si ritrovò davanti a un palazzo grigio, ricoperto di crepe, ragnatele. Le pareti all’esterno sembravano talmente stanche di stare in piedi da dare l’impressione di poter crollare da un momento all’altro, e spesso Jimin si ritrovava a chiedersi quanta differenza passasse tra lui e quel palazzo in stato di decadenza: quanto avrebbe retto ancora, sapendo di non poter essere corrisposto dall’unico ragazzo di cui fosse mai stato innamorato? Quanto, prima di arrendersi, di crollare a pezzi, come era certo che anche quei muri avrebbero fatto prima o poi?
Park Jimin non voleva rispondere a quelle domande, non in quel momento. Tirò fuori il suo mazzo di chiavi tintinnanti e, una volta scelta la chiave più arrugginita, la infilò nella serratura sgangherata e aprì la porta. Una volta nell’ingresso, prese verso sinistra, dove un’altra porta lo separava ancora dalla sua meta. Questa volta, però, non ebbe bisogno di usare le chiavi: in effetti, quella porta non era neanche dotata di una toppa. Restava semplicemente sempre aperta, perché non ci andava mai nessuno.
Nessuno, tranne due ragazzi, che avevano scoperto come riadattare un vecchio seminterrato a campo da basket in miniatura. Nessuno, tranne Min Yoongi e Park Jimin, che in quel palazzo dimenticato da Dio avevano trovato il loro angolo di mondo, un frammento di infinito, una bolla nella quale potevano rinchiudersi fino a quando il sole era alto. Ore, solo quello chiedevano, per parlare di tutto e di niente, per giocare partite che non avevano vincitori né vinti, in cui non erano i punti a contare, ma la quantità di emozioni e avvenimenti che riuscivano a buttare fuori senza perdere il controllo sulla palla.
Quando il ragazzo entrò nella sala, vide Yoongi già impegnato in una lotta immaginaria contro un avversario invisibile, i capelli tinti di un rosso accesso che svolazzavano intorno al suo viso rotondo a ogni movimento. Avanzò di qualche passo, e dopo due o tre palleggi con la mano destra prese posizione e spiccò un salto, mandando la palla dritta nel canestro. Quella rimbalzò placidamente sul pavimento, fino a raggiungere la punta delle scarpe consunte di Jimin. Il ragazzo, dopo essersi tolto il cappotto e averlo appallottolato contro una parete, si abbassò e la raccolse, iniziando a palleggiare.
- Oggi non sei venuto a nessun corso – disse mentre la palla continuava a rimbalzare tra la sua mano e il pavimento producendo un’eco cui, dopo quasi un anno, aveva fatto l’abitudine.
- Ero da Namjoon. Oggi la seduta è durata più del solito. – Yoongi si avvicinò all’amico e iniziò a girargli attorno, come attendendo un suo momento di distrazione per rubargli la palla da sotto il naso.
Jimin fece uno scatto verso destra mentre l’altro era dalla parte opposta, credendo di riuscire a raggiungere il canestro dinanzi a lui, ma Yoongi gli fu subito addosso, impedendogli di avanzare di un altro passo.
- Mi ha chiesto come va con gli esami, se sono ancora fuori corso. Gli ho detto che mi sono rimesso in carreggiata, ma credo che abbia capito che gli stavo raccontando un mucchio di cazzate – proseguì poi, tentando di togliere la palla a Jimin. Quello, però, scartò all’ultimo secondo, eludendo l’attacco di Yoongi.
- Sei suo paziente da tre anni, è ovvio che capisca quando racconti cazzate. Perché non dici direttamente la verità?
- Abitudine, credo. – Finalmente Yoongi riuscì a fare breccia nella strenua difesa di Jimin, e una volta che fu riuscito a ottenere il controllo della palla, cercò di raggiungere il canestro, venendo però nuovamente bloccato dall’amico.
- Non raccontare cazzate anche a me, Yoon. Perché non gli dici la verità?
- Lo sai il perché.
E Jimin lo sapeva, lo sapeva eccome. Kim Namjoon era lo psicologo di Yoongi da ormai tre anni, e dopo tutto quel tempo passato insieme, tra i due si era instaurato uno splendido rapporto che andava ben oltre quello tra un paziente e il suo psicologo. Yoongi voleva un gran bene a Namjoon, lo considerava il padre che non aveva mai avuto, troppo occupato a pensare al proprio lavoro, alle trasferte in Cina, a litigare con l’ex moglie, o il fratello maggiore di cui aveva sempre avuto bisogno per combattere contro quei genitori per i quali non sarebbe mai stato abbastanza. Yoongi riponeva in Namjoon tutta la fiducia negli adulti che era andata persa nel corso degli anni, e non voleva assolutamente che lo psicologo smettesse di fidarsi di lui a sua volta. Per questo gli mentiva – anche se proprio mentire non era, perché l’altro capiva sempre quando gli veniva raccontata una bugia. Non voleva deluderlo, e allora cercava di fargli credere di essere migliore di quanto non fosse.
- E con il ragazzino come va? – chiese mentre faceva una finta dietro l’altra, mettendo a dura prova i riflessi di Jimin, che rischiò più volte di perdere le speranze e lasciargli spazio. Tuttavia, quella domanda gli mandò una scarica di rabbia nelle vene, che in quel frangente gli fece fare un scatto prepotente verso Yoongi. Riuscì a soffiargli la palla da sotto il naso, dimezzò la distanza tra sé e il canestro in poco più di un secondo e spiccò un salto, mandandoci dentro la palla con violenza.
Mentre la palla rimbalzava rumorosamente vicino a lui per poi superarlo e andarsi a depositare contro una delle pareti della sala, si sentì un sussurro rabbioso provenire da Jimin. – Jungkook non è un ragazzino.
Yoongi sorrise beffardo. – Ti infervori sempre troppo quando qualcuno insulta Jungkook. Anche se non vede quanto soffri per lui, continui lo stesso a difenderlo. Non vedi come ti stai riducendo, come ti sta riducendo?
Jimin sollevò il capo verso l’amico e pensieri amari gli corsero per la testa. – Certo che lo vedo, ma cos’altro posso fare?
- Smettere di corrergli dietro e di soffrire inutilmente?
- No, non posso farlo. Abbiamo già parlato di questo, Yoon. Ci ho provato a smettere di provare questa… questa ‘cosa’ per Kookie, e lo sai anche tu. Ti ricordi, no? Be’, allora ti ricorderai anche che non è servito a nulla, anzi, ha solo peggiorato la situazione.
Yoongi andò a raccogliere la palla e si sedette con la schiena premuta contro il muro, un ginocchio raccolto al petto. Scosse la testa, come qualcuno che rimproveri un bambino per l’ennesima volta. – ‘Cosa’. Quando ti deciderai a chiamarla con il suo nome, questa ‘cosa’? Sono due anni ormai, Jimin, questa non è semplice attrazione fisica.
Non appena udì quelle parole, il ragazzo si irrigidì e cominciò fissare una crepa sul muro, distante pochi centimetri dalla testa di Yoongi. Lo sapeva, lo sapeva che ciò che provava nei confronti del suo coinquilino non era semplice attrazione fisica, ma ammetterlo ad alta voce non avrebbe fatto altro che rendere tutto più reale, e questo equivaleva a soffrire più di quanto non facesse già normalmente.
- Sai una cosa? Oggi Namjoon mi ha detto che c’è un’arte per tutto, e che io dovrei semplicemente trovare quella che fa per me. Non sono convinto di riuscire a trovarne una mia, ma Jungkook ne conosce una fin troppo bene.
- Quale? – gli chiese affiancandolo, abbandonandosi con la testa contro il muro e chiudendo gli occhi.
- L’arte di spezzare i cuori. Con il tuo ci sta riuscendo benissimo. Lo fa ogni volta che ti dà affetto e poi ti ricorda che non sarai mai più di un amico, ogni volta che potrebbe vedere cosa si trova davanti ma preferisce girare la testa e non vedere l’ovvietà.
- Ma tu non eri quello con il grave disturbo dell’attenzione? Da quando te ne esci con queste frasi filosofiche? – fece Jimin ironico, nascondendo dietro una risatina amara ciò che pensava davvero: Yoongi aveva ragione, ma lui… era come sotto il suo controllo, una sorta di marionetta nelle sue mani di inconsapevole burattinaio. Non poteva smettere di girargli attorno, di continuare a seguirlo senza mai riuscire a raggiungerlo. Lo attirava come il polo attrae a sé l’ago magnetico della bussola, in modo naturale, inevitabile e irreversibile.
Yoongi si girò verso di lui, ma Jimin continuò a tenere gli occhi chiusi: non voleva vedere il rimprovero scritto a chiare lettere in quegli occhi neri come la notte lì fuori. Contrariamente a quello che pensava, però, Yoongi non stava cercando di incenerirlo con lo sguardo per il modo infantile in cui si stava comportando. Si era invece alzato in piedi e aveva riposto il pallone nella cesta, poi si era messo ad armeggiare con la giacca blu scuro e si era calcato ben bene il cappello nero sui capelli.
Jimin aprì con lentezza prima un occhio, poi l’altro, per essere sicuro che ciò che stava vedendo non fosse una sua allucinazione. Yoongi lo guardava come a dirgli di sbrigarsi, che non c’era tempo da perdere, e lui si alzò sbadigliando, andando a raccattare il cappotto e infilandoselo guardando interrogativo l’amico.
- Yoon, cos’hai in mente?
- Ho un’ideona che ti piacerà un sacco, ma ora andiamo, dobbiamo fare in fretta. Ti spiego per strada.
 
***


Kim Namjoon osservava il quadro di fronte a lui con interesse. Ne studiava le pennellate di pittura come fossero un codice, come se ci fosse un linguaggio segreto dietro il quale il pittore aveva voluto nascondere un messaggio.
Si ritrovava sempre più spesso a paragonare il Salice Piangente di Claude Monet alla mente di uno dei suoi pazienti, Min Yoongi: era proprio come quell’albero, cresciuto in modo distorto, eppure affascinante. Un’esplosione di colori che a un primo colpo d’occhio potevano sembrare casuali, ma che avevano una loro logica, una loro coerenza interna. Così erano i suoi pensieri: disordinati, indecifrabili. Aveva impiegato tutto il primo anno di terapia solo a guadagnarsi la fiducia di Yoongi, il secondo a cercare di capire come funzionasse la sua mente. Poteva dire, anche con una certa soddisfazione, di essere riuscito a decifrare la maggior parte del suo modo di pensare dopo ben tre anni di terapia, anche se c’era sempre una parte di essi che gli restava oscura, impenetrabile.
Bene, pensò, mi dedicherò a questa parte durante il nostro quarto anno di terapia, Min Yoongi.
Soddisfatto delle conclusioni cui era giunto scrutando la copia del Salice Piangente appesa in salotto, Namjoon si alzò dal divano color panna con il sorriso sulle labbra dirigendosi verso la cucina, da cui provenivano rumori che potevano voler dire una sola cosa: la cena era quasi pronta. Non appena entrò, vide Seokjin occupato ad apparecchiare la tavola con un certo affanno. Prima che potesse dire qualunque cosa, però, l’uomo gli ordinò in tono perentorio: - Kim Namjoon, so che sei lì, ti ho visto anche se tu non credi che io l’abbia fatto. Ora vieni qui e finisci di mettere le posate mentre io controllo che il cibo non si bruci…
- Signor sì signore! – interruppe l’altro scherzoso, guadagnandosi un’occhiataccia dal compagno, che non tardò a redarguirlo.
- Idiota – disse infatti, un attimo prima di voltarsi di nuovo verso i fornelli per terminare la cottura delle ultime cose. Namjoon sorrise: Seokjin era fatto così, doveva avere tutto sotto il suo controllo o andava fuori di testa. Ma era anche incredibilmente narcisista e vanitoso, e lui sapeva come prenderlo. Fai un complimento a un vanitoso o fagli credere di essere migliore di te e otterrai il mondo!, aveva una volta riassunto ironicamente il suo vecchio professore di psicologia ai tempi dell’università; in fondo, era anche grazie ai suoi preziosi insegnamenti che era riuscito a conquistare Seokjin.
Gli si avvicinò e lo abbracciò da dietro, facendo aderire il suo petto alla schiena dell’uomo davanti a sé. Essendo più alto di un paio di centimetri, dovette abbassarsi un po’ per poggiare il mento sulla spalla e sussurrargli all’orecchio.
- Dai, Jin, non fare l’arrabbiato con me… Lo sai che a volte sono…
- So che stai cercando di usare i tuoi trucchetti da psicologo da quattro soldi con me, guarda che non attacca.
Ahia, mi ha beccato, si disse mentalmente Namjoon, ma non si arrese, e decise di tirare fuori il suo asso nella manica: cominciò a lasciare minuscoli baci sulla guancia di Seokjin, accarezzando la sua pelle morbida con le labbra e tracciando intanto disegni immaginari sui suoi fianchi. Quando lo sentì cedere al proprio tocco, rimise una certa distanza tra la propria bocca e la sua guancia.
- Adesso mi perdoni per la mia pigrizia?
L’altro sospirò, ma Namjoon riuscì a intuire l’ombra di un sorriso sbocciargli sulle labbra. – Solo se ora vai a finire di apparecchiare – concluse infine, girandosi per guardare in faccia l’uomo con cui conviveva da ormai cinque anni.
- Va bene, amore – rispose Namjoon prima di abbassarsi su di lui e lasciare un bacio leggero sulle sue labbra rosee. Poi si allontanò da lui, facendo ciò che gli era stato detto.
Si sedette a tavola e, una volta che Seokjin ebbe fatto lo stesso, gli tornò in mente una cosa che voleva chiedergli ormai da tempo.
- Jin… mi stavo chiedendo, se io volessi farti conoscere un mio paziente, per te ci sarebbero dei problemi?
L’altro lo guardò perplesso continuando a masticare con calma, riflettendo sulla proposta che gli aveva fatto Namjoon. Non gli aveva mai chiesto una cosa del degenere: ognuno dei due aveva sempre svolto il proprio lavoro per conto proprio, in particolare Namjoon, dato che aveva l’obbligo del segreto professionale.
Seokjin era indeciso: da una parte, aveva il presentimento che acconsentire l’avrebbe coinvolto in affari complicati, come lo erano tutti i pazienti del suo compagno. Eppure c’era qualcosa, nella possibilità di conoscere questo fantomatico paziente, che lo attirava e lo incuriosiva nello stesso tempo. Inoltre, se non fosse stato molto importante, non glielo avrebbe mai chiesto.
- Mh… no, credo di no, mi farebbe molto piacere. Solo, ecco… - continuò dopo aver preso dell’altro riso dalla ciotola di fronte a lui – perché me lo chiedi solo adesso?
- Vedi… è una situazione un po’ complicata. È un ragazzo che soffre di una forma molto grave di disturbo dell’attenzione: può capitare che, nel bel mezzo di una conversazione, di una lezione, anche di una seduta, il suo cervello smetta di funzionare, come se avesse una sorta di blackout. Inizia a fissare un punto ben preciso e non c’è modo di ‘risvegliarlo’, se così vogliamo dire; si riscuote da solo dopo qualche minuto, senza ricordarsi a cosa stava pensando. Sono ormai certo che alcune parole, frasi, circostanze, gli facciano scattare un qualche meccanismo in testa, una sorta sistema di blocco automatico, come se volesse difendersi da ricordi pericolosi.
Seokjin lo ascoltava attento, senza perdersi un solo passaggio delle parole di Namjoon. La sua mente metteva in ordine tutti i tasselli del puzzle con la solita calma matematica e calcolatoria che gli era propria, costruendo un ritratto psicologico parziale del ragazzo che il compagno gli stava descrivendo.
- Capisco… però non hai ancora risposto alla mia domanda: perché adesso? Perché non qualche mese fa, ieri, tra due giorni? – chiese nuovamente Seokjin con insistenza. Voleva capire cosa stava spingendo Namjoon a fargli conoscere quel ragazzo.
- Mi pare che stia migliorando. Certo, mi racconta ancora delle bugie a volte, ma lo fa perché crede di non deludermi così facendo. Credo che qualcuno lo stia aiutando a… smettere di pensare. I suoi blocchi sono causati dal fatto che compia inconsapevolmente delle associazioni tra il presente e un qualche avvenimento del passato. Se però non ha il tempo di compiere queste associazioni, se sta pensando ad altro, è probabile che abbia meno blackout. Sono convinto che se va avanti così, entro un anno, forse anche di meno, non avrà più bisogno della terapia, e volevo fartelo conoscere prima che ciò avvenga perché… beh, perché dopo tre anni che lo seguo mi sono affezionato a lui, lo considero quasi un fratello minore. Ci terrei davvero tanto a renderti partecipe anche di questo aspetto della mia vita… - disse esitante, passandosi una mano tra i capelli biondo platino. – Allora?
Seokjin soppesò le parole che gli erano appena state dette: aveva ragione, la questione era davvero molto importante, ed era orgoglioso del fatto che Namjoon avesse voluto parlargliene. Anche dopo cinque anni di convivenza, erano i piccoli e i grandi gesti di fiducia reciproca a renderlo felice e – se possibile – ancora più innamorato dell’uomo seduto dinanzi a lui.
- Va bene. Conoscerò il tuo paziente.


 
***


È in un lungo tunnel di cemento. Le pareti sono tutto intorno a lui, si chiudono in un arco tre o quattro metri sopra la sua testa, una grande freccia bianca gli indica di tornare indietro. Non la segue.
Non si ricorda come è arrivato in quel luogo. Sa solo che i suoi piedi si muovono come guidati da una forza estranea, fuori dal suo corpo. Si sente una macchina telecomandata. Vorrebbe sapere chi ha il telecomando. Forse potrebbe chiedergli chi l’ha mandato in quel posto orribile.
Muove un altro passo incerto seguendo i binari della ferrovia, producendo un suono scricchiolante quando schiaccia la ghiaia con le scarpe da ginnastica. Vede una luce alla fine del tunnel, sì: una grande luce. Vorrebbe poter andare più velocemente, ma sente come dei macigni attaccati alle proprie gambe che gli impediscono di correre verso la sua salvezza: perché lui lo sa, se raggiunge la luce sarà salvo.
“Salvo da cosa?” Non ha il tempo di chiederselo, che subito vede comparire al fondo del tunnel, come emersa dalla luce abbagliante, una sagoma indistinta. Stringe gli occhi per vedere meglio. Mano a mano che cammina, passo dopo passo, la figura emerge un poco di più dalla luce bianca, eppure sembra che rimanga sembra alla stessa distanza.

Non capisce.
Cerca di accelerare la sua andatura ondeggiante, ma ottiene solo di affaticarsi ancora di più, le gambe gli fanno male in una maniera indicibile. È come se stesse cercando di camminare attraverso delle sabbie mobili: più si sforza, meno riesce ad avanzare.
Solleva un poco la testa ciondolante: ha sentito una voce. Ha paura, perché lui conosce quella voce, ed è l’ultima che vuole sentire. Eppure ne è attirato, ed è strano come il suo cuore spezzato brami altro dolore, come se non avesse già sofferto abbastanza a causa sua, a causa di quella voce.
Continua a seguirla, come se tutto, la vita, la morte, il pulsare del suo cuore, lo scorrere del sangue nelle sue vene dipendessero da quello: continuare ad ascoltare la voce, avvicinarsi a essa.

Ma per quanto cammini, non si avvicina mai abbastanza: eppure sembra che la figura in fondo al tunnel resti ferma, riesce a vederlo. L’angoscia prende possesso di lui, lo spinge ad andare più veloce… ma ancora le sabbie mobili invisibili lo bloccano, i polpacci gli dolgono terribilmente… tende un braccio, le punte delle dita che si allungano fino allo spasmo con una fatica tremenda…
- Ho… Hob… Hobi…

Poi la luce lo investe.
 
Kim Taehyung si svegliò ansimando in un bagno di sudore. La coperta pesante che aveva addosso lo stava come soffocando. Accese con mano tremante la lampada sul comodino, per poi passarsela sul viso e sentendola bagnata. Fu solo in quel momento che ne rese conto: calde lacrime avevano preso a scorrergli lungo le guance, inumidendogli il collo e il bordo del pigiama azzurro che indossava.
Strofinò la mano sulla coperta per asciugarla e tirò su con il naso. Non era la prima volta che faceva quel sogno – incubo, si corresse mentalmente. Era ormai da mesi che andava avanti così: quasi ogni notte, quelle immagini angoscianti tornavano a fargli visita, come un ospite non bene accetto che si intrufola in casa dalla finestra.
Era anche vero, però, che nelle ultime settimane gli incubi erano diminuiti, e Taehyung sapeva che non era grazie ai sonniferi che riposavano ancora intatti – o quasi – nel mobiletto a sinistra dello specchio in bagno. Un lieve sorriso spuntò sulle sue labbra: un sorriso bagnato delle lacrime di poco prima, un sorriso di tenerezza. Forse c’era qualcuno che poteva tirarlo fuori dal piccolo inferno personale che si era venuto a creare intorno a lui.
Prese il cellulare di fianco alla lampada e digitò rapidamente un messaggio.
 
Tae: Che stai facendo? Dormito bene? xx
 
Dopo alcuni minuti di attesa senza nessuna reazione da parte del destinatario del messaggio, Taehyung guardò meglio l’orario sullo schermo del cellulare: quello che in un primo momento gli era sembrato un sei, era in realtà un tre. Era quindi altamente probabile che la persona che aveva tentato di contattare stesse placidamente dormendo nel suo letto, e non si sarebbe svegliato finché la sveglia non lo avesse costretto ad alzarsi a forza. Diede un’occhiata ai messaggi che si erano scambiati la sera prima: gli piaceva rileggerli, magari sperando in una risposta. Dopo alcuni minuti, però, scosse la testa scoraggiato – e, doveva ammetterlo, un po’ ferito – e rimise il telefono dov’era, senza però spegnere la luce della lampada.
Meglio non correre rischi. La luce tiene lontani i fantasmi, no? Magari avrebbe funzionato.






ANGOLO AUTRICE (parte 2):
Bene, che ne pensate? E' una storia a cui lavoro da parecchio tempo, adesso sono circa a metà con la stesura, e spero tanto che vi piaccia. Se avete voglia lasciate una recensione che tanto fa sempre piacere e niente, ci si vede al prossimo capitolo!
Ireth.

 
  
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: IrethTulcakelume