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Autore: Neferikare    22/05/2016    1 recensioni
Dopo l'ultimo delirio di onnipotenza di Pitch Black, per i Guardiani è iniziato un periodo di relativa pace e calma piatta, uno di quelli che fanno pensare al lieto fine delle favole.
Un periodo che non è però destinato a durare, dopo l'improvviso quanto casuale arrivo di una stella cometa fin troppo ubriaca per capire le conseguenze delle proprie azioni tutt'altro che responsabili, conseguenze che hanno il volto di un antico nemico dimenticato in un Abisso da tutti.
O almeno quasi, tutti.
Perché nulla è per sempre, nemmeno la pace.
Nemmeno l'amore.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Altri, I Cinque Guardiani, Manny/L'uomo nella Luna, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Niente wi-fi.

Niente-wi-fi.

Nulla.

Nada de nada.

Segnale morto.

Defunto.

Ancora.

Di questo passo si sarebbe procurato un criceto e lo avrebbe collegato al computer, chissà che in quel modo così ingegnoso e tecnologicamente poco avanzato sarebbe finalmente riuscito a vedere l'ultimo episodio di America's Next Top Model senza che quell'aggeggio diabolico perdesse la diretta streaming.

Accidenti a Manny ed il canone mensile che si era dimenticato di pagare, accidenti a lui ed a quei dannatissimi operatori del modem: oh avanti, nessuno capiva quanto potesse essere tremendamente noioso starsene in un abisso dimenticato da dio senza nessuno intorno e con la sola compagnia degli occasionali topi e dell'oscurità perenne?

E del computer, della tv al plasma da cinquanta pollici, della playstation 4, della Wii, del condizionatore, della friggitrice, dell'alcool e di una serie non meglio definita di programmi spazzatura che riuscivano ad allietarlo da tipo settecento anni.

Niente male certo, soprattutto quando seguiva le sfilate di Victoria's Secret  appiccicato allo schermo con tanto di bavetta alla bocca, ma sarebbe stato disposto a tutto per riavere un po' di libertà e di luce, la stessa che gli aveva tolto quella sottospecie di alleanza che gli altri guardiani avevano fatto tra loro quando si erano resi conto che lui era solamente uno spirito libero: a chi importava delle loro regole e dei loro doveri, se non volevano accettare che ci fosse qualcuno che non era disposto ad inchinarsi di fronte ai mocciosi umani allora potevano anche andare a farsi fottere allegramente.

O almeno provarci dato che alla fine era stato solo lui a prenderlo in posti dove non batte il sole.

Ah già, laggiù il sole non c’era nemmeno.

Comunque fossero messe le cose in superficie a Phobos poco importava, a lui bastava avere un bicchiere di vodka liscia in mano e poteva anche trascorrere giornate ad ubriacarsi da far schifo persino a sé stesso, poi il suo cervello faceva il resto: fantasticava su come avrebbe distrutti i regni dei guardiani uno per uno, di come si sarebbe preso la felicità dei bambini che Nord amava tanto, del suono delle urla dell’amabile Dentolina mentre le strappava le ali, di quanto sarebbe stato divertente cucinare uno stufato a base di Calmoniglio, del favoloso modo in cui i suoi capelli avrebbero fatto swish mentre si allontanava dalle città in fiamme stile film americani.

E soprattutto di come avrebbe avuto vendetta sul regno di Phantasia, soprattutto quello: era stata la regina di quell’agglomerato di pezzi di terra volanti e cascate fiabesche a gettarlo nell’Abisso, aveva marciato con il suo esercito di animali antropomorfi sulla sua terra riducendo in polvere le foreste con i suoi zoccoli d’oro, aveva sventolato trionfante la bandiera ridotta a brandelli del suo castello mentre squillavano le trombe della vittoria e poi, giusto per dare oltre al danno anche la beffa, lo aveva umiliato farfugliando qualcosa sul fatto che si conoscessero, che lui “non fosse più lo stesso”.

Le avrebbe tolto quella corona dalla testa e l’avrebbe usata come cavalcatura personale, l’avrebbe umiliata pubblicamente e le avrebbe fatto passare l’inferno pur di riprendersi la dignità che aveva lasciato sotto i suoi zoccoli: sarebbe stato lungo, difficile e magari anche pericoloso ma Phobos, che ormai non aveva più nulla da perdere, lo avrebbe fatto.

Proprio mentre era placidamente nei suoi ormai quotidiani pensieri di vendetta notò con amarezza gli effetti dell'alcool iniziavano a farsi sentire, e forse era per quello che quando notò la bottiglia ormai vuota stretta nella sua mano fu preso da un sussulto di rabbia che gliela fece stringere fino a romperla, con tanto di schegge di vetro piantate saldamente nel proprio palmo: restò fermo a guardare il sangue scorrere sulle schegge, a contemplare le gocce che cadevano a terra dissolvendosi nel terreno arido, il tutto lasciando che la propria mente lo trasportasse aldilà di quel muro alto migliaia di metri che lo divideva dalla superficie.

Poi, quasi preso da un'illuminazione, si alzò di scatto stringendo i pugni e non curandosi delle fitte di dolore procurate dai numerosi tagli come se nemmeno li sentisse: si diresse a grandi falcate verso la parte più profonda di quella che ora era la sua casa, una sorta di grossa voragine scavata in un'altra ancora più profonda che era l'Abisso chiusa superiormente da una sorta di intricato labirinto di viticci fioriti resi viscidi dal muschio, infine si inginocchiò davanti all'enorme buco e passò una mano su quelle grate assaporando l'odore pungente dell'umidità: quanto tempo era passato dall'ultima volta che erano state spezzate?

Quattrocento, cinquecento anni? No, probabilmente di più.

Molti di più.

 

Non appena la sua pelle sfiorò quelle fronde il silenzio di tomba che era solito vivere là dentro venne immediatamente riempito da un ruggito così forte da smuovere qualche piccolo sasso dalle ripide pareti, e per Phobos nessun suono fu più lieto: poteva chiaramente distinguere il rumore degli artigli neri come l'ossidiana che cercavano freneticamente di trovare un appiglio al quale appoggiarsi per fuoriuscire dalla gabbia in cui erano stati rinchiusi, lo schioccare dei denti d'avorio che non aspettavano altro che divorare ogni briciolo di speranza rimasto nel mondo, una miriade di occhi di rubino che lo scrutavano fedeli quasi a supplicarlo di tirarli fuori da quel buco infernale.

Riavrete la libertà tra poco tesori miei, pazientate come avete fatto fino ad ora ancora qualche tempo perché l’ora è ormai vicina, pensò mentre si inginocchiava a raccogliere uno dei fiori nati in quel luogo così oscuro: era del tutto simile ad una rosa tranne che per i petali dello stesso colore dell’arcobaleno, una gamma così vasta ed impensabile di colori che, nonostante potessero sembrare decisamente in contrasto fra loro, avevano un’insospettabile quanto raffinata armonia floreale che non si trovava in nessun luogo terreno.

Armonia… quanto odiava quella parola: forse perché nel suo inconscio c’era sempre qualcosa che gli ricordava come l’armonia non fosse mai stata parte della sua vita immortale, forse perché non capiva il motivo per cui gli altri guardiani fossero considerati così armonici con loro stessi e con la natura che li circondava, o forse perché quel nome richiamava fin troppo quello di Harmonia.

Harmonia, regina di Phantasia e guardiana della fantasia, la stessa che si era crogiolata sul suo trono ancora in tenuta da guerra mentre con uno zoccolo lo teneva inchiodato al suolo salutando continuamente il suo popolo che la ringraziava di aver scongiurato ancora una volta la fine del loro mondo, il tutto mentre al suo fianco c’erano schierati Nord e compagnia bella che tenevano a bada i poveri leoni di Phobos che si contorcevano inutilmente nelle reti di sabbia dei sogni create da quella palla rotolante di Sandy.

Ma quello era stato il meno, il peggio era venuto quando lo avevano portato davanti all'Abisso: l'Abisso, una vera e propria crepa creata appositamente per lui dalla magia congiunta dei guardiani che divorava migliaia e migliaia di metri di roccia e terra fino a perdersi in un'oscurità alquanto inquietante nel fondo più buio del mondo, un luogo ben poco ospitale dove aveva passato secoli a lagnarsi del fatto che lo avessero abbandonato lì senza poteri e senza dignità a marcire per il resto della propria esistenza nella noia e nella solitudine.

Solitudine che con il tempo era diventata rimorso, poi rabbia, infine un profondo senso di vendetta sanguinolenta che lo aveva consumato da dentro portandogli via anche l'ultimo briciolo di ricordo che aveva della superficie.

E la sua vendetta l’avrebbe avuta, oh se l’avrebbe avuta.

 

Non capì il perché del suo gesto immediatamente dopo che lo fece, percepì solo che la sua mano si era contratta intorno ad uno di quei viticci verde smeraldo quasi istintivamente e lo aveva stretto, lo aveva stretto con tutte le forze che aveva in corpo: c’era voluto poco perché dal suo palmo si sviluppassero dei sottili filamenti violacei simili a fiammelle brillanti che avevano risalito le dita fino a quando non avevano incontrato il quasi impercettibile bagliore azzurrino proveniente da quelle maledette piante così rigogliose.

Questa volta ne era certo, questa volta le avrebbe spezzate, ormai ce la stava facendo: finalmente, pensò fra sé e sé, finalmente avrò indietro ciò che mi hai tolto!

Ma non fu così, non proprio: c’era stato un rombo assordante come un tuono prima di una tempesta, un lampo così accecante da costringerlo a proteggersi gli occhi per il dolore, una malsana danza di fiamme celesti ed altre viola intenso che si contorcevano come serpi sopra di lui fino a circondarlo, gli sembrava quasi di essere intrappolato nuovamente nella gabbia che Harmonia aveva utilizzato secoli e secoli prima per sconfiggerlo una volta per tutte.

E dinanzi a lui, proprio come allora, si stagliava ancora una volta un immenso cavallo con un corno dorato in fronte che oscurava la poca luce che il lampo gli aveva donato con quelle enormi ali diafane che sembravano dissolversi nell’etere come anche la criniera e la coda, che erano invece di uno strano arcobaleno che andava dal verde acqua, all’azzurro fino al rosa; e poi quel nitrito, quel suono così orribile del tutto simile ad un ruggito, lo stesso che anche in quel momento lo aveva terrorizzato al punto da costringerlo a rannicchiarsi dondolandosi in un angolino buio con la testa fra le ginocchia e le mani sulle orecchie come ad isolarsi da quell’inferno equino.

Non sta succedendo niente, non sta succedendo niente, continuava a ripetersi nel tentativo di calmarsi, lei non è qui, non può essere qui: sei da solo, respira, respira… non sta accadendo nulla, è tutto nella tua testa, tutto nella tua dannatissima testa!

Durò una manciata di secondi, secondi durante i quali Phobos aveva assaggiato nuovamente il terrore della sconfitta nel profondo della propria anima dopo i quali, non senza un certo fragore che risuonava nell’aria, l’immenso cavallo di poco prima si era dissolto esattamente come era arrivato, nell’anonimato più assoluto e senza lasciare tracce di sé.

Senza lasciare tracce, certo, ma alcune c’erano eccome, ed era l’inquietante silenzio proveniente dalla voragine dove si trovavano i leoni dell’altro: erano insolitamente taciturni, anche troppo per i suoi gusti.

Quando Phobos trovò finalmente il coraggio di lasciare la sicurezza della posizione fetale che aveva tenuto fino ad ora e si era avvicinato all’orlo del baratro rimase, nonostante in realtà si aspettasse una cosa simile, leggermente sconvolto: se ne stavano tutti accucciati sul fondo con gli occhi pietrificati, nessuno di loro sembrava dell’umore di smuoversi dal luogo in cui si trovava, figurarsi se avevano voglia di ruggire dopo il colpo che si erano presi.

La verità era che quei felini, per quanto fossero imponenti, erano spaventati a morte dai cavalli in generale, o almeno lo erano da quando si erano imbattuti negli immensi branchi di equini selvaggi della regina durante la leggendaria Guerra che, da ciò che aveva sentito dire da Nord e gli altri, lo aveva “reso  irriconoscibile rispetto a come era sempre stato”.

Ma Phobos non ricordava nulla di ciò che fosse accaduto prima, né tantomeno ricordava di essere stato diverso da come era ora.

E nulla voleva ricordare, soprattutto perché ogni volta che ci provava sentiva delle fitte lancinanti alla testa, era come se una moltitudine di pugnali gli trapassassero la mente da una parte all’altra, come se ci fosse qualcosa o qualcuno che non volesse che lui ricordasse: e forse era proprio per questo che le poche volte che ci aveva provato ci aveva anche direttamente rinunciato dopo aver visto gli scarsi risultati ottenuti, specie quando si trovava piegato in due a rigettare l’anima.

 

Quel suo momento di ritorno ad una condizione di terrore ancestrale era durata fin troppo per i suoi gusti, forse resa ancora più vivida dalla rinnovata potenza con la quale quel dannatissimo unicorno gli si era parato davanti inibendo ogni sua emozione, ma proprio quando era convinto di averla scampata per l’ennesima volta quella sua calma piatta era stata bruscamente interrotta da un tonfo sordo seguito da un’intensa luce che aveva illuminato l’intero Abisso costringendolo a coprirsi gli occhi nuovamente: qualcuno voleva accecarlo quel giorno, ormai aveva l’assoluta certezza sulla cosa.

Tutto quel trambusto lo aveva istintivamente spinto a rimettersi velocemente in piedi e tendere una mano davanti a sé, la quale si era ricoperta dopo pochi secondi di fiammelle nerastre che avvolgevano il braccio come vipere desiderose di stringere qualsiasi cosa, ed ormai era pronto ad ogni evenienza possibile immaginabile.

Tranne un eventuale arrivo di Harmonia, a quello non sarebbe mai stato pronto a sufficienza.

E invece no, tanto rumore per nulla: appena la nube di polvere si era diradata Phobos era riuscito a scorgere una figura che si dimenava freneticamente al ritmo di “Waka waka” con tanto di ritornello eseguito abbastanza a caso con una vocina stridula impregnata di tequila e white russian, figura che era andata delineandosi a suon di curve niente male ed una folta chioma di un intenso color magenta che andava confondendosi con le alte fiamme lì intorno dello stesso colore.

Comet,quell’adorabile creatura che era Comet E. Halley, chi altri poteva essere?

Pericolo centauressa scampato, almeno ora poteva tranquillizzarsi e godersi la solita entrata trionfale da parte di quell’esibizionista di Comet che, come suo solito, era ancora impegnata a dimenarsi in preda a delle convulsioni che dovevano essere un ballo, o qualcosa di molto simile:

«Tsamina mina eh eh, waka waka eh eh! Tsamina mina zangalewa, this time for Africa!» ripeteva ad alta voce uscendo con nonchalance da quella sfera di fiamme cremisi stile Daenerys Targaryen senza far caso a quel povero disgraziato che la guardava ancora tremante:

«Ehm ehm» si schiarì la voce «Non vorrei interrompere questa tua danz-­»

«People are raising their expectations, go on and feel it! This is your moment, no hesitation!» gli parlò sopra come se lui nemmeno esistesse, e allora Phobos aveva capito che avrebbe dovuto aspettare che la canzone finisse per ragionare con lei.

Ok, avrebbe aspettato.

E aspettato.

E ancora aspettato.

 

Finalmente, dopo una serie non meglio definita di “waka waka, eh eh!” la donna si era tolta le cuffie dell’mp4 dalle orecchie, aveva tirato fuori da chissà dove un grosso borsone talmente gonfio da sembrare che contenesse contenere un cadavere e lo aveva trascinato fin da lui buttandoglielo addosso, ovviamente senza far caso agli insulti di dolore che erano partiti:

«Ehilà amicone! Come va la vita nell’umido e freddo Abisso eh? Hai scaricato le ultime puntate di America’s Next Top Model? Le hai scaricate? Eh? Le hai scaricate, Phobos? Eh? Eh, Phob-­»

«No no no! Non ho il wi fi, Comet! Non ho il wi fi cazzo!» le urlò contro mettendosi le mano sulle orecchie per non sentire la sua voce un’altra volta cercando di alzarsi, se non fosse che un piede gli era rimasto incastrato nelle cinghie del borsone ed era caduto rovinosamente a terra mangiando terra con un vago sapore di tequila.

Ancora a pancia all’aria aveva riaperto gli occhi a fatica trovandosi sopra Halley con lo sguardo alquanto divertito dalla situazione, soprattutto quando aveva tirato fuori una tessera magnetica che aveva preso a sventolargli davanti:

«Sapevo che Manny non ti aveva pagato il wi-fi questo mese, quindi ho provveduto a farlo io al suo posto, non devi ringraziarmi: sono o no la migliore compagna di trombaris che puoi trovarti?» chiese ammiccando ma, proprio quando Phobos stava allungando la mano speranzoso di afferrare la preziosa reliquia, lei l’aveva allontanata ridacchiando:

«Chissà cosa vuole questo povero disgraziato… vuoi questa? Ma davvero? Nah, non credo.»

«Avanti Comet, sono in astinenza da serie tv!» la pregò con le lacrime agli occhi, ma la donna sembrava impassibile ed anzi compiaciuta da quel teatrino pietoso:

«Trovati un lavoro e pagatelo da solo il canone mensile, alza il tuo regale culetto e vai a domare leoni, chissà che fai qualche spicciolo.»

«Comet… ti prego, ti scongiuro.»

«Non ho voglia di essere buona oggi, mi sono anche trovata davanti quella sottospecie di piccione nero e fumoso che si lagnava di quanto facesse pen-­» stava per dire quando l’altro l’aveva afferrata per la nuca e l’aveva tirata verso sé strappandole un bacio a tradimento che, ovviamente, gli aveva dato il tempo di prendersi la tessera senza problemi:

«Tuttavia, posso fare un’eccezione: muoviti e sistema il divano, abbiamo l’alcool e lo streaming, possiamo andare avanti fino all’eternità così.»

«Alcool, streaming e trombaris, non dimentichiamoci del nostro vecchio amico di post-bevute selvagge da qualche secolo» aveva detto buttandosi sul divano di pelle afferrando una bottiglia che Comet le aveva allungato, raggiunto poco dopo dalla stessa che si era invece occupata della parte burocratica del leggendario abbonamento mensile degli streaming.

E allora il mondo aveva ripreso a girare dalla parte giusta.

O almeno, lo aveva fatto fino a quando non era stato interrotto da un rumore alquanto inquietante simile allo stridio del metallo che sembrava scarnificare la fredda roccia dell’Abisso nel buffo quanto efficace tentativo di raggiungere il fondo dove si trovavano i due compagni di bevute: non era Harmonia, non poteva essere davvero lei, a meno che non si fosse fatta spuntare improvvisamente degli artigli d’acciaio con i suoi miracolosi poteri.

Quasi d’istinto Phobos si era alzato di scatto ed aveva gettato la bottiglia mezza piena a terra sostituendola con un lampo violaceo-nerastro che si era materializzato sulla sua mano, il tutto nella totale indifferenza della ragazza, che invece continuava a starsene sdraiata comodamente sul divano come se nulla fosse; e la cosa non gli andava giù a giudicare dalla netta sensazione che quella cosa si stesse avvicinando, fatto confermato dal continuo tremolio dei sassi e dei pezzi di pietra sparsi a terra:

«Comet dammi una mano, abbiamo visite nell’Abisso» asserì serio assumendo un’espressione degna di un condottiero, ma lei non se lo filò nemmeno di striscio:

«Eh? Oh Phobos, datti una calmata, ho tutto sotto controllo.» rispose lei con nonchalance, ma lui non era proprio convinto:

«Comet cazzo! Muovi il culo da quel fottuto divano!» la incitò nuovamente alzando la voce, ovviamente senza nessun effetto.

E allora aveva perso la pazienza: si era girato, aveva afferrato i lembi della coperta sulla quale era sdraiata la donna e niente, l’aveva tirata con forza facendola cadere rovinosamente a terra con l’aspetto di un fusillo rigato a strisce azzurre e gialle; quando lei si era rialzata non si era affatto lamentata, ma la forchetta con la quale stava mangiando la cheesecake che si stava sciogliendo male aveva parlato al posto suo, ed anche quel sorrisetto compiaciuto aveva fatto lo stesso.

Pessima mossa.

Non aveva ancora realizzato ciò che stava accadendo quando si era sentito schiacciare a terra da qualcosa di tremendamente grande, una figura nera che lo aveva sovrastato per poi artigliargli il collo e scaraventarlo rovinosamente contro la parete dell’Abisso; Phobos non aveva avuto il tempo di reagire che quella figura, grande su per giù una decina di metri abbondanti a vederla da quella posizione, si era girata di scatto ed aveva spalancato quelle che dovevano essere grosse ali membranose lanciandosi in una furiosa corsa verso il poveretto.

Che si sarebbe anche spostato, se la tunica non si fosse impigliata in un ramo.

Era colpa di Harmonia anche quello, ovviamente.

Per quanto di solito Phobos non temesse nulla tranne quella giumenta troppo cresciuta, per quanto di solito ostentasse un’amara sicurezza e fiducia nelle proprie capacità, quella volta proprio non ce l’aveva fatta a guardare la scena in prima persona, esattamente come non aveva trovato il coraggio di alzare lo sguardo mentre Harmonia innalzava la propria bandiera sulla sua fortezza ormai decaduta: si era rassegnato, aveva ceduto allo spettro dell’insicurezza che sentiva aleggiare nella propria anima dal primo istante in cui era stato gettato a peso morto nell’Abisso come si getta via un giocattolo del quale ci si è stancati.

Ad un certo punto, ad occhi chiusi e con il fiato mozzato in gola, aveva avvertito una pressione insopportabile premergli il petto contro la roccia nuda mentre una lama fredda come l’acciaio disegnava percorsi sanguinolenti sulla propria fragile pelle, un rantolio sordo accompagnato da un sinistro quanto pungente odore di zolfo misto a carne bruciata ad appena qualche centimetro dal suo volto che andava sommandosi al violento suono dell’aria frustata con violenza.

Phobos era ormai pallido per il terrore più puro, uno di quelli sui quali Pitch Black un tempo ci avrebbe banchettato volentieri, nulla a che vedere con l’ombra dell’uomo che era stato che andava trascinandosi  a quel tempo.

Aveva atteso qualsiasi cosa in quegli istanti di paura cieca, morte o vita che lo attendesse, ma i rassicuranti passi di Comet, impossibili da non riconoscere per via dello scricchiolare delle foglie bruciate che li accompagnavano, avevano fatto sì che un barlume di speranza si accendesse nella mente di quel povero disgraziato; anche se non poteva vederla aveva chiaramente avvertito il suo lento avvicinarsi ed il successivo fermarsi poco lontano dalla gabbia nella quale si era trovato costretto, poi aveva sentito una specie di grottesco gorgoglio fin troppo simile alle fusa di un gatto di qualche misteriosa dimensione a lui sconosciuta:

«Mi ero dimenticata di avvisarti prima del mio arrivo, Phobosuccio mio» disse fra una risatina di scherno e l’altra mentre gli afferrava il mento con una certa sensualità

«Fidati di mamma Comet e apri quegli occhioni da cerbiatto omicida, voglio presentarti il mio nuovo animaletto fresco fresco di giornata.» gli disse incitandolo ad aprire gli occhi dato che la sua morte, almeno sperava, era appena stata rimandata.

Ma avrebbe preferito averli tenuti saldamente chiusi, quegli occhi: all’inizio aveva sperato si trattasse di qualche drago trovato abbastanza a caso nei meandri della galassia, poi il pensiero si era spostato sul basilisco che viveva nei laghi poco lontano dall’Abisso, ma l’ultima cosa che avrebbe pensato di trovarsi davanti, e della cui esistenza sapeva poco o niente, ora s ela trovava davanti con le zanne sporche di brandelli di carne snudate.

 

Il ciciarampa.

Il fottuto ciciarampa di Alice Castle Wonderwood.

La principessa guerriera di Fairy Oak.

L’amichetta di Harmonia.

E quel coso si trovava davanti a lui.

Nell’Abisso.

Era fottuto.

 

Lo sgomento iniziale si era presto trasformato in panico totale, un’ansia crescente che lo aveva portato a dimenarsi gridando come un cretino ricavandoci solo una costellazione di graffi e squarci sui vestiti che ci mancava poco lo lasciassero nudo come un verme, il tutto fra un’imprecazione di Comet ed un ringhio innervosito della bestia; ora che lo guardava bene in effetti non c’erano dubbi che si trattasse del mostro che Alice aveva messo a guardia delle porte della città, anche s elo aveva visto ben poco era ben difficile dimenticarselo: il corpo era fondamentalmente quello di un drago come tanti ne aveva visti di un malsano color grigio-verdastro, solcato qua e là da profonde cicatrici rosee di antichi scontri contro chissà cosa, la testa piuttosto appiattita era un misto fra quelle di un serpente e di un pesce di altri tempi, incassata in una sorta di corona membranosa formata da barbigli simili a quelli dei pesci gatto e dalla pelle sottile piena di venature, gli arti sottili che si addicevano al corpo snello dal quale si diramavano due grossi ali da pipistrello consumate da buchi grandi quanto il palmo di una mano e da tagli sottili come foglie, decisamente sproporzionate rispetto al corpo esile, che andavano a terminare verso la coda, una frusta coperta da quelle che non si capivano essere squame, scaglie o un’ispida peluria nerastra.

E poi gli occhi, due rubini intrisi di sangue piantati sulla sommità del lungo collo dal quale pendeva ciò che rimaneva delle catene con le quali Alice si assicurava che quell’animale non scappasse da Fairy Oak o che, molto peggio, non uccidesse nessuno dei suoi abitanti.

Solo che ora era libero, e Phobos lo aveva a mezzo metro di distanza.

Tuttavia, se lui aveva iniziato a tremare come un ramoscello durante una tempesta, allora l’altra continuava ad accarezzare la testa di quello scherzo della natura con tutta l’indifferenza che il mondo potesse offrirle, e la cosa aveva iniziato a preoccuparlo più del mostro stesso:

«Hai rubato il ciciarampa di Alice! Hai rubato il ciciarampa cazzo! Il ciciarampa!» le sbraitò contro liberandosi dalla presa di quegli artigli, che si erano dischiusi con molto probabilità solo perché che si erano dischiusi solo perché avevano iniziato a grattarsi l’orecchio, o qualunque cosa fosse, nemmeno si trattasse di un coniglio godurioso, ma la donna aveva solo fatto spallucce:

«Non l’ho proprio rubato nel senso stretto del termine: lui era lì incatenato, mi faceva anche un po’ pena quindi niente, ho pensato che ad Alice non sarebbe dispiaciuto se avessi preso il suo animale da compagnia, o comunque ne avrebbe trovato uno simil-»

«Simile? Simile? Il ciciarampa è uno solo Comet, uno solo!» insistette con la rabbia a livelli spaventosi, abbastanza perché Comet avesse un sussulto di sorpresa:

«Oh avanti, non essere così sever-»

«Quel coso è stato creato all’alba dei tempi con chissà quali sortilegi per custodire Fairy Oak, secondo te ne trova un altro, eh? Rispondim… smettila di volteggiare a testa in giù cazzo! Non mi sto divertendo, cretina che non sei altr-­­» non fece in tempo a finire che sentì la guancia sinistra bruciargli in modo a dir poco insopportabile per l’improvviso schiaffo che aveva ricevuto:

«Nessuno mi dice cosa devo e cosa non devo fare, se volevo un capo che mi pagasse la pensione di vecchiaia iniziavo a lavorare come Guardiana per Manny, cosa credi?» gli disse non con un’espressione arrabbiata, ma con una alquanto inquietante:

«Un tempo i nostri incontri erano più trombaris e meno parlaris, erano più le serate dove eravamo sbronzi da far schifo che quelle dove eravamo anche minimamente sobri: pensi troppo Phobos, pensi troppo a quella giumenta vogliosa e poco al vivere la tua misera quanto eterna esistenza in questo buco di fogna in modo non dico decente, ma almeno presentabile.» lo rimproverò sistemandosi il vestito e scostando i capelli dal volto scoprendo un’aria severa:

«Non mi serve un moralizzatore Phobos, ne abbiamo già parlato abbastanza l’ultima volta che hai avuto una crisi nervosa: io me ne vado, e non intendo tornare se devo trovarmi davanti il Sandy della situazione o, ancora peggio, un Pitchone che vuole farsi compatire nella sua miseria; richiamami quando ti sarà passata la voglia di morale e ti sarà tornata quella di trombaris, fino ad allora ciaone proprio.» asserì sorridendo e facendo per svolazzarsene via come solito.

Phobos era sconvolto, abbastanza perché le afferrasse una caviglia trattenendola:

«Ed io cosa me ne faccio di quello? Dove lo nascondo un mostro di quindici metri! Dimmi dove lo nascondo se arriva Alice!» le urlò contro ricevendo di rimando una risata di scherno:

«Non è un mostro, si chiama Necrohunger, per chiarirci.» puntualizzò severa:

«Te lo regalo, magari ti fa compagnia e ti passa questa voglia di zoccolate regali sul culo da parte di Harmonia che probabilmente trovi anche eccitanti dal punto di vista sessuale, amante del sadomaso come sei: ti lascio anche l’alcool, male che vada troverò il tempo di fare una visita alle cantine di Fairy Oak, ho scoperto che hanno una vasta scelta di birre là dentro, un salto veloce non può che farmi del bene… e lo farebbe anche a te.» concluse sparendo in un lampo color magenta prima che l’altro potesse controbattere.

 

Era andata via.

Anche lei.

Non poteva permettersi di perdere anche Comet, non ora che lo avevano sbattuto nell’Abisso: forse nella parte della sua vita che non ricordava aveva anche avuto degli alleati, forse addirittura degli amici dei quali si fidava, ma ora come ora Comet D. Halley era l’unica che andasse a trovarlo qualche volta, l’unica che gli faceva sentire un po’ meno gli artigli brucianti della solitudine che aveva preso a consumarlo con una ferocia inaudita negli ultimi secoli, per non parlare del fatto che fosse una delle poche creature in grado di introdursi nell’Abisso senza che le armate di Harmonia si muovessero per una violazione simile.

E poi gli pagava il wi-fi, soprattutto quello.

Eppure niente, aveva perso anche lei.

Come sempre, del resto.

 

Ecco in cos’era davvero bravo, a perdere le persone che aveva intorno, ad allontanarle fino a quando non erano loro a scappare a gambe levate: prima il suo passato del quale ricordava poco o nulla, poi i Guardiani che dicevano quanto lui fosse cambiato e diventato quello che era adesso, poi ancora Harmonia che lo aveva pregato in ginocchio di tornare ad essere il Phobos che lei aveva amato, ed ora Comet che gli dava buca a causa dei suoi disagi mentali e di tutte quelle questioni morali snervanti che portavano solo ad un amaro senso di inutilità e delusione.

Faceva male perdere qualcuno, ma Phobos non avrebbe mai ammesso a se stesso una cosa simile, non si sarebbe mai ritirato in un angolino a piangere per sfogare tutta la rabbia che si portava dentro da secoli.

Sarebbe scoppiata, quella rabbia, lo avrebbe fatto da un giorno all’altro, lui lo sapeva: c’era una sensazione che lo tormentava da qualche settimana, una sorta di istinto che gli ruggiva dentro per farsi sentire come se stesse dicendo “Lasciamo andare, lasciami uscire da questo angolo buio della tua mente e lascia fare a me quello che tu non hai nemmeno il coraggio di immaginare perché sei troppo codardo per ricordare.”

In secoli e secoli aveva aspettato il momento buono per andarsene dall’Abisso, ma la verità era che non aveva mai trovato la spinta giusta per decidersi a farlo, e in realtà non aveva nemmeno la forza per una cosa simile: erano serviti gli sforzi congiunti dei Guardiani, di Alice, di Harmonia e di tutti i suoi generali per scavare l’Abisso, una ferita profonda chilometri e chilometri sul volto del pianeta, ma era stata Harmonia da sola a rinchiuderci dentro lui ed i suoi leoni perché non potessero più nuocere a nessuno come avevano fatto fino a quel momento.

Senza contare che gli erano stati tolti quasi completamente i propri poteri, quelli con i quali aveva raso al suolo il regno di Nord quando questo era stato scelto come il campo di battaglia fra le forze dei guardiani e le sue: con il tempo aveva acquistato nuovamente una minima percentuale della magia che possedeva inizialmente, ma era davvero troppo esigua per pensare di poterla sfruttare per scappare dall’Abisso una volta per tutte.

Ok, in realtà l’Abisso se ne stava bellamente aperto, ma la magia della regina della fantasia era abbastanza potente da impedire a chiunque di penetrare all’interno di quella gigantesca fenditura, a chiunque tranne a quelli come Comet, quelli che trascendevano le regole di Manny.

A meno che Manny non fosse stato distratto, allora in quel caso avrebbe potuto farsi gli affari suoi in santa pace senza che lui non si accorgesse di nulla.

Un’eclissi lunare, una di quelle che coprivano il satellite per mostrarne l’Altro Lato della Luna, ecco cosa gli avrebbe fatto davvero comodo: durante le eclissi l’influenza di Manny sui guardiani si indeboliva di parecchio rispetto alla norma, quasi scompariva per quei pochi istanti, e se avesse potuto approfittarne per… no, non c’erano eclissi, non ne aveva mai viste in secoli di attesa.

A meno che non l’avesse provocata.

Comet non era ancora arrivata fuori dall’Abisso, ormai conosceva bene il tempo che impiegava per arrivare da lui e successivamente andarsene, e da quelle considerazioni scaturì la voglia malata di azzardare anche quell’idea che gli frullava in testa da tempo immemore:

«Comet! Comet aspetta un attimo! Aspetta!» aveva urlato con l’intima speranza che l’altra avesse sentito quel gridolino disperato, e in effetti la speranza l’aveva persa quando si era trovato da solo con il silenzio, interrotto qua e là dai rantoli del ciciarampa visibilmente irritata dalla mancanza della nuova padroncina; ma fortunatamente la donna l’aveva sentito, ed era tornata indietro in una cascata di fiamme cremisi in uno spettacolo alquanto egocentrico:

­«Sì, cosa vuoi ancora? Ti avviso che se non si tratta di trombaris non ne voglio sapere nul-»

«Io e te. Divano. Ora. Ma voglio qualcosa in cambio, qualcosa che puoi fare solo tu.» rispose con una vaga aria di sfida negli occhi, un’espressione di riscatto che anche Comet, in tutti quei secoli di conoscenza, aveva faticato a vedergli addosso.

Phobos sperava che il tirare in ballo il trombaris potesse avere un qualche effetto sull’innata curiosità sessualmente ambigua di quella creatura sociale fatta d’altofuoco e menefreghismo e, come aveva previsto, la ragazza si era avvicinata toccando terra con una leggerezza innaturale:

«Di cosa si tratta?» domandò incuriosita piegando la testa su un lato con fare sospettoso, atteggiamento che poco dopo era andato svanendo quando l’altro le aveva accarezzato amorevolmente la guancia: l’aveva in pugno, mancava così poco.

A quel punto aveva cercato di tirare fuori tutto il suo charme, tutta l’esperienza che il passato gli aveva concesso di mantenere con le donne: tranne con centauresse e simili, ma quella era un’altra storia che sarebbe stato meglio tenere fuori da quella situazione; Phobos prese a scostarle i capelli incurante delle fiammelle scarlatte che vagavano sulla sua mano, se quel che aveva in mente fosse andato in porto un paio di ustioni sarebbero state decisamente trascurabili:

«Devi oscurare la Luna, mi bastano pochi minuti ma devi farlo, Manny non deve vedere.» asserì con uno sguardo cupo, tanto che Comet lo squadrò da capo a piedi:

«Sei sicuro di non essere ubriaco? Cosa accidenti vai blaterando?» domandò confusa, ma se c’era una cosa che Phobos sapeva fare era convincere le persone:

«Avanti tesoro, si tratta di una cosuccia da nulla paragonata alle tue capacità: tu eviti che Manny mi veda per una manciata di minuti, ed io ti faccio fare tutto il trombaris che vuoi, possiamo continuare fino all’eternità se ti aggrada la cosa.»

E Phobos sapeva che l’aggradava, oh se lo faceva.

Eppure a Comet il dubbio era rimasto, tanto che aveva allontanato la mano dell’uomo:

«Non per farmi gli affari tuoi, Phobosuccio, ma che cosa Manny non dovrebbe vedere, esattamente? Abbiamo sempre fatto trombaris senza tutti questi problemi, per caso l’andropausa ti ha fatto salire la vergogna di mostrare il tuo amichetto all’Uomo della Luna?» chiese ridendo ed indicando un punto fin troppo definito verso l’inguine dell’altro:

«Abbiamo già appurato che la regola della elle non è valida, non penso che tu possa aver sviluppato una crisi esistenziale su quanto il tuo pene sia più grande rispetto a quel-­

«Ci stai o no?­» domandò a bruciapelo cogliendola abbastanza di sorpresa.

 

Non seppe quale divinità lo assistette in quegli istanti di tensione in cui gli occhi color magenta di Comet si incontrarono con i suoi che parevano oro liquido, non seppe nemmeno come Harmonia non lo avesse ancora fulminato per quel complotto attraverso i suoi mistici poteri da big queen, stava di fatto che ad un certo punto si trovo la mano stretta in una presa decisamente convinta da parte della donna, che lo osservava con un sorriso compiaciuto:

«Ci sto Phobosuccio, per il trombaris questo ed altro» confermò iniziando a volteggiare visibilmente eccitata dall’idea che avrebbe avuto la serata ubriaca che tanto agognava:

«Dammi una decina di minuti e intanto preparati per l’ennesima delle nostre avventure sessualmente perverse, prendi anche il ghiaccio che la tequila mi piace fredda: già arrivare fino a Manny è complicato, farlo senza che le guardie della tua amica e di tutti i suoi compagni guardianosi ci scoprano e tutt’altro lavoro, ed è decisamente più difficile.» spiegò assumendo quello che doveva sembrare un atteggiamento serio ma che era risultato essere l’ultimo di tanti atteggiamenti ambigui tipici di Comet, per poi subito sparire lasciando dietro di sé una striscia di fiamme che sembravano poter ghermire anche la nuda roccia fredda, le quali erano andate diradandosi poco dopo in una soffice nebbiolina rosata.

Era fatta.

L’aveva convinta.

Non poteva nemmeno crederci.

L’attesa era stata qualcosa di incredibilmente snervante, soprattutto perché era incredibilmente complicato vedere fuori dall’Abisso dal fondo dove lui si trovava, e la tensione non era palpabile solo per lui: nonostante il Ciciarampa di Comet lo avesse preso ben poco in simpatia fin dal primo istante ora se ne stava accucciato in un angolo con le zanne snudate in un costante ringhio di paura ed intimidazione allo stesso tempo mentre i suoi leoni, fino a pochi minuti prima terrorizzati dall’improvvisa apparizione del sigillo imposto dalla magia di Harmonia secoli addietro, ruggivano come non facevano da tempo immemore, il rumore degli artigli che raschiavano la pietra come se volessero squarciare la terra per tornare dal loro padrone dopo chissà quanto tempo di prigionia.

Sarebbero tornati, lo avrebbero fatto presto, Phobos ne aveva l’assoluta certezza.

Ad un certo punto, così preso e concentrato su se stesso ed i propri progetti, quasi non aveva fatto caso al bagliore rosato nel cielo blu note appena percettibile da dove si trovava: dunque Comet era arrivata dove doveva, ed evidentemente era pronta ad iniziare quel piano che, se mai fosse riuscito ad andare a buon fine, lo avrebbe tirato fuori da quel buco; forse quel lampo era stato il suo modo per dirgli “ed ora stai a guardare, bellezza, mentre ti mostro di cosa sono capace pur di avere il trombaris”, o più probabilmente era solo l’inizio di uno dei suoi soliti spettacoli decisamente ed immensamente egocentrici.

Poco male, gli bastava che funzionasse.

O almeno lo sperava, dato che Manny non era l’unico occhio presente in quel cielo notturno: c’era l’Altro, c’era quella donna sulla costellazione di Orione e c’erano i Pilastri della Creazione.

Manny era ben circondato di alleati come di nemici, su quello non poteva avere dubbi, ma ora anche lui avrebbe avuto la fetta di quella torta, quella che gli avevano rubato secoli prima.

Se tutto fosse andato a buon fine, ovviamente.

Comunque sarebbero andate le cose, per ora Phobos si limitava ad osservare la scena dal fondo dell’Abisso con tutta la calma che poteva concedergli il Ciciarampa che aveva poggiato il proprio fondoschiena squamoso-peloso-pescioso sul divano:

«Penso sia inutile chiederti di spostart-» gli fece notare ricavandone solo un ringhio annoiato di disapprovazione, così fece spallucce ed afferrò i popcorn che Comet aveva portato per la serata a tema Game of Thrones, ma proprio mentre lo faceva l’altro aveva infilato il proprio muso nella ciotola coprendo di bava i pochi chicchi rimasti dentro:

«Mi prendi per il culo? Non mi faccio sottomettere da un pollo gigant-­» disse senza finire la frase che si trovò coperto di saliva alquanto viscida fino alle punte dei lunghi capelli rosso rubino.

Almeno non avrebbe dovuto metterci il gel, se doveva vedere il lato positivo della cosa.

Fu questione di secondi prima che avvertisse un boato provenire dall’esterno, e allora aveva capito che lo spettacolo era iniziato, il suo spettacolo.

Ora doveva solo aspettare che venisse calato il sipario.

 

Arrivata nel vuoto dello spazio, ad appena qualche chilometro dalla Luna, Comet si era fermata qualche istante a contemplare quello che gli umani consideravano un semplice satellite del loro pianeta ma che, allo sguardo di un Guardiano o di una creatura come lei, altro non era che la base di quel big boss che era Manny, noto anche come l’Uomo della Luna, lo Stronzone Astemio o il Caino di turno a seconda dell’interlocutore.

E del suo gemello sociopatico con manie di protagonismo, ma quella era una questione ben più spinosa che a lei certo non poteva interessare, menefreghista com’era.

Era bella, la Luna, quella specie di sfera bianca che sembrava immobile nell’oscurità dell’Universo quasi a sorvegliare dalla sua postazione ciò che la circondava, e da alcuni punti di vista era proprio così: Manny non interveniva mai, quando non aveva interessi particolari, lui si limitava ad osservare, osservare ed ancora osservare, ritanato com’era nella sua base con fiumi d’aranciata e caramelle mou, ma allo stesso tempo non si lasciava sfuggire nulla in nessun luogo.

Ma per sorvegliare bisogna vedere l’oggetto della propria sorveglianza, ed era proprio per quello che Comet si trovava lì: l’influenza dell’Uomo della Luna sui guardiani, la sua opera di osservazione continua, la mancanza di poteri di Phobos, tutto dipendeva dalla costane presenza di Manny che si manifestava nel cielo ogni notte, in qualsiasi condizione atmosferica.

Tranne durante un’eclissi totale lunare: se un’eclissi oscurava la vista della Luna da ogni luogo conosciuto ai Guardiani e viceversa, Manny non poteva vedere, e quindi non poteva nemmeno intervenire.

E lo scopo era proprio quello.

Comet non ci aveva messo molto a richiamare a sé tutta la forza che si portava dentro, una sorta di potere che si portava dentro da quando ne aveva memoria: qualche secondo ed il suo corpo era stato avvolto dalle stesse fiamme rosate mostrate poco prima a Phobos, talmente intense e luminose da farla sembrare del tutto simile ad un piccolo Sole in miniatura che nulla aveva da invidiare alle stelle più brillanti del firmamento, le sottili strisce color magenta che andavano a confondersi con i folti capelli dello stesso colore in quella che ricordava vagamente la danza che l’altofuoco faceva quando veniva scatenato contro chi si trovava sul proprio cammino.

E adesso sul cammino di Comet E. Halley c’era la Luna.

Non voleva distruggerla, ovviamente, ma sarebbe ugualmente bastato, oltre a dare una mano a Phobos, anche a dimostrare a Manny fin dove riusciva a spingersi quando aveva qualcosa per cui impegnarsi, il che era decisamente raro data la sua natura incredibilmente dedita al fottesega generale che l’accompagnava fin dal primo giorno in cui si era trovata in quel misterioso luogo chiamato Universo, fra i complotti dei Guardiani e quelli della Costellazione di Orione con annessi e connessi.

Ancora assopita nel suo dolce naufragare nel mare stellato del firmamento non si era nemmeno accorta delle sue fiamme che si erano sparse qua e là iniziando a donare alla Luna un malsano color magenta, a dir poco accecante agli occhi di chi non fosse abituato alla luminosità della distruzione come lei: la superficie biancastra del satellite che andava pian piano sparendo in un sottile velo pietoso steso da una forza della natura come Comet E. Halley, i crateri ormai ridotti a chiazze rossastre dove decine di serpenti fiammeggianti combattevano fra loro innalzando colonne d’altofuoco che avrebbero continuato ad ardere fino alla fine delle stelle, la Luna che sembrava sempre di più simile al Sole non troppo lontano per intensità e luce con la differenza che, se l’astro si sarebbe spento arrivato alla sua fine, le fiamme che bruciavano l’aria del satellite terrestre lo avrebbero fatto solo quando Comet lo avrebbe comandato.

E cioè appena vide un lampo violaceo ruggire dalle profondità del cosmo con una violenza tale da scatenare un’onda d’urto che aveva investito le sue fiamme dissolvendole in qualche istante ancora prima che fosse lei a comandarglielo: aveva percepito qualcosa, una sorta di immensa forza liberarsi dai meandri dell’Universo, un qualcosa che le sembrava tremendamente sbagliato ma che allo stesso tempo, a conti fatti, non avrebbe nemmeno dovuto interessarle.

I poteri di Phobos, ecco cosa doveva essere ciò che aveva percepito: nessuno sapeva dove Harmonia avesse seppellito l’oscurità che aveva corrotto la sua anima dopo la guerra nella quale, sempre a suo dire, l’aveva perso, nemmeno Comet nei suoi secoli di vagabondare era riuscita a scoprirlo con certezza, ma qualsiasi posto fosse ora non importava più, dal momento che era appena stato violato malissimo nemmeno fosse la linea Maginot.

E probabilmente lei non era stata l’unica ad avvertirlo.

 

 

Il potere.

Il suo potere.

Lo poteva sentire chiaramente adesso, ogni singola cellula del suo corpo stava gridando come mai aveva fatto negli ultimi secoli per riprendersi il nutrimento della quale erano state private, ogni atomo della sua coscienza sembrava essersi appena risvegliato da un letargo durato quella che gli era sembrata un’eternità: Phobos non si aspettava una reazione così violenta da parte del proprio corpo, era qualcosa di totalmente inaspettato e stranamente piacevole, una fitta lancinante, esattamente come quella che aveva provato mentre Harmonia gli strappava dal petti propri poteri.

Ma questa volta avrebbe sopportato, avrebbe patito anche le pene inflitte dai Chandrasekhar ai traditori pur di riavere indietro gli stessi poteri che gli avevano tolto per puro egoismo ed invidia verso l’immensità delle cose che avrebbe potuto fare se li avesse avuti.

Buone o cattive non aveva importanze, ora le avrebbe fatte, dalla prima all’ultima: la prima era di evadere dall’Abisso dopo qualche secolo, l’ultima era di avere la corona di Harmonia, l’approvazione di Manny e, chissà, forse riusciva anche a farci scappare dentro un’improbabile alleanza con gente del calibro di Idhunn Orionis Chandrasekhar.

Ma forse per ora era meglio limitare i progetti ai regni vicini, il resto delle Costellazioni poteva anche aspettare.

Ancora con la mente offuscata dalla temporanea perdita di orientamento, Phobos aveva dovuto combattere con tutta la volontà che aveva in corpo per restare cosciente quando aveva iniziato a bruciargli in modo insopportabile il braccio destro che ricordava di aver già provato, e allora aveva abbassato lo sguardo: un marchio violaceo, il suo marchio, una sorta di segno in rilievo sul dorso della mano destra dalla vaga forma a stella dalla quale si diramava quello che sembrava un vero e proprio labirinto di linee viola che andavano dal gomito fino alla punta delle dita.

Se lo portava dietro da quando ne aveva memoria, e cioè da qualche secolo a quanto la sua mente gli permettesse di ricordare, e con il tempo aveva imparato che non era nulla di buono agli occhi dei Guardiani: loro lo consideravano una sorta di segno indelebile di chissà quale maledizione ad opera di un certo individuo contro il quale anche Manny aveva combattuto, a lui dannatamente estraneo, Phobos invece lo vedeva come la fonte inesauribile di forza dalla quale traeva la maggioranza dei propri poteri da quando aveva preso parte “alla guerra che lo aveva reso il mostro che era ora”.

Ed ora quel marchio pulsava come non aveva mai fatto, molto più intensamente di quanto facesse quando usava quel briciolo di potere che gli era rimasto: non sapeva come ma a quanto pareva Halley c’era riuscita, a distrarre quella palla di ciccia lunare di Manny, c’era riuscita ed ora non c’erano più le catene dell’Abisso a fermarlo.

Come per comprovare la ritrovata forza Phobos si era affacciato ancora una volta verso la voragine dove i suoi leoni ruggivano furiosi, questa volta senza il terrore negli occhi di dover fronteggiare il sigillo di Harmonia un’altra volta, motivo per cui aveva poggiato senza paura la mano che recava il marchio sulla fitta rete di rampicanti fioriti che lo separavano dalle sue adorate bestiole:

«Non puoi nemmeno immaginare cosa abbia dovuto passare qui dentro…» disse fra sé e sé mentre si chinava inginocchiandosi con la mano tesa ed aperta, i capelli cremisi che ricadevano sul volto nella parte non legata da una lunga treccia portata penzoloni sulla schiena.

Che tuttavia non riuscivano comunque a nascondere quello sguardo dorato pieno di rabbia:

«Le umiliazioni, il dolore, le notti passate a biasimarmi… tu non lo sai Harmonia, non lo hai mai saputo, anche se pretendevi di sapere cosa stessi passando…» continuò mentre i viticci avevano iniziato a ricoprirsi di sottili fili violacei che lasciavano dietro di sé solo dei tralicci secchi, una sorta di danza dove i fiori iniziavano ad appassire e le rose a sfiorire, quasi fossero inevitabilmente consumate da una forza più grande:

Phobos sentiva chiaramente una forza immane montargli dentro l’anima, nelle profondità più nascoste del suo essere, ed era anche perfettamente consapevole del fatto che ne avrebbe perso il controllo molto presto:

«Mi hai sconfitto due volte, quando hai preso il mio regno e quando mi hai sbattuto qui dentro, ma oggi le cose cambieranno, oh se lo faranno…» asserì digrignando i denti per l’odio che gli stava ribollendo dentro, un odio senza freni, quasi viscerale, lo stesso che qualche istante dopo lo aveva travolto senza che se ne rendesse minimamente conto.

Era stata questione di secondi perchè la rete di filamenti si estendesse tutta intorno trasformandosi improvvisamente in vere e proprie fiamme del tutto simili alle stesse che utilizzava abitualmente, solo decisamente più distruttive, un disegno che richiamava quello che portava sul dorso della mano capace di sprigionare un calore talmente intenso che la rete di rampicanti era andata dissolvendosi in cenere in un rombo di tuono che aveva scosso l’intero Abisso facendo cadere qualche piccolo sasso dalle pareti.

E allora i suoi leoni erano usciti dalla loro gabbia secolare, per non dire millenaria: il loro aspetto, un tempo quello di maestose creature nere come la notte con due occhi color rubino, ora era ridotto a dei veri e propri scheletri con brandelli di pelo che cadevano qua e là, non avevano nulla a che fare con le creature possenti di un tempo, esattamente come lui.

Ma bastò che uno di loro si avvicinasse, uno dei più grandi ed imponenti nel branco, e poggiasse il muso sulla mano del padrone quasi a fargli le fusa perché il cambiamento fosse radicale: le bestie si erano trovate legate a terra da diafane funi viola intenso che brillavano più della luce del Sole, avevano iniziato a ruggire forse spaventati o forse grati, ma alla fine di tutto, alla fine di quella tortura, ciò che ne era uscito era un gruppo di mostri più grandi di un uomo, i suoi mostri: le criniere che fiammeggiavano di un fuoco nero come la pece, gli artigli e di canini bianco avorio snudati della stessa dimensione di un palmo umano, il manto che pareva essere fatto d’oscurità in netto contrasto con i rubini rosso sangue che lampeggiavano minacciosi sotto il voluminoso pelo.

Quanto gli erano mancati, i suoi dolci felini ruggenti, quanto?

Troppo, Phobos lo sapeva fin troppo bene, e sapeva anche che era ora di lasciarsi andare una volta per tutte: non aveva più senso darsi un freno, non c’era più nessun motivo per cui avrebbe dovuto interessarsi alla vita altrui, e forse fu proprio che, inconsciamente o meno, che lo volesse o no, finì per evocare sotto di sé quello che ricordava vagamente un cerchio alchemico d’altri tempi che recava lo stesso disegno sulla sua mano.

Poi i bordi viola acceso di quell’anello si erano sparsi un po’ ovunque nell’Abisso, si erano irradiati fino alle pareti e, quasi mossi da una forza troppo grande anche per Phobos, avevano preso una volontà tutta loro: ogni singola linea di quel tracciato si era illuminato di un’intensa luce nerastra per poi trasformarsi in serpi incandescenti che nel giro di pochi istanti avevano finito per sopraffare Phobos in un vortice di fiamme del quale non aveva nessun controllo, ed era felice di non averlo, per convogliare infine in una colonna di fuoco talmente luminosa da aver accecato anche la povera Comet, decisamente abituata a piccoli Soli tascabili, appena di ritorno dal suo viaggio interstellare di qualche minuto.

 

Un boato.

Un’esplosione.

Poi l’Abisso era crollato.

 

Phobos aveva faticato ad accorgersi dell’arrivo di Comet, che era atterrata dopo qualche istante di indecisione sul luogo dove appoggiare i piedi per non finire arrosto anche lei:

«Phobos? Cosa stai combinando? Io me ne vado dieci minuti e tu distruggi l’Abisso?» chiese cautamente, ma l’altro pareva totalmente assente, non c’era nulla nel suo sguardo che le potesse far intendere che sì, l’aveva sentita, così decise di avvicinarsi ancora:

«Phobos? Phobos ci sei? Mi senti?» fece appena in tempo a dire quando si trovò accerchiata dai leoni del compagno, delle belve fameliche che avevano iniziato a ringhiarle minacciosamente contro costringendola ad indietreggiare ed allontanarsi dal padrone; Comet se lo sentiva dentro, che c’era qualcosa di dannatamente strano e sbagliato in tutto ciò che le si prospettava davanti, quasi la stessa sensazione che aveva avuto quando quel lampo aveva attraversato il suo campo visivo mentre si trovava a cazzeggiare qualche momento prima.

Non seppe perchè sentì l’istinto, poi rivelatosi sbagliato, di toccargli la spalla, stava di fatto che appena la sua mano l’aveva sfiorato si era trovata con il polso bloccato in una morsa dalla quale si sarebbe difficilmente liberata:

«Cosa cazzo stai facendo? Si parlava di trombaris, non di uccidaris!» gli urlò contro cercando di divincolarsi furiosamente, ma l’altro non dava alcun segno di cedimento, anzi sembrava sempre più convinto di ciò che stesse facendo, e allora Comet decise di passare alle maniere forti:

«Non dire che non ti avevo avvisato!» asserì mentre un luccichio rossastro cominciò a brillare sulla sua mano, delle sottili fiammelle rosate che andarono presto a ricoprirle l’avambraccio quasi a proteggerla da quello che doveva essere il suo alleato di vodka preferito.

Non avrebbe mai voluto colpire Phobos con l’intento di fargli del male, sarebbe stato un vero peccato se avesse rovinato anche il suo amichetto di trombaris preferito, ma in quelle circostanze, in quella situazione, attaccarlo con il suo altofuoco era l’unica opzione possibile per tirarsi fuori da quella questione così spiacevole.

 

Se solo avesse sortito un qualsiasi effetto.

Non aveva nemmeno fatto una piega che fosse una.

Non si era mosso di un millimetro.

Niente di niente.

 

Anzi, una cosa l’aveva fatta: il suo marchio aveva iniziato a brillare di un malsano alone viola acceso  mentre dei filamenti dello stesso colore sembravano aver iniziato ad espandersi su tutta la lunghezza del braccio fino al petto, parzialmente visibile sotto i vestiti rimasti quasi carbonizzati durante l’esplosione, per poi prendere posto anche sul polso di Halley spegnendo ogni singola traccia di fuoco che incontravano come se lo consumassero, per non parlare del fatto che lei, quella che si ricopriva d’altofuoco come se nulla fosse, ora provava un’intensa sensazione di bruciore dove quei filamenti arrivavano:

«Phobos! Smettila dannato idiota! Lasciami andare!» gli gridò mentre lo fissava negli occhi ricavandone solo un brivido lungo la schiena: erano vuoti, completamente assenti, lo sguardo di qualcuno che non aveva più nulla da perdere perché nulla aveva mai avuto.

Ed erano pericolosi, tremendamente pericolosi.

Non c’era più tempo per pensare per Comet, adesso era solo il momento di agire, se solo avesse saputo come farlo davanti a quel puttanaio: Phobos aveva dato di matto, quello era abbastanza ovvio e visibile, ed aveva il sospetto che fosse perché il suo corpo, provato da secoli di prigionia estenuante, fosse stato improvvisamente riempito con poteri che nemmeno lui ricordava più come utilizzare per non esserne sopraffatto e ridursi ad essere lui quello controllato dalla sua stessa forza.

Phobos aveva sempre amato il potere, come tutti probabilmente, ma se c’era una cosa che le centinaia d’anni di compagnia a quel povero disgraziato gli aveva insegnato era che c’era qualcosa che amava ancora di più dello sconfiggere Harmonia.

E cioè il trombaris.

Tutti amavano il trombaris… tranne Manny, quale sconsiderata l’avrebbe data a quella palla di lardo rotolante che nemmeno Sandy?

Manny che scopava o meno, Sandy che si faceva le sue bambole gonfiabili tutte sabbiose e sbrilluccicanti o no, alla fine Comet si era decisa a tentare il tutto per tutto, anche se prima c’erano stati altri tentativi di farlo ragionare:

«Non vedi come accidenti ti sei ridotto? Per tutte le stelle di Mother Galaxy, cerca di riprenderti almeno un secondo, provac-­» non finì che venne zittita:

«Non ho più bisogno di te, né degli altri, e nemmeno del tuo pollo che sta correndo via urlando“coccognè coccognè!”: non ho bisogno di nessuno, nessuno!» le disse avvicinandosi a meno di un palmo da lei, i loro sguardi che si erano incontrati un’altra volta, ma Comet non dava alcun segno di cedimento, anzi:

«Ora come ora anche tu sei d’intralcio, lo sei sempre stata: ho dovuto aspettare solo oggi per poter finalmente riprenderm-­»

«Senza di me saresti ancora chiuso nell’Abisso.»

«Non mi servivi tu! Potevo fare da solo!»

«Ah sì, e come? Non mi risulta che tu sia mai riuscito a combinare qualcosa, o mi sbaglio? Eh? Eh Phobos? Mi sbaglio? Eh? Eh?»

«Io non… no! Cioè in realtà sì… no… oh avanti, smettila di confondermi!

Mettiamola così: ci sono cose dove si deve essere in due, ok? E fra queste cose c’è anch-­» questa volta fu lui ad essere zittito.

Con un passionale bacio in cui era stato trascinato dalla ragazza, tra l’altro.

Nessuno dei due capì il perché, né tantomeno Halley riuscì a capacitarsi del motivo per cui le sue labbra avevano toccato quelle dell’altro aveva sentito una stilettata che le era scesa lungo tutto il corpo mozzandole il respiro, stava di fatto che, anche questa volta, era riuscita nel suo intento di calmare la situazione: in modo probabilmente inconscio la telecinesi di Phobos era riuscita a frenare il crollo delle pareti dell’Abisso evitando il disastro per poi riparare ai danni fatti riportandole tutte al loro posto, l’incendio di fiamme nere che stava addirittura liquefacendo il terreno si era improvvisamente spento senza apparente motivo e, cosa più importante, il marchio sulla mano di Phobos aveva smesso di brillare, furtivamente coperto da Vomet con un lembo dle proprio vestito.

 

Ne era seguito un silenzio a dir poco imbarazzante, soprattutto quando Phobos le era crollato fra le braccia stremato con gli occhi, a quanto pare tornati alla loro consueta vitalità, ridotti a due fessure per lo sforzo; per lei, forse per pietà o forse perché per qualche istante si era davvero preoccupata, cosa rara per una menefreghista come lei, era risultato naturale stringerselo al pettoin un abbraccio stranamente materno:

«Fra le cose da far ein due c’è il trombaris, soprattutto quello.» disse sorridendo come suo solito mentre l’altro la guardava stranito.

Phobos aveva impiegato qualche secondo a realizzare l’accaduto, con molta probabilità perché era ancora mezzo intontito da ciò che aveva fatto, ma alla fine aveva fissato la compagna con lo sguardo perso:

«Cosa ho combinato… cosa accidenti ho combinato…» sospirò fra sé e sé:

«Comet? Sei ancora intera? Porca merda pensavo di averti ucciso m-male, io non… non so c-cosa… cosa d-dire… io non… non volev-­»

«Nah, ci vuole di più per mettermi fuori gioco, se non ci sono riusciti i Cavalcadraghi Incestuosi Distruggimondo, piuttosto dimmi un po’, come ti senti? Ancora rincoglionito?» domandò senza ricevere inizialmente risposta.

L’altro si guardò addosso rendendosi conto di essere rimasto praticamente mezzo nudo, ma il problema non era il pudore dal momento che quello lo aveva abbandonato da un pezzo, il problema era il braccio che, forse confuso o magari no, aveva fatto per toccarsi levando il lembo del vestito di Halley; lei però lo fermò prontamente:

«Hai già perso il controllo una volta, fermati e lascia fare a me» lo rimproverò poggiando la sua mano su quella dell’altro per fermarlo, poi si allontanò ed iniziò a frugare nel borsone che si era portata dietro tirandone fuori alcune bende, che iniziò prontamente ad avvolgere intorno alla zona del braccio di Phobos coperta dal marchio.

Lui non si oppose a nulla, rimase solo a guardare indifferente con la testa chinata verso il proprio polso mentre i segni che lo solcavano sparivano ad ogni giro della benda bianco latte:

«Non intendevo dire quello che ho detto, davvero.» cercò di scusarsi mentre l’altra faceva un nodo all’altezza del gomito:

«Mh? Ah sì, non devi preoccuparti: sai meglio di me che l’opinione degli altri non mi fa né caldo né freddo quindi stai tranquillo e pensa a riprenderti, non puoi uscire dall’Abisso in questo stat-­» stava dicendo quando si trovò le mani di Phobos appoggiarsi con una delicatezza innaturale sulle spalle per poi scendere sui fianchi ed infine indugiare qualche istante sul suo ventre, quasi stesse decidendo sul da farsi, i brividi gelati di prima che si trasformano in una calda scarica che le aveva piacevolmente percorso il corpo facendole istintivamente inarcare la schiena.

Quell’improvviso cambiamento d’umore non la disturbava affatto, soprattutto quando aveva chiuso gli occhi per concentrarsi al meglio sulla sensazione delle mani di Phobos che erano andate esplorando ogni centimetro che incontravano nella lenta ma inesorabile discesa verso il basso per trovare le curve che stava cercando, esplorandole come un bambino desideroso di succhiare il latte dal petto della madre e, sperando che quella scena non si ripetesse anche nell’Abisso, Comet si era abbandonata a quel turbine di emozioni lasciandogli fare.

Ad un certo punto sentì il suo respiro contro il suo collo, un suono profondo e regolare che riusciva sempre e comunque a rilassarla, poi si diede al morderle il collo nemmeno fosse un vampiro, prima delicatamente e poi con un ardore sempre crescente: le mani di Phobos che si tuffavano sotto il vestito facendosi strada verso ben altre curve, il movimento felino con il quale era passato dall’accarezzarle delicatamente i lati dei seni per poi concentrarsi all’esplorazione di tutta la loro superficie era stato qualcosa di dannatamente magico, tanto che non era riuscita a trattenere un gemito di piacere che si era promessa di risparmiarsi, il tutto affondando il viso nei morbidi capelli cremisi del suo scopamico.

Per quanto però Halley si stesse divertendo, e per quanto ormai si fosse praticamente accucciata sul petto dell’altro ansimando, c’era stato un momento durante il quale gli aveva afferrato la mano bloccando quel suo viaggio erotico nel quale si stava destreggiando ed era stata lei a cercare le sue labbra per cercare un bacio passionale, quasi famelico: adorava quei momenti, quelli durante i quali nemmeno i ricordi appannati che tormentavano Phobos ogni istante potevano disturbare i loro rapporti, erano qualcosa di assolutamente magico.

Erano andati avanti qualche istanti, poi lui le aveva dato tregua sistemandole i capelli arruffati:

«Sei già stanca, mia piccola stella solitaria?» le domandò accarezzandole il volto intanto che premeva la propria fronte contro quella dell’altra:

«Oh no, abbiamo appena iniziato, ma ho un’idea geniale.» propose lei accennando un sorriso malizioso che aveva inevitabilmente incuriosito l’altro:

«Spiegati meglio, avanti.» le chiese mentre l’altra gli sfiorava le labbra con l’indice come a farlo tacere qualche istante:

«Facciamo trombaris lassù» spiegò indicando la luce del Sole che filtrava dall’entrata dell’Abisso:

«Abbiamo già fottuto Manny, tanto vale fottere due volte quelli che se ne stanno fuori da questo buco di posto scopando allegramente nei roseti di Phantasia, non credi?» domandò curiosa.

Era un’idea geniale.

Assolutamente, dannatamente, perfettamente geniale.

 

E c’era voluto poco perché la mettessero in pratica, ovviamente dopo essersi messi addosso alla bene e meglio qualche straccio preso qua e là dal leggendario borsone di Halley che nemmeno Mary Poppins poteva vantare.

L’uscita ufficiale dall’Abisso Phobos l’aveva sempre immaginata come qualcosa di terribilmente epico, una scena di quelle che sarebbero rimaste impresse nella mente dei suoi nemici per tutti i secoli a venire, e la loro non aveva nulla da invidiare ai film mentali che si era fatto: l’Abisso stesso era stato pervaso da un rombo dirompente, un ruggito ancestrale che l’aveva fatto tremare ancora una volta, poi era scesa un’inquietante calma talmente piatta che anche il vento sembrava aver smesso di soffiare.

E alla fine niente, si era scatenato il caos.

Forse l’Abisso era fuori pericolo dall’imminente crollo che per poco Phobos aveva causato, ma l’improvviso lampo di luce che era seguito all’assoluto silenzio era stato così intenso da aver illuminato tutto intorno più intensamente di quanto potesse mai fare il Sole, un bagliore probabilmente visibile anche agli occhi di Manny da quanto era penetrato a fondo nella nebbia, poi nelle nubi ed infine attraverso l’etere dello spazio.

Comet era stata la prima a venirne fuori, e lo aveva fatto in grande stile: le braccia aperte verso l’immensità delle superficie, circondate anche loro dall’alone di altofuoco color magenta che si dimenava come se fosse un serpente rabbioso, le donavano l’insolito quanto singolare aspetto di una stella nel pieno della sua vitalità, un piccolo astro che dietro tutta quella bellezza cosmica nascondeva una forza talmente grande da essere distruttiva sia per se stessa che per gli altri:

«Muovi il culo signore dei gatti! Voglio vedere cosa ti sei inventato!» lo incitò sedendosi evidentemente nel nulla mentre levitava con quel suo sguardo strafottente di chi se ne frega di tutto e di tutti.

Lei gli aveva chiesto un’uscita memorabile, e Phobos l’aveva accontentata: c’era stato un brontolio sinistro nell’Abisso quando Halley aveva voltato lo sguardo, ma era subito stato sopraffatto da una vampata di fiamme nere come la notte che erano andate attorcigliando una sull’altra fino quasi a toccare il cielo, un turbinio disordinato che era andato a ghermire l’aria fino a quando non si era rappreso in un’enorme sfera violacea ad una decina di metri da terra, forse qualcosa di più.

Sembrava fatta d’acqua, quella sfera, una sorta di bolla viola percorsa un po’ ovunque da sottili filamenti nerastri in continuo movimento, in una perpetua danza plasmata dall’oscurita; poi, quasi come se fosse stata scoppiata da un ago, anche quella si ruppe ricoprì di crepe su tutta la sua superficie e si ruppe improvvisamente, mossa da chissà quale forza: la maggioranza dei resti del guscio di quella sorta di uovo primordiale si erano presto trasformati in piccole fiammelle incandescenti, meteoriti che andavano a schiantarsi a terra bruciando e distruggendo ciò con il quale venivano a contatto mentre altri, per un movimento frutto di chissà quale sortilegio, avevano preso ad ammassarsi assumendo le sembianze di un qualcosa di non meglio definito, ma che sicuramente era enorme.

Comet aveva impiegato qualche secondo per mettere a fuoco la situazione, anche perché non ci stava capendo moltissimo, ma quando c’era riuscita era rimasta dannatamente abbagliata da tanta magnificenza: un leone, un gigantesco leone completamente nero fatta eccezione per gli occhi dorati che scrutavano inquieti il terreno lì intorno, un mostro fatto di magia ed oscurità che aveva lanciato un ruggito udibile a centinai e centinaia di chilometri di distanza.

E sulla sua testa, quasi a dominare tutta l’area intorno come il maschio alpha di un branco, c’era Phobos con le braccia rivolte verso la bestia e gli occhi con la pupilla quasi resa invisibile dalla coltre di magia che lo stava inebriando: erano bastate poche parole pronunciate in chissà quale lingua perché quel mostro chinasse il muso e facesse scendere il padrone dissolvendosi in polvere nera poco dopo, un chissà quale sortilegio che per quanto fosse meraviglioso gli era costato parecchio in termine di energie, ma almeno l’applauso di Halley fu più che meritato.

Fu solo allora che Phobos le si avvicinò mettendole un braccio intorno al collo e tirandola verso sé:

«Trombaris nei roseti di Phantasia, milady?» domandò curioso mentre l’altra, proprio come una nobildonna, faceva un breve inchino allungandogli una mano che lui prese doclemente:

«Trombaris nei roseti di Phantasia, milord.»

 

Nord aveva subito capito che c’era qualcosa che non andava quel giorno, ma non capì il perché subito: forse era il suo sesto senso di Guardiano, forse erano i pregi dell’esperienza lavorativa come tale, forse la vodka che faceva effetto.

O forse era semplicemente perché in uno dei suoi mappamondi, esattamente uguale a quello con il quale sorvegliava la Terra tranne per il fatto che fosse in formato giga enorme, si era illuminato un insignificante quanto fastidioso puntino rosso lampeggiante.

Nord allora si avvicinò lisciandosi la barba inquieto, quasi sentisse nell’aria che qualcosa non andava, e infatti rimase di pietra quando osservò meglio la posizione della pallina birbantella:

l’Abisso di Phantasia, il Regno della Fantasia.

 

Il Regno della Regina della Fantasia.

Il Regno di Harmonia.

Cazzo.

 

Buon Manny.

Per tutti i cavalca draghi incestuosi.

Accipigna.

Perdindirindina.

Porca di quella merda.

Svegliatosi dal temporaneo letargo post-trauamtico il Guardiano si affrettò a chiamare a raccolta i suoi fidati yeti impartendo ordini a destra ed a manca:

«Andate da altri Guardiani e avvisate loro, dite che situazione grave abbiamo! Muovete culo pulcioso! Correte dannati giganti pelosi da piccolo cervello!» urlò contro ai poveretti che, presi anche loro dal panico senza saperlo, si era sbrigati ad aprire portali un po’ ovunque per raggiungere gli altri Guardiani.

Non c’era più tempo da perdere.

 

 

__________________________________________

 

Angolino dell’autrice

 

Salve a tutti fandom!

Ok, ingresso molto poco epico come quello di Phobos, MA FA NIENTE :D

Comunque sia, essendo nuova nel fandom delle Cinque Leggende mi presento brevemente: sono Rising_Phoenix, di solito scrivo nel fandom di Kinnikuman, sono quella che ha millemila storie nella testa che prendono vita sulla tastiera a rilento perché è troppo occupata con il primo anno universitario, e sono alla mia prima long da queste parti (in realtà qui ho già scritto la one-shot “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, ma era una cosa veloce xD).

Che posso dire di questa fan fiction?

Innazitutto, ci sono UNA MOLTITUDINE di personaggi nuovi creati tutti dalla sottoscritta (ed io creo personaggi o quando mi vengono in mente a random o quando vedo immagini che mi affascinando particolarmente, ma non è il caso di questa fan fiction), e già in questo primo capitolo ne avete conosciuti due, Halley e Phobos, sui quali vorrei spendere due parole: Phobos è un aitante (?) personaggio bipolare di mia creazione, mentre Comet E. Halley mi è stata gentilmente regalata dalla mia dolce puledra (non fatevi domande :D) letteraria che è _Dracarys_, che si è anche occupata del suo background e della definizione della sua personalità, dovendo essere io a gestirla xD

Ecco, ora mi soffermerei un attimo su questa bella persona: credetemi se vi dico che senza di lei non avrei MAI pubblicato questa long (soprattutto perché ho cambiato storie dei vari oc ed idee TROPPO spesso xD), ero dannatamente insicura sul fare un esordio con una fan fiction di tale portata dopo il successo leggermente scarso della one shot, ma mi ha supportato e ripetuto di crederci fino a quando? Ieri sera?

Quindi voglio dirle grazie, grazie tantissimo per tutto quello che fai nel darmi la tua opinione sulle dubbie scelte di trombaris in questa long <3

Passata la parte piena d’ammmore, cosa devo dirvi d’altro?

Ah sì, scusate per la lunghezza IMMENSA, ma non volevo tranciare in due un capitolo importante come questo: se siete arrivati a leggere fino a questo punto vi ringrazio tantissimo, non potete immaginare quanto sia importante per me vedere che qualcuno apprezza (spero!) quello che scrivo, soprattutto perché è la prima long seria qui!

Quindi basta, ho detto tutto, solo una cosa: vi lascio il disegno fatto da _Dracarys_ dell’uscita trionfale di Halley e Phobos dall’Abisso, ci tiene a precisare che è un disegno vecchio di almeno un anno perché adesso è migliorata come non so cosa :D

Niente gente, arrivederci al prossimo capitolo e buona permanenza in questa long dove si incroceranno Guardiani dubbiosi, giumente vogliose e complotti intergalattici (ma questa è un’altra long, QUINDI NON FATECI CASO) che nemmeno in Game of Thrones.

Al prossimo capitolo!


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