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Autore: aniasolary    25/05/2016    5 recensioni
A pochi passi dagli anni settanta, un Matematico e un Filosofo si amano travolti dal sole che picchia su Rio de Janeiro e cullati dal rumore del mare in lontananza.
Questo segnerà la loro esistenza e la loro morte.
«E dopo ti dimenticherai di me, Anders?»
«Non mi dimenticherò mai di te.»
Lo guardai, attento. Memorizzai il piano: le linee rette dell’arco di cupido, perfetto, su quelle sue labbra sottili; il fascio di parabole – curve morbide – delle sue ciglia dorate: azzurri, gli occhi, come il cielo pallido che vela il mondo dopo l’aurora; l’ellisse che abbracciava entrambi i suoi zigomi, di cui due nei occupavano i fuochi; il volto chiaro, senza un filo di barba, ancora infantile e dalle forme d’un imperfetta circonferenza.
Nemmeno io l’avrei mai dimenticato.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte terza
Andare, Ludovico Einaudi
 
Arrivò, puntuale e inclemente in un paese in cui ora è sempre un po’ più tardi e un no può trasformarsi in un forse, il giorno dopo.
Alle sette di sera, Anders non era ancora rincasato.
Mi misi addosso una giacca a vento e presi il percorso abituale del suo ritorno. Gli piaceva camminare sulla spiaggia e poi risalire verso la strada, come facevo io quando insegnavo al liceo, per riconoscere casa nostra da lontano al tramonto del sole. In dieci anni non era mai tornato più tardi delle sei di pomeriggio. Il cielo si imbruniva come la mia preoccupazione. È un’agitazione insensata, mi dicevo; sono passati più di dieci anni da quella fuga di Anders e loro gliel’hanno fatta pagare allora. Se ce l’hanno con il signor Damgaard, la faranno pagare a lui.
Eppure più mi rassicuravo, più il respiro mi mancava e dal camminare finii per accelerare il passo e poi correre, correre verso l’immenso col terrore nel cuore. Il vento mi schiaffeggiava il volto o io lanciavo fendenti all’aria, non sapevo. Ma correvo e lo chiamavo nella mente. Anders. Dedé. Mio sposo giovane.
La prima cosa che vidi, da lontano, fu quel colore tremendo. Il verde acido da erba fresca, in un parco di Liverpool agli inizi della primavera del 1976, ai piedi del mio amore, là, sulla spiaggia, dove anni prima l’avevo trovato senza sensi.
«Anders!» gridai a gran voce, e corsi ancora, sperai fino all’ultimo istante che si sollevasse al suono del suo nome pronunciato dalla mia voce. «Anders!» Sempre più vicino. «Dedé…» Del sangue gli sporcava la camicia color malva: una rosa rossa che si confondeva tra gli altri fiori, al centro della schiena, e una pozza di sangue che gli cresceva verso i fianchi. Lo sollevai con una calma glaciale e scoprii i suoi occhi sconvolti. Con la sabbia in bocca, un respiro lievissimo mi fece capire che era vivo. Gli tenni la nuca con la mano mentre lui fissava gli occhi al cielo, incapace di trovarmi.
«Forza,» lo incitai, lo smossi. «Forza, Dedé, resta sveglio. Ti porto all’ospedale.»
«Scende la notte…»
«Resta sveglio, Dedé.» Le sue palpebre calarono a metà dei suoi occhi e la terra tremò sotto le mie ginocchia. «Non ci provare, ragazzino!» ringhiai in preda alla furia, al terrore più puro, a un fuoco nella gola che mi chiedeva di urlare e urlare e urlare ancora per supplicarlo.
Anders!
Un tempo lui mi aveva chiesto di non morire. In quel momento, la certezza spaventosa che non mi aveva mai promesso la stessa cosa; che non gli avevo mai parlato di quanto sarebbe stato meraviglioso e desolante il momento in cui, alla mia vecchiaia, mi avrebbe addolcito la morte attendendola con me; che col peso dei miei diciott’anni in più a separarci, il pensiero che potesse lasciare questo mondo prima di me non mi aveva mai sfiorato se non nell’assurda estasi dei più violenti amplessi… come le frecce che uccisero il santo di cui porto il nome, queste consapevolezze mi si conficcarono nella mente, tranciando la parte in cui risiedeva la razionalità ed iniziava la follia del dolore devastante.
Ero io quello che doveva morire per primo.
Era lui che mi doveva piangere.
«Anders!»
No!
No no no no…
«Non farò niente che non voglia dal profondo del cuore, professore…»
Spalancò gli occhi d’improvviso. Anche la bocca era sporca di sangue, oro di granelli di sabbia e rosso del nostro amore.
Lacrime mi si erano accumulate nello spazio tra la pelle e la cornea. Sbattei le ciglia e quelle caddero, pungenti e copiose.
«Ragazzino…»
Espirò.

 
Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura,
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolente della dolce pioggia.
Dedé…
La prima copia del suo libro stampato si era sporcata del suo sangue sulla copertina; gli cadde quando gli spararono a vista. È ancora lì, conservato nella mia libreria ch’era anche sua.
 L’amore applicato ai limiti, saggio filosofico di Anders Damgaard.
Alla seconda pagina:

 
Dedicato a mia madre Adelaide, a cui penso ogni giorno della mia vita. Spero che un giorno qualcuno della nostra famiglia porti il tuo nome, dolce come dolce è il tuo ricordo;
dedicato a Raquel Horta De Mello, mia cara Raquì, guaritrice e benefattrice: dona affetto senza misura, senza fattura;
dedicato all’unico amore della mia esistenza, la scelta migliore che abbia mai fatto, investimento della mia anima e del mio corpo, di quel che non si vede e di quel che si può toccare, dell’essere e del non essere, della metafisica e dell’epistemologia. L’illusione più bella la trovo quando mi stringe tra le braccia: in quel momento, sento che posso vivere anche senza trovare le risposte alle domande mie e del resto del mondo.
Jeg elsker dig, Sebastian.

 
Mi tolsi gli occhiali e lui, disteso sul nostro letto, mi apparve come una macchia informe e piena di colori. Il malva della camicia, il verde acido delle sue scarpe, il segale dei suoi capelli, il bianco perlato della sua pelle.
Tua madre si chiamava Adelaide, amor mio. Da qualche parte, in un posto che i filosofi hanno chiamato in tanti modi diversi, spero che stia accarezzando i tuoi lisci capelli.
Quando ti dice che non hai più nulla da temere, non mente.
Ti spoglio. Non per far l’amore: eri bravo a spogliarti da solo, sempre così impaziente, il primo a svegliarsi al mattino, a preparare la colazione e a consegnare le relazioni su Kant con l’inchiostro ancora fresco… tante volte ti ho detto di riposarti un po’.
Ora dormi.
Lasciami fare, sta’ calmo, nessuno ci disturberà. Ti metto addosso il vestito che hai scelto per essere mio sposo. Ti pettino i capelli, ti raso ma senza toglierti tutta la barba. Sei bellissimo. Sei perfetto. Un po’ di profumo. Una rosa rossa al tuo fianco. Che cosa vogliamo di più? Oh, quando ti vedranno, le donne anziane penseranno… chissà di chi era innamorato… povero caro… almeno non ha lasciato nessuno… e tu eri mio.
Eri libero, ma eri mio.
Ed io non mi libererò mai di te.
So che la Matematica non era il tuo mondo, Dedé, come il mio mondo non è la Filosofia. Ma abbiamo mischiato le nostre vite ed io non sarò più lo stesso. I limiti dei sentimenti sono punti in cui non è possibile definire i sentimenti stessi. Non si riesce a conoscere il comportamento di questi sentimenti in quei punti, ma il loro comportamento limite sì. Quando ci siamo amati, ci siamo uniti.
Adesso – guardaci – siamo divisi. Ero la tua casa, una volta; oggi posso essere solo la tua tomba. Tuttavia non ti abbandono: il nostro divisore è zero. Ed anche se la divisione per zero è impossibile, sappiamo che essa tende a infinito.
Noi siamo stati quell’incognita del piano che corre verso valori assoluti e così anche i nostri sentimenti hanno raggiunto valori grandissimi, assoluti e tendenti a infinito. Quel che provo per te, quel che hai provato per me, quel che proviamo in un luogo che non ha né tempo né spazio ha per limite l’infinito, per noi che tendiamo a infinito.
Là un giorno ti troverò.
***
Al funerale conobbi il padre di Anders, Ludvig Damgaard, e il piccolo Vilhelm. Indossavo il vestito del mio matrimonio, con una rosa rossa nel taschino.
Ludvig doveva avere una sessantina d’anni; Vilhelm, invece, non doveva avere più di dodici.
«So a cosa sta pensando,» mi disse Ludvig. Fui grato che fosse formale, in questo modo anch’io lo sarei stato con lui. Attraverso il filtro delle convenzioni, potevo nascondere la mia disperazione. «Ma Anders è andato incontro alla morte,» continuò, con voce ferma. Il bambino, accanto a lui, sollevò il volto impaurito. Aveva gli occhi della stessa forma di Anders, ma di un nocciola luminoso, rovinato dall’arrossamento del pianto. Gli occhi di Adelaide Damgaard. «Non ho chiesto io che venisse a casa mia quella sera, in quel momento. Stavo proteggendo i miei figli da quei mostri.»
Scossi la testa. «Capisco poco di quel che dice.»
«Oh, capisci, Sebastião Maior Horta. Non conosci la tua terra? Da sempre i territori di Rio vanno dalle mani delle Borboletas a quelle delle àguias. Avevo già cominciato a costruire in un territorio sotto il controllo delle Borboletas, ignorando gli avvertimenti di tutti i miei colleghi. Non riuscirai a soppiantarli, mi dissero. Non sono solo ricchi e potenti, sono spietati. La prima cosa che hanno fatto è stata minacciare i miei figli. Li stavo convincendo di non avere legami con gli altri due Damgaard registrati all’ufficio che accoglie gli stranieri – Vilhelm era già partito per São Paulo, a trovar rifugio presso un altro mio amico danese. E poi è arrivato lui…» La voce gli si ruppe.
«È stato lei a cacciarlo, dieci anni fa,» dissi, senza trattenere il disgusto. «Si vergognava di lui.»
«È vero. Provavo vergogna verso quel figlio bizzarro che stravedeva per la mia prima moglie e che per me provava solo timore. Quando abbiamo cercato di conoscerci, ci siamo scontrati. Ho perso gli anni più belli della sua vita. Ora mi vergogno di me stesso e mio figlio non c’è più.» Alzò il volto al cielo, non c’erano lacrime nei suoi occhi. Azzurri come quelli di Anders. «Vi amavate?»
Lo stomaco mi si contorse. «Mi chiede se ci amavamo…»
«Sì, le chiedo questo.»
Anch’io alzai il volto al cielo, strinsi i pugni fino a sentire le unghie che mi affondavano nella carne. «Quando morirò voglio essere sepolto accanto a suo figlio.» Sospirai. «Non sono un Damgaard. Non sono un parente. Non sono un danese. Sono un perfetto estraneo, per voi.» Deglutii. «Ma non per lui.»
«Per lui cos’eravate?» chiese, a voce bassa.
Ed io parlai piano per fermare le lacrime. «Un professore…» Indossai il mio cappello. Un professore che non gli ha insegnato proprio niente.
Il signor Damgaard prese per mano suo figlio e fece un passo indietro. «Io e Vilhelm torniamo in Danimarca. In questa vita non la rivedrò mai più. Apporti dei fiori quando può.» Si sistemò il cappello sulla testa. «Farvel. Addio.»
***
Quasi undici anni prima, mia madre mi aveva chiesto se Anders ci avrebbe portato dolori. Adesso era straziata come lo sarebbe stata Adelaide Damgaard se fosse stata in vita, perché Raquel aveva accolto Anders come un altro figlio da amare e accudire, e l’aveva amato e accudito. L’aveva pianto fino a sgolarsi, mormorando preghiere, invocando Dio e gli Orixas e maledicendo l’exù, messaggero tra i mondi. Aveva invocato pietà e giustizia, cadendo poi al suolo.
Mamma…
Mia madre si era aggrappata al mio collo. Avranno quello che si meritano, figlio mio. Abbi fiducia in tua madre. Mi mise una mano in tasca e ne tirò fuori il coltello che portavo con me ovunque, da giorni. Ma non sarà tua la mano che farà scorrere il loro sangue.
L’avevamo pianto insieme, abbracciati, nelle notti in cui l’immagine di Anders insanguinato mi toglieva il sonno.
E dopo l’ennesima notte di lacrime e gelo, ci svegliammo vecchi.
Avevo quarantotto anni.
I capelli neri e ricci, un tempo lucenti, ora li scoprivo d’argento. La pelle di mia madre, rimasta liscia per tutti gli anni della sua maturità, si raggrinzì, e la testa castana scura le divenne bianca di neve. Aveva sessantasei anni.
I miei stimoli sessuali stavano muti: mai più io li sentii, e ne fui grato. Non avrei potuto toccare un corpo caldo che non fosse di Anders; giacché ora Anders marciva nella terra e nel freddo, non avrei toccato più nessuno. Dopo mesi tornai alla spiaggia dell’Arpoador: mi sdraiai sul punto in cui anche Anders aveva giaciuto e il cielo al tramonto mi colse in tutta la sua bellezza. Era l’ultima cosa che il mio amore aveva visto.
Ma io ero lì, steso, respiravo forte e piangevo; l’onda estrema del mare bagnava la sabbia e tornava alla sua origine; le nuvole si diradarono a portar via l’azzurro del giorno e il crepuscolo diventava sempre più scuro; a un certo punto della notte cominciò a piovere ed io rimasi lì, all’aperto, frustato dall’acqua ma vivo.
Era la vita che continuava.
La vita continua e noi dobbiamo continuare con lei.
            Nalda, quella bella ragazza della mia strada, nata nello stesso anno di Anders e con cui mia madre aveva sperato un matrimonio prima che la mia vita cambiasse, si era sposata e aveva avuto una figlia. Chiese a mia madre se poteva tenerla per qualche settimana, il tempo che lei completasse il trasferimento a Brasilia.
Ci furono telefonate e telefonate, ma non tornò mai.
Nalda non era fatta per figli e famiglia e ce l’aveva scaricata come una merce al porto. La disprezzai. Mi chiesi come io, che avevo estinto tutto l’amore che avevo, potessi far crescere bene quella marmocchia di tre anni. Anders l’avrebbe adorata al primo sguardo, invece, e allora avrebbe raggiunto la somma massima della felicità. Senza di lui, però, la sua presenza divenne l’emblema della devastazione: per mesi la piccola pianse giorno e notte col grido di “mamma” sempre pronto sulla lingua, fino a quando la calma della rassegnazione non la indebolì, abbastanza da regalarle e regalarci una notte di pace. Ah, quella streghetta lamentosa finalmente stava zitta! Bello che io ed Anders non eravamo mai incappati in simili incidenti – non sarebbe successo nemmeno se l’avessimo pregato. Lacrime e bava e capricci tutti nello stesso momento. Che mi uccidano piuttosto!
Mi alzai dal letto con l’intenzione di portare la bambina alla chiesa più vicina, perché le suore le offrissero la loro benevolenza.
Ma quel giorno la conobbi per com’era. Una bella bambina, ora che non piangeva: di bronzo e di fango, come tutte le donne incontaminate delle mie foreste. E sì, posso riconoscerlo: le donne della mia terra sono le più belle del mondo.
«Allora, finalmente hai finito di piangere?»
«Sì,» mi rispose, decisa, e spezzò in due uno dei nostri panini al formaggio. Mi sorrise. «Hai una faccia simpatica,» disse, addentò la parte che aveva diviso. E con la bocca piena, come una maleducata – evidentemente Nalda non si era occupata di questa parte dell’essere madre come di tante altre: «Duopo mi accom-pagni al muare per gio-care?»
No, ma che, ho un sacco di roba da fare, devo finire di preparare la lezione per domani e…
«Solo se cominci a comportarti come si deve.»
«Va be-ne.»
«Allora non parlare con la bocca piena, ragazzina.»
«Si chiama Lurdes.» Mia madre mi si sedette accanto e parlò con voce serena. «Ma noi la chiamiamo Lullu.»
Mi sfuggì un sorrisino mentre Lullu si sbrodolava con l’acqua. C’era qualcosa che dovevo fare, ma avevo dimenticato cosa. Probabilmente aveva a che fare con la chiesa e la suore e l’educazione. Mi sfuggivano, però, i nessi che le collegavano tra loro.
E d’accordo, facciamo qui la chiesa e la scuola e il gioco. Se una casa non è fatta per accogliere, alla fine, che casa è?
Mia madre ebbe cura di lei: si faceva chiamare nonna Raquì, le preparava da mangiare e la roba della scuola. Io ero lo zio Sebé che, quando si chiudeva in camera, non doveva mai essere disturbato. Presto, però, le chiesi espressamente di chiamarmi solo per nome, in modo che non dimenticasse mai chi eravamo per lei veramente.
Questo sarebbe stato la sua forza, un giorno, e non la sua debolezza.
Quando cercai di insegnarle qualcosa di Matematica si rifiutò ostinata, e nessun libro dei tanti della mia libreria l’attirava. «Non andrai da nessuna parte così, ragazzina!» le ripetevo. Voleva solo giocare e ballare, come quel primo giorno al mare: al suono del tamborim[1] e della chitarra s’era alzata dalla sabbia e aveva cominciato a muoversi seguendo il ritmo del suo stesso sangue. Coi riccioli neri al vento e la pelle abbronzata, poteva sembrare che appartenesse davvero alla mia famiglia e che io appartenessi a lei. Forse, in un’altra realtà, avevo sposato Nalda e ne era nata una bambina uguale a Lurdes.
Le piacevano anche le parole crociate, e con lei ho passato pomeriggi interi tra una sette verticale e una quindici orizzontale. Anche se vincevo sempre io, mi divertivo. Ed anche se perdeva, si divertiva lo stesso, e vinceva con tutti gli altri che sfidava.
Quando ebbe una figlia anche lei conobbe lo stesso destino della madre: la compagnia mia e di nonna Raquì. La prima volta che la portò a casa nostra mi avvicinai alla piccola, addormentata. Aveva il volto imbronciato come se fosse stata appena partorita, ma con la pelle priva di arrossamenti: era quasi bianca.
Era diversa da noi.
Lo lessi nel suo visino bello e arrabbiato.
Nemmeno quando dormi trovi la pace, bambina?
Un giorno chiamerò anche te come chiamo tua madre.
Ragazzina.
Aveva gli occhi grigi come sassi, ma luccicanti. Lurdes la lasciava a casa nostra solo quando aveva il turno di notte, perché di solito la portava con sé al ristorante in cui lavorava. Solo quando si fece più grandicella le lasciò la libertà di venirci a trovare quando le andava, con la scusa di prendersi cura di nonna Raquì e zio Sebé, anche se in realtà eravamo noi a prenderci cura di lei.
Ma il compito infausto che le imponeva la madre la faceva sentire importante.
La bambina sorrideva davvero solo a Lurdes, sua dea, suo modello, sua fonte di vita. Senza di lei era una bimba seria e sempre col broncio.
No, non era per niente come sua madre. Aveva preso dal padre. La sua pelle più chiara e gli occhi bizzarri me lo ricordavano ogni giorno, e la sua mancanza di manifestazioni d’affetto avrebbero dovuto portarmi a provare solo antipatia verso quella creatura. Mia madre, al contrario, se la coccolava con cibo e carezze ed io osservavo senza la capacità d’esserne partecipe.
Un giorno, però, entrò nel mio ufficio.
Aveva sette anni.
«Che c’è?» le chiesi.
«Nonna Raquì dorme.»
«Ah.» Posai il libro. Mia madre cominciava a stancarsi presto, e l’energia tuonante di quand’era sveglia si traduceva in ore di riposo in cui a volte dormiva, a volte stava solo a letto a pensare. «Non disturbarla. Resta qui. Ma non disturbare me.»
Annuì semplicemente e mi lasciò lavorare. Dopo una decina di minuti mi accorsi che stava fissando una foto mia e di Anders. Era quella che ci era stata scattata a Parigi, quando avevamo recitato i voti.
«Che c’è, ragazzina?»
«Quello chi è?»
«Non sono fatti tuoi. E non mi piace che metti il naso in giro. Non si fa.» Dovevo mettere via quelle foto. Lurdes non aveva mai mostrato interesse per i miei ambienti, ma se lo faceva la sua ragazzina era un problema.
«Mhm… Questi libri qui.» E indicò la libreria. «Sono tutti pieni di numeri?»
Scossi la testa. «No… la maggior parte sono pieni di parole. Parole che non possono essere capite da una bambina piccola come te.»
Si mise a braccia conserte. «Perché? Mamma mi porta in biblioteca per leggere i libri di Geronimo Stilton e della Presença.»
«Non penso che tua madre ti faccia leggere libri di Filosofia.»
«Libri di cosa?»
«Hai già finito i compiti, ragazzina? Forza, prendi il quaderno di Matematica, vediamo che cosa posso fare per te.»
Risolvemmo i problemi che le erano stati assegnati con metodo e calma, aiutati da esempi di mele e penne. Era sveglia, lei, e studiare la appassionava. Per la prima volta mi ricordò me stesso e mi spaventai.
Così le volli bene;  non ci fu giorno triste che non si trasformò in giorno lieto, quando la piccola bussava alla nostra porta. Non sapevo se erano gli anni a far sopportare meglio la mancanza di Anders, la mia età che avanzava o il continuo impegno e la sfida a cui la ragazzina mi sottoponeva. Litigavamo sempre ed io finivo esausto o stancamente divertito. Solo in un caso stavamo tranquilli insieme: quando mangiavamo. Perché così stavamo zitti.
Passammo molti pomeriggi a studiare insieme, io e lei, mentre nonna Raquì dormiva di là. La ragazzina era appassionata di tante cose, ma spesso si perdeva nei suoi pensieri. La matematica la capiva, era sua, ma lei non l’amava.
Era certo che nessuno, dei miei cari più stretti, me l’avrebbe portata via.
Tuttavia era curiosa come Pandora: questo sarebbe stata la causa delle sue più grandi sofferenze e delle nostre.
Prima del disastro il sorriso affiorava spesso sul suo volto, e me ne compiacevo. Aveva da poco cominciato la scuola superiore.
«Quando la porti qui?»
«Chi?»
«La persona che ti fa tanto stare bene.»
Invece dello sguardo ostile che mi aspettavo mi sorrise ancora di più.
La portò il giorno dopo.
«Sebé, questa è la mia migliore amica. L’ho conosciuta il primo giorno di scuola.» La indicò con un gesto morbido della mano. «Viene dalla Danimarca. Copenaghen.»
«Godmorgen, signore.» La ragazzina, coi capelli biondo cenere che parvero aprirsi come ventagli al soffio di vento che venne dalla porta che sbatteva, fece una sorta di inchino. «Mi chiamo Adelaide Damgaard. Ma mi chiamano tutti Laide, qui.»
Adelaide? Laide? Damgaard? Troppe informazioni da ricevere tutte insieme, ed io sono un povero vecchio ormai…
«Damgaard…» mi trovai a sussurrare.
«Sì. È danese,» continuò la nostra piccola, come se non avessi capito.
«È chiaro, ragazzina.» Mi alzai e mi voltai, per nascondere l’agitazione, la gioia, il pianto in cui sarei scoppiato al ricordo di tutte le volte in cui il nome Adelaide Damgaard era scivolata sulla lingua di Anders. Ma certo… i suoi occhi, di un bel nocciola e piccoli, tondi: la stessa forma di quelli di Anders, la stessa forma e lo stesso colore di quelli di Vilhelm. Uguali a quelli della prima Adelaide Damgaard.
Vilhelm era tornato. Aveva avuto una figlia e le aveva dato un nome dolce, dolce come un ricordo.
 «Allora. Vi va di fare merenda? Succo? Latte? Un pezzo di torta? Gelato?» chiesi, veloce.
«Gelato,» decise la nostra ragazzina.
«E tu, Dedé?»
Mi morsi la lingua solo dopo che ebbi parlato. L’emozione e il sangue mi scorrevano in preda a un folle stordimento.
«Dedé?» fece eco Adelaide.
Ah, stupido vecchio che non sono altro… Dedé non c’è più da… da quanto?
«Oh, scusa. Mi capita di dare soprannomi. Non ti piace?» dissi, per riparare al danno.
«Mhm, sì,» fece lei. «Mi piace, professor Maior Horta.»
Le feci rimpinzare per bene e, quando stavano per andarsene, presi la nostra ragazzina in disparte. Aveva il polso sottile ed era più magra di com’era stata sua madre a quell’età.
«Puoi venire qui con la tua amica tutte la volte che vuoi. Non ti dimenticare di me.»
Inclinò la testa nel primo gesto di tenerezza che compì sotto i miei occhi. «Io che mi dimentico di te? Ma scherzi, Sebé?» E mi diede un bacio sulla guancia.
È impazzita!
«Non ti indignare, ragazzina. Hai l’età dell’amore, presto ti dimenticherai di molte cose. Ma ricordati di tornare… Tu ed anche Adelaide.»
***
Quando mia madre morì non erano ancora successe molte cose.
Aveva novantaquattro anni e dalla morte di Dedé aveva smesso di chiamare mio padre alle sedute del terreiro. La sacerdotessa del Macumba le preparò un letto di orchidee, begonie e anturii; spargendo incenso recitò preghiere con le lacrime che le rigavano le guance, le baciò la mano e infine fece il suo appello all’exù, presenza ignota e ambigua tra santi e beati, affinché Raquel Horta De Mello trovasse la sua pace nel regno dei defunti. Quando mi fu permesso d’avvicinarmi al suo capezzale, notai come la pelle un tempo scalfita dalle rughe apparisse liscissima. Lo era anche al tatto, quando le carezzai la guancia fredda.
«Madre mia,» mormorai. Feci incontrare le nostre fronti, febbre di vita e riposo di morte. Mi tornò alla mente quella mattina assurda, in cui mi ero svegliato e per la prima volta nella mia vita non avevo trovato la tavola apparecchiata per la colazione. Ah, nonna Raquì ancora dorme… avevo detto, ridendo un po’, e l’avevo chiamata come in tanti da tempo facevano: nonna Raquì? Dormi o sei sveglia a pensare? In un ultimo sforzo, parlai ancora. «Chissà se ti sei mai resa conto di quanto sei straordinaria.» Mi allontanai solo quando mi accorsi, sconvolto, che le mie lacrime le bagnavano il viso quieto.
Lurdes, accanto a me, si allontanò dalle braccia del marito e venne a piangere sulla mia spalla. Passarono minuti di tremolii e scossoni, poi il silenzio.
«Allora, finalmente hai finito di piangere?» le chiesi, e mi ricordai di quando era una bambina piagnucolona e vivace, che non conosceva le buone maniere e camminava con i pugnetti stretti alla gonna della sua cara nonna Raquì.
Lurdes sciolse di poco l’abbraccio per guardarmi, e questa volta la sua risposta fu diversa.
«No.»
Allora fui io ad abbracciarla forte; le accarezzai i ricci bellissimi, attento a non tirarglieli tra i nodi di quel dono della natura che avevo ricevuto anch’io. Io così bello, però, non ero mai stato, perché sono un uomo e la virilità sa poco dell'armonia delle donne.
«Mamma,» la richiamò la figlia. «Mi aiuti a sistemarle i fiori tra i capelli?»
Lurdes si asciugò gli occhi con la punta delle dita ed io rimasi sorpreso dalla sua ragazzina. Il dolore bruciava nei suoi occhi chiari, ma non piangeva. Era il ritratto della resistenza, e non sapevo se quella forza le nasceva dall’interno o dal ragazzo con gli occhi color ambra che l’aveva accompagnata. «Sì. Sì, tesoro mio.»
Mia madre, Raquel, nella profondità della terra; mio padre, Noè – tremenda ironia della sorte – negli abissi del mare: sperai che le loro anime riuscissero a trapassare gli elementi per incontrarsi una volta e per sempre.
La piansi per giorni.
Da dov’era, avrebbe accarezzato ancora anche i capelli di Anders?
Dopo Dedé e dopo mia madre, Lullu, la sua ragazzina e Adelaide sono state le mie bussole insieme alla mia unica occupazione: continuare a studiare per trovare una soluzione all’ipotesi di Riemann.
E ci sono quasi, lo giuro. Ci sono quasi.
Ma non posso farcela da solo, sono vecchio e il ricordo di Anders non è mai stato così vivido. Sento che presto la terra inghiottirà anche me e so già molto bene quale sarà il mio posto.
Mi serve qualcuno che continui il mio lavoro, in modo che tutti questi anni di studio non vadano perduti. Se sono fortunato potremo anche cominciare a lavorare insieme.
So chi è appena entra nella stanza. Ne ho incontrati tanti e ne incontrerò ancora tanti, ma in lui c’è qualcosa che mi tramortisce: sarà che ha la stessa età di Anders quando morì, la luce bruciante degli occhi che contrasta con la sua compostezza e la motivazione – a me sconosciuta – che l’ha portato qui, palpabile e vibrante, tra me, lui, e l’aria di questa stanza nell’università di Liverpool.
Quando lo scelgo, però, è già tardi.
So che sto per morire.
E lui è qui. Mi aspetto di leggere odio, nel suo sguardo. Per un ragazzo che non ha ancora trent’anni, quella che gli offrivo era l’opportunità della vita e della carriera.
Ma in lui c’è pietà. Una gentilezza ostinata di fronte alle brutture dell’esistenza, e così mi invade una profonda tristezza. Gli stringo la mano, per un attimo, in segno di scuse, e così ho il suo perdono.
Gli lascio tutto il mio sapere: me ne andrò senza un peso sul cuore e morirò volando, non affondando.
Non mi inghiottirà la terrà né il mare, ma mi abbraccerò all’aria e allora sentirò le carezze di Anders ad accogliermi, ovunque sia, ovunque finirò.
Ai limiti dell’infinito.
Anders sarà lì, con quell’abito blu notte, in un luogo che somiglia alla spiaggia del Copacabana nel 1966, mentre ci baciavamo nascosti in una stradina.
E scoprirò che la teoria dei limiti, applicata all’amore, è dimostrata.
               T'amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!

Federico García Lorca

 
 
Ciao a tutti! <3 *cerca di riprendersi*
In quest’ultima e terza parte abbiamo incontrato personaggi che saranno i protagonisti della storia – della long – che sto attualmente scrivendo, La Fenice di Rio, collegata alla serie de La volpe di Liverpool: in questa storia commistiono diversi generi, a partire dalla commedia fino a... non ve lo dico :') o meglio, lo scoprirete se leggerete <3. Certi particolari non sono approfonditi perché li vedrete sviluppati ne La fenice di Rio: la vita di Lurdes (Lurdes è la versione portoghese del nome Lourdes), il nome di sua figlia, chi ha sposato, l’amicizia con la giovane Adelaide Damgaard, il ruolo di queste bande criminali nella giovinezza della figlia di Lurdes e chi è il ragazzo a cui Sebé affida il suo sapere. Spero che questo racconto vi sia piaciuto e che abbia destato curiosità in voi, ma soprattutto spero di aver reso degnamente per questi personaggi la storia del loro amore, in primis quello di Sebé ed Anders e non meno importante quello di Raquel per il figlio e tutti coloro che lei considera figli e nipoti, anche senza legame di sangue, e l’amore che essi nutrono ed hanno nutrito per lei.
Questo racconto era stato pensato come lettura da proporre dopo l’intera pubblicazione de La fenice di Rio, da inserire in una raccolta di racconti sulla serie di long, (La volpe di Liverpool, Preludio alla Fenice e La fenice di Rio), a cui è attribuita: i racconti viaggeranno, come le long hanno in parte già fatto,  da Liverpool a Londra, da Londra a Dublino, da Dublino a Parigi e da Parigi a Rio de Janeiro.
Scrivendo questa storia ho imparato, in modo molto intenso, quanto ogni cosa che impariamo non sia mai inutile. Credevo, dopo la maturità classica, di aver abbandonato definitivamente la Matematica, e invece… :’)
Vi ringrazio di cuore per avermi dato fiducia, per aver letto e per esservi emozionati insieme a me. Per me questa è la cosa più conta.
Per questo ringrazio nuovamente tutti coloro che mi hanno lasciato le loro parole, i lettori che mi hanno mandato messaggi e commenti su facebook, i lettori silenziosi e le belle personcine che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate e le preferite. Grazie a chi mi ha aiutato con le sue conoscenze. Grazie al maestro Ludovico Einaudi per il supporto musicale. Grazie alla grande amica a cui è dedicata questa storia. Grazie a chiunque sarà qui oggi, domani, tra un anno, tra tanto tempo. Grazie a chi c'è da quando ero piccola e grazie a chi è appena arrivato. Grazie a chi mi permetterà di sentire la sua voce. 
 
Al prossimo viaggio,
Ania <3
 
 
[1] Il Tamborim è uno strumento musicale a percussione della famiglia dei membranofoni.
Di piccole dimensioni e solitamente suonato solitamente con una bacchetta, è usato nel Samba e in altri generi di musica "Afro-brasiliana".
 
   
 
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