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Autore: Yellow Canadair    31/05/2016    9 recensioni
Trafalgar Law sta operando Penguin a cuore aperto, uno dei suoi passatempi preferiti.
– Treguna, mekoides, trecorum satis dee! – mormora all’improvviso.
– Capitano? Ti senti bene? – chiede Bepo, che sta assistendo all’operazione con una mascherina sul muso.
Contemporaneamente, sulla Sunny, le autoreggenti di Nico Robin passeggiano in tranquillità sul ponte, Chopper insegue le bende dell’infermeria che si dipanano per metri e metri, impigliandosi nella velatura e nelle sartie, Brook, con il cuore in lacrime pensando al suo violino che si scorda da solo, piangendo regge il timone di quella gabbia di matti.
Intanto La Fenice è alle prese con dei fratelli che lo credono troppo stressato e tre fantasmi che, in gran segreto, abitano la sua Seagreen Phoenix.
Un tributo al meraviglioso film "Pomi d'Ottone e Manici di Scopa".
Genere: Comico, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Monkey D. Dragon, Monkey D. Garp, Mugiwara, Trafalgar Law
Note: Missing Moments, Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Il vero significato della D.


Nico Robin, in vita sua, aveva letto nei luoghi più disparati, complice una situazione legale non tra le più floride: quando non si ha che una decina d’anni e si è ricercati dalla Marina, può diventare complicato anche un gesto semplice come sedersi in poltrona a leggere un libro.

Una poltrona presuppone l’acquisto o l’affitto di una casa.

Un libro presuppone il suo acquisto in una libreria o il suo prestito in una biblioteca.

E alla piccola Nico Robin, prima del suo ingresso nella Baroque Works, erano complicate entrambe queste azioni.

La sua fortuna nella sfortuna, però, era stato quel Frutto del Diavolo che le permetteva di far sparire da bancarelle e mensole qualsiasi libro volesse, come in un gioco di prestigio. In fondo, tra la folla, i bambini risultano sempre invisibili o quasi e lei aveva letto pagine e pagine nascosta tra i banconi delle chiese, nelle soffitte di case abbandonate, sui rami degli alberi, su amache fatte di mani e di dita, in vagoncini da miniera e persino su carri bestiame. Una volta, persino nella tana abbandonata di un tasso.

Una volta alla Baroque Works, con i primi soldi messi da parte aveva comprato una bellissima poltrona foderata di velluto viola. Non c’era cosa che più amava che rincasare e sedersi su quel velluto liscio in compagnia di un libro. Certo, in un secondo momento aveva realizzato che il velluto non andava molto d’accordo con il clima di Alabasta, ma lei aveva voluto quel tipo di stoffa con tutta sé stessa e non sarebbe scesa a compromessi.

Poi Crocodile era stato sconfitto, i Nefertari erano tornati al potere, la Marina spadroneggiava, e certo fuggire con una poltrona in spalla non sarebbe stato proprio comodo, quindi Nico Robin si era rapidamente rassegnata e aveva abbandonato la sua compagna di letture.

Fu solo due anni dopo che si sarebbe di nuovo seduta in santa pace a leggere un libro in un luogo consono. Niente più barili vuoti; niente più uffici in disuso dei Rivoluzionari; niente più armadietti delle scope: Franky aveva dotato la Thousand Sunny di un bellissimo divanetto che correva lungo tutta la parete della sala dell’Acquario, di sedie e tavoli nella biblioteca e di due poltrone nella stanza sua e di Nami, e non poteva essergli più grata.

Naturalmente non sempre c’era il silenzio che un’appassionata lettrice come lei avrebbe voluto, ma preferiva sentire le urla di Usopp e Rufy in lontananza piuttosto che un opprimente senso di solitudine.

Non era nemmeno più necessario rubare i libri: poteva tranquillamente acquistarli la maggior parte delle volte, certa che, anche se a qualcuno fosse saltato in mente di catturare la “Bambina Demoniaca” o di fare una soffiata alla Marina, lei era abbastanza forte da difendersi, e c’erano amici pronti ad aiutarla in caso di forze soverchianti.

In più, il nuovo girovagare di porto in porto le offriva biblioteche e librerie sempre nuove da consultare, per non parlare dei mercatini dei libri usati o dei carretti che i rigattieri trascinavano per le vie!

Ecco dove aveva trovato, barattandolo per un bel fermacapelli di tartaruga, l’ultimo libro della sua collezione. “Stili di Architettura”, si intitolava. L’archeologia era un’inesatta scienza proibita ma, per la fortuna di Nico Robin, essa aveva numerose forme, e l’architettura era una di queste. Nessuno le avrebbe mai vietato di leggere un libro che parlava di basiliche, sezioni longitudinali, fornici e archi rampanti, per il semplice motivo che… l’architettura doveva ancora esistere. Ignorare il passato, Nico Robin lo sapeva, era un delitto, ma oggettivamente si poteva tirar su un edificio anche senza conoscere le gesta di gente vissuta secoli prima, a patto che in giro ci fossero ancora studiosi di architettura e di ingegneria edile.

Era un libro antico, una seconda ristampa datata 92 anni prima, quindi ancora più vecchio di Brook!

Nico Robin, in quel freddo pomeriggio di fine ottobre, si sedette sul divanetto della sala dell’Acquario, si accomodò sui cuscini che costellavano la stanza e si immerse nella lettura. La Thousand Sunny navigava tranquilla in acque calme, sospinta da zefiri leggeri, governata da Usopp che sbadigliava al timone, che già pregustava il cambio del turno. Nami era in giro per le cabine a fare l’inventario dei vestiti che occorrevano per i climi più freddi, visti i problemi avuti a Punk Hazard, e cercava Franky, di vedetta sulla coffa, per chiedergli la costruzione di un armadio sul ponte, in modo che tutti potessero avere un abito caldo a portata di mano in caso d’emergenza. Aguzzando l’orecchio si poteva sentire Brook suonare nella stanza dei ragazzi: a volte s’interrompeva e ricominciava daccapo, probabilmente stava provando qualche nuova melodia, o tentando di ricordare una vecchia canzone di mare. Zoro era vicino ad Usopp, stavano discutendo se fosse il caso di comprare un cavatappi nuovo o aggiustare quello che avevano, ma erano titubanti sul sottoporre o meno la questione a Nami: problemi a spendere centinaia di Berry per una giacca per lei non ce n’erano, ma l’ultima volta che Zoro si era trovato un calzino bucato lei aveva fatto una scenata dicendo che spendevano troppo, e che ago e filo non crescevano sugli alberi di mandarino. La mozione dello spadaccino, basata sul fatto che in quei calzini ormai c’era ben poco da rammendare e che occorreva acquistarne di nuovi, era stata respinta.

Sanji ascoltava pazientemente le richieste di Rufy per la cena, anche se credeva che avrebbe avuto non poche difficoltà ad accontentarlo: un “arrosto di bufalo enorme come un castello con le patate a forma di carte e sirene fatte di quella salsa buonissima che cucinava Makino” era un’indicazione un po’ vaga, ma forse avrebbe potuto tagliare la carne in modo che somigliasse ad un grande castello… le patate a forma di carte da gioco non erano un problema, piuttosto ricostruire la salsa di Makino senza una ricetta poteva essere complicato.

– A base di che cos’era? – domandò il cuoco.

– A base di salsa! – rispose felice Rufy.

– Va bene, ma aveva un sapore particolare? – riprovò il poveretto.

– Sapeva di quando torni a casa e sei felice! –

Sanji e Rufy si guardarono per qualche istante negli occhi.

– Vedrò cosa posso fare. – concesse Sanji, gettando il mozzicone di sigaretta nel mare.

Franky era di vedetta sull’alto del pennone maestro, si guardava attorno senza troppo interesse. Mare, mare ovunque. Nemmeno una vela o un’increspatura. Con lui c’era Chopper, era salito per tenergli compagnia ma era crollato nel mondo dei sogni già da un’ora.

Nico Robin sospirò, immergendosi nei dettagli dello stile gotico. Era una casa rumorosa, ma a quell’ora c’era sempre un po’ di pace, complice la tinta rossa e oro che rilassava gli animi dei suoi rocamboleschi amici. Sembrava che il confine tra sogno e realtà si assottigliasse, in quei momenti, e il calare delle tenebre su quell’ultimo giorno di ottobre sembrava un cupo sipario che si spalancava su un palcoscenico di ombre che emergevano da un sognante passato.

Voltata che ebbe pagina 217, le caddero in grembo dei fogli.

Per l’archeologa non era una sorpresa che da vecchi libri uscissero fuori dei ritagli, dei pezzetti di carta o piccoli bigliettini: era il bello dei libri usati, perciò fu felice di interrompere la lettura per scoprire cosa contenevano quelle pagine.

“Gli Incantesimi di Astoroth”

Magie.

E Nico Robin andava a nozze con i libri esoterici.

Sorrise, continuando a leggere quei cartigli.

Astoroth era un mago che aveva inventato una straordinaria formula magica che gli consentiva di dotare gli oggetti di vita propria; viveva in un castello nel Mare Settentrionale, su un’isola dove allevava animali per sottoporli ai suoi esperimenti. Un giorno, però, gli animali si ribellarono, uccisero il mago e rubarono gran parte dei suoi incantesimi.

Le parole che creano la magia sono incise sulla stella che Astoroth portava al collo. Queste parole sono…”

Nico Robin prese il secondo foglio e proseguì.

…incise sulla stella che Astoroth portava al collo”.

E poi c’era un’annotazione scritta a mano; anzi, un disegno: rappresentava, in maniera molto precisa, un medaglione con una stella inscritta in un cerchio, e sul cerchio erano scritte, in circolo, le cinque parole.

TREGUNA MEKOIDES TRECORUM SATIS DEE

Di fianco al disegno c’era scritto “Eglantine Price - 1940”.

Nico Robin si soffermò di quel nome e quel numero. L’intuito le suggeriva una donna, ma quel nome, “Eglantine”, non l’aveva mai sentito da nessuna parte. Forse era il cognome? Oppure era un luogo? E 1940? Era impossibile che fosse l’anno… non l’anno secondo la numerazione corrente, almeno. Che voleva dire? E se fosse stato un prezzo?

Voltò la pagina del disegno con la formula magica. C’era un appunto scritto a mano.

«La D. che compone taluni nomi dell’epoca moderna si narra sia opera di Astoroth, e indica la forma abbreviata dell’ultima parola del Supercalifragic-extramotus. In un disperato tentativo di salvarla dalla furia degli animali, egli la nascose tra i nomi della sua discendenza. Pertanto, i discendenti di Astoroth sono gli unici in grado di evocare la sua ultima magia.»

Nico Robin ebbe bisogno di leggere un paio di volte lo scritto prima di capire cosa aveva appena inteso. Quindi… Monkey D. Rufy in realtà era “Monkey Dee Rufy”?

Sorrise. Era un tentativo di spiegare la D. abbastanza goffo, considerando che, tra l’altro, l’ultima frase non aveva senso logico.

– Ehi Robin. – si annunciò Usopp. – Trovato qualcosa di interessante? –

– La storia di un mago – rispose la ragazza, ripiegando il foglio.

– Un mago? – fece eco il Cecchino. – Ne sconfissi uno, anni fa…

– Non credo sia lui. – tagliò corto l’archeologa, prevenendo una cascata di imprese prive di qualsiasi fondo di verità. – È storia molto più vecchia di noi. –

– Fa’ vedere – disse Usopp prendendo il cartiglio della stella. – Ehi! Parla della D.! –

– Sì, ma non credo sia attendibile. –

– Chi parla della D.? – esclamò Nami entrando nella sala.

– Nico Robin ha trovato la spiegazione della D.! – annunciò Usopp.

– Veramente non credo che… – protestò la donna, ma Nami stava già discutendone con Usopp.

Due mani spuntarono dal nulla e serrarono le bocche ciarlanti dei due.

– È sicuramente un falso. – stabilì Nico Robin dall’alto del suo Dottorato in Archeologia. – E Rufy vi confermerà che la sua D. vuol dire tutt’altro.

– Chi parla di me? – Rufy fece ingresso nella stanza.

– Ti credevo in cucina. – disse Nami.

– Sì, ma Sanji ci sta mettendo più del previsto… ha detto che aveva problemi con le salse, credo. Mi ha spedito qui perché mentre apriva il frigo io ne approfittavo per… –

– Rufy, che vuol dire la D. del tuo nome? – chiese Usopp a bruciapelo.

– …la …D.? –

– La D.! “Monkey D. Rufy”,  ricordi?! Il tuo nome! – s’alterò Nami.

– Ah… beh… non lo so! – rispose pacato il ragazzo spostando un po’ di mobili nella narice sinistra.

– Come fai a non sapere una cosa simile?! – si meravigliò Usopp.

Nami era a terra in lacrime perché si aspettava una risposta del genere, Nico Robin aveva riposto il libro e i fogli per evitare che in quel trambusto di sgualcissero e sorrideva, godendosi la scena.

– Chi non sa cosa? – anche Brook fece il suo ingresso.

– Rufy non sa come si chiama. – spiegarono Nami e Usopp.

L’espressione di Brook non mutò, altrimenti tutti avrebbero notato uno sguardo stranito e incredulo.

– Ma non è scritto sui manifesti…? –

– La D puntata. – gli spiegò Nico Robin.

– Ah, capisco. Nami, potrei vedere le tue mut… –

Un atlante geografico attraversò la stanza in silenzio, depositandosi di spigolo sul parietale destro del suonatore.

– Dunque non ti sembra un testo attendibile? – concluse la navigatrice.

– No, ma… possiamo sempre provare! – sorrise furba l’archeologa.

– Provare a fare cosa? – entrò Zoro.

Nami sbuffò. Bisognava spiegare tutto daccapo!

– Secondo un libro di Robin, la “D.” di Rufy vuol dire “Dee”, e lui è l’unico in grado di attivare la formula magica di un suo antenato.

– La Di vuol dire solo di? – fece eco Zoro alla spiegazione di Usopp.

– Si scrive d-e-e. E comunque secondo Robin sono tutte balle.

– Ehi, superciurma! – Franky era sceso dalla coffa, e insieme a lui c’era un assonnatissimo Chopper.

– Nico Robin ha scoperto che la D. di Rufy è una stupida formula magica. – semplificò ancora Zoro.

Il Cyborg aggrottò le sopracciglia e si tolse gli occhiali da sole. Chopper invece tornò a nuova vita.

– Oh Robin, davvero? Una formula magica come quelle dei racconti? Ti prego, proviamola! –

– Potrebbe essere pericoloso! – ammonì Usopp. – Anzi, mortale! – propongo di dimenticarci di questa faccenda… per il vostro bene. –

– Nemmeno per sogno! – intervenne Rufy. – Voglio provarlo subito! Robin, com’era la formula? –

– Aspetta, ma… chi c’è al timone? – disse sensatamente Nami.

Nico Robin ridacchiò. – Treguna, mekoides, trecorum satis dee – scandì.

Rufy prese fiato e declamò: – Treguna, mekoides, treco… –

– A tavolaaa! – la voce di Sanji, affacciato all’uscio, fece desistere il capitano e la questione venne rimandata a dopo cena.

 

– Non sappiamo nemmeno che genere di magia sia… o cosa faccia. – notò Usopp dopo aver mangiato.

Erano vicini a delle secche. Non isole su cui sbarcare, semplici lingue di sabbia, e Nami aveva fatto gettare le ancore per la notte.

I pirati di Cappello di Paglia erano riuniti nella sala dell’acquario, prima di dividersi tra chi sarebbe rimasto di guardia e chi se ne sarebbe andato a dormire.

E chi, come Rufy, avrebbe declamato incantesimi antichi.

– Pronti? –

– No! – strillò Usopp barricandosi tra i cuscini dei divanetti.

Treguna…

Brook trattenne il fiato… anche se lui non aveva nemmeno i polmoni.

Mekoides…

Zoro sbadigliò.

Trecorum… –

Nami cominciò a pentirsi di quell’idea, ripensò a Thriller Bark e sperò che fosse davvero una formula finta, inventata da chissà chi. Sperò che si risolvesse come quando, a tredici anni, aveva recitato “666” davanti allo specchio a mezzanotte e non era successo niente, ma lei aveva avuto incubi per tre giorni.

Satis…

Nico Robin sorrise, aspettando il finale di quella storia.

Dee! – terminò il capitano.

Silenzio tombale.

Nessuno parlava.

I pirati cominciarono a guardarsi attorno.

– Non succede niente! – si spazientì Rufy.

Stavano tutti per farsi una risata liberatoria quando Nami esclamò: – Guardate! –

 

~

 

Treguna, mekoides, trecorum satis dee. – sussurrò Dragon a mezza voce.

Emporio Ivankov alzò la testa dal rapporto segreto che stava scrivendo, nell’ufficio segreto del covo segreto sull’isola segreta nel mare segreto dove i Rivoluzionari operavano in segreto.

– Hai detto qualcosa, Dragonuccio? – fece.

I due erano seduti a due scrivanie che si trovavano su due lati di una stanza quadrata, uno di fronte all’altro.

Monkey D. Dragon, che stava alla sua scrivania a confrontare due cartine, si voltò a fissare l’amico.

– Non saprei… mi è venuta in mente questa frase…

– All’improvviso? Forse dovremmo accendere il radiolumacofono, c’è troppo silenzio qui. – disse guardando dall’altra parte della stanza, dove su un mobile dormiva l’animaletto.

Il radiolumacofono, però, si accese da solo prima che Iva lo toccasse: «…inendo di preparare un meraviglioso disco che vi trasmettiamo in anteprima!!»

– Ma che diavolo…?

 

~

 

– La vuoi smettere?!? Se mi sono dimesso è anche per causa tua!!! – urlò Sengoku a Garp.

Era l’apoteosi di una meravigliosa lite, scoppiata perché Garp era riuscito a litigare anche con la capretta dell’ ex Grand’ammiraglio per il possesso di una polpetta.

– Oh, andiamo!! – rispose Garp tra le risate. – Treguna, mekoides, trecorum satis dee! –

– Cosa?! –

– Eh? Che ho detto? –

Sengoku si afflosciò sulla propria sedia. – Garp, credo che sia il momento di prenderti una pausa… e di prendermene una anche io... –

– Non penso proprio! – ribattè Monkey. – Qui sono e qui resto! C’è ancora molto lavoro da fare in Marina, e…

– …e muoviamoci a finirlo. Passami il registro della IV brigata, per favore. –

– Quello laggiù? – indicò Garp.

I due uomini ammutolirono e sbiancarono all’unisono nel guardare il registro blu, da che stava su una pila di fogli su una sedia al lato opposto della stanza, sollevarsi in piedi e volare in linea retta verso di loro, schiantandosi sul faccione di Garp.

 

~

 

Trafalgar Law stava operando Penguin a cuore aperto, uno dei suoi passatempi preferiti.

Treguna, mekoides, trecorum satis dee! – mormorò all’improvviso.

– Capitano? Ti senti bene? – chiese Bepo, che stava assistendo all’operazione con una mascherina sul muso.

– Tutto nella norma. Passami il filo di sutura. – disse gelido il Chirurgo.

Ma quando Bepo tese la zampa al vassoio dove si trovavano gli strumenti chirurgici, questi levitarono contemporaneamente a circa dieci centimetri dal ripiano.

– Capitano… è la tua room, vero? – balbettò l’orso.

La faccia pallidissima e vagamente irosa di Trafalgar Law lasciarono intuire a Bepo che no, non era la room.

 

~

 

Barbabianca camminava tranquillo, bisento alla mano, lungo i corridoi interni della Seagreen Phoenix, il galeone di Marco. Dietro di lui trotterellavano felici Ace e Satch, scambiandosi battute e mettendo la testa nei bagni delle donne. Barbabianca entrò nella cabina di Marco senza aprire la porta.

All’inizio, per Newgate e Pugno di Fuoco, era stato difficile abituarsi a quel nuovo modo di…  essere vivi: erano fantasmi, avevano perso il loro corpo da tempo, non avevano poteri e per un po’ era stato faticoso persino mantenere una posizione eretta, privi di peso com’erano. Inoltre, il vecchio capitano si intristiva quando notava Marco che, in silenzio e in disparte, si disperava per la sua morte ma non poteva consolarlo in alcun modo.

Satch però era in quelle condizioni da più tempo di loro, e li aveva aiutati. «È questione di abitudine»  aveva detto dopo un abbraccio in stile “Carramba che Sorpresa”, ed era stato proprio così.

Adesso i tre infestavano la Seagreen Phoenix, nuova ammiraglia della flotta di Barbabianca e, a volte, con una risata più profonda o una botta di bisento sulla scrivania, il vecchio Newgate riusciva persino a far sentire la propria presenza alla triste Fenice.

Marco odiava farsi vedere giù di morale dagli altri fratelli, sempre ammesso che qualcuno fosse riuscito a decriptare la sua espressione apatica. Newgate era vicino a lui a cercare un’idea per consolarlo ancora una volta, nonostante non fosse visibile né con gli occhi né con l’Ambizione, quando lo raggiunsero in cabina i due figli.

– Non è aria da scherzi. – ruggì truce Barbabianca, rivolto ai due discoli.

Ace sospirò, intristendosi.

– Si riprenderà, babbo? – domandò Satch mentre si avvicinava alla scrivania dove si era seduto Marco. Scriveva il diario di bordo con quella sua grafia precisa e minuta, leggermente inclinata a destra, sospirando pesantemente. Ma loro, che lo conoscevano bene, sapevano che di solito non gli tremava la mano nello scrivere, né che nel sedersi attorcigliasse le gambe alla sedia tanto strette da domandarsi se passava il sangue. Scritta la prima frase, la Fenice sbattè il pennino nel calamaio e con una botta sorda calò la testa sulla scrivania.

– Sì, prima o poi. – rispose Newgate triste.

– Babbo… – era un ringhio, appena udibile, di Marco.

– SIAMO QUI!!! SIAMO QUI!!!! – schiamazzarono Ace e Satch saltando sul letto il primo e afferrandolo per le spalle il secondo, ma erano incorporei, e non divelsero le coperte né scossero il Primo Comandante.

– Marco, accidenti, sono vicino a te! – urlò Satch.

– Satch, basta. – ordinò secco Newgate.

Treguna, mekoides, trecorum satis dee! – gridò Ace avvicinandosi.

Satch ed Edward si girarono verso di lui, ignorando momentaneamente Marco.

– Che hai detto? – domandò il Quarto Capitano; forse aveva capito male.

– Ma che cazzo…? – Marco si alzò di scatto dalla sedia, allontanandosi dalla scrivania e catalizzando di nuovo le attenzioni dei fantasmi.

Ace, Satch e Barbabianca seguirono il suo sguardo incredulo: il calamaio si era sollevato a mezz’aria e le pagine del diario di bordo svolazzavano come scosse dal vento. Il pennino si sollevò dall’inchiostro e vergò sulla pagina del giorno la parola: A S T O R O T H.

 

~

 

Intanto, sulla Thousand Sunny, era il delirio.

Un delirio leggermente superiore a quando Brook era apparso dal nulla a Thriller Bark, ma per fortuna non raggiungeva la follia collettiva di quando Usopp aveva inventato una super colla a presa rapida, Zoro aveva spremuto troppo forte il tubetto, e tutti avevano cominciato ad attaccarsi a tutto.

– TOGLIMELA DI DOSSO!!! TOGLIMELA DI DOSSO!!! – strepitò Nami rivolta a Zoro, mentre una camicia da notte di Nico Robin le si aggrovigliava alle spalle di sua spontanea volontà.

– Non viene via! – ringhiò lo spadaccino cercando di staccare il raso viola dalla compagna.

– MARIMO DIMMERDA (l’ha detto proprio così, una parola sola e con due m) – arrivò un urlo inconfondibile. – RIPRENDITI LE TUE SPADE!!! – gridava Sanji mentre prendeva a padellate la Wadō Ichimonji che cercava di scassinare il frigo.

– NON SONO RESPONSABILE!! – rispose Zoro –  E SE LA SCHEGGI TI AMMAZZO! –

Rufy ballava come un indiavolato sul tavolo della cucina, ridendo e cantando, assieme al violino di Brook che suonava da solo a mezz’aria e ai mestoli di Sanji che battevano il tempo sulle casseruole, e insieme vorticavano attorno al capitano.

Franky, sentiti dei rumori sospetti, scese nella sua officina e non potè fare altro che barricare la porta dall’esterno con lamine di metallo per evitare che seghe e martelli impazziti se ne andassero a fare danni per la nave.

Nico Robin era riuscita a placcare dei vagabondi “Orgoglio e Pregiudizio”, “I Miserabili” e “Sandokan alla Riscossa” grazie ai suoi poteri, ma “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban” le stava dando seri problemi e non voleva arrendersi al suo destino, svolazzando qua e là e perdendo anche qualche pagina.

– Rufy! – pianse Usopp, barricato sotto un tavolo. – Ferma tutto, ti prego!! –

– Ma io mi sto divertendo tantissimo! – protestò ridendo il ragazzo.

Intanto le autoreggenti di Nico Robin passeggiavano in tranquillità sul ponte, Chopper inseguiva le bende dell’infermeria che si dipanavano per metri e metri, impigliandosi nella velatura e nelle sartie, Brook, con il cuore in lacrime pensando al suo violino che si scordava da solo, piangendo reggeva il timone di quella gabbia di matti.

 

~

 

– Iva!! – tuonò Dragon afferrando e spezzando un pennello da phard che lo minacciava di contouring. – Ti ho detto che la borsa dei trucchi deve rimanere fuori dagli uffici! –

– La mia pochette – ruggì il Regino di Kamabakka schivando un mascara – Rimane con me, capito?? –

Come se il problema fossero i sette mascara, tre primer, quattro blush, la cipria, sette ombretti in crema, due in polvere, il fondotinta a lunga tenuta, la BB cream, la CC cream, tutto l’alfabeto cream, il pennello da sfumatura, il piegaciglia, i tre lip gloss, i quattro rossetti matt, i tre rossetti liquidi e le matite nere, blu, viola, rosa, verde scuro, verde smeraldo, verde petrolio, verde capelli-di-Makino: il dramma erano le centinaia di fogli svolazzanti che invadevano la stanza vorticando come farfalle, tutti rapporti che, una volta, erano in ordine alfabetico.

– Draaagon! – trillò felice una voce femminile sulla porta. – Ti ho portato i rapporti da… Iva, sei andato a far spese di make-up senza di me? – si stupì Koala.

– Solo un giro veloce. – minimizzò il rivoluzionario. – Avevo finito il mascara. Quel mascara. – rispose indicando un tubetto azzurro e bianco e volteggiava attorno alla lampadina appesa al soffitto come una falena impazzita targata Kiko.

– ESCI!! ESCI DA QUI CON QUEI FOGLI!! – urlò Dragon rendendosi conto del pericolo.

Troppo tardi: i rapporti che erano nelle mani della ragazza presero spontaneamente il volo e si andarono a mischiare con i rapporti che volavano nella stanza come uno stormo di colombe, mentre i due uomini, impotenti, tiravano giù una sequela di santi.

 

~

 

– E io dovrei credere che non è opera della tua Room? –

Eustass Kid non perdonava qualcuno che gli chiedeva indicazioni per strada, figuriamoci una fila di bisturi che, spontaneamente, emergevano dal mare e rigavano la fiancata della nave scrivendo insulti e disegnando roba sconcia.

– Non è la mia Room. Te l’ho detto. – disse Trafalgar Law.

– Sì sì… – replicò Kid senza prenderlo sul serio. Poi, distratto da delle urla di dolore: – Ehi, Killer! Dacci un taglio! –

Killer smise immediatamente di giocherellare con gli intestini di Penguin, il quale era ancora sotto l’influsso della Room di Law; il Chirurgo non aveva potuto portare a termine l’operazione che stava eseguendo sul suo compagno di ciurma a causa del bailamme creatosi.

– La Room – spiegò piccato Law – Al momento è circoscritta a quello lì. – disse indicando Penguin che inseguiva la sua milza all’interno di una sottile bolla azzurrina. Per la sua sicurezza, non poteva assolutamente uscirne fino a suture ultimate.

– Sei sicuro di riuscire a controllare per bene i tuoi poteri, ragazzino? – ghignò Eustass Kid, soverchiando di proposito il medico con la sua corporatura piazzata e robusta.

Trafalgar Law maledisse quel lunedì mattina e desiderò ardentemente un caffè.

 

~

 

Era una piccola riunione privata dei Comandanti di Barbabianca, escluso Marco. Non per cattiveria, in realtà: lui si era ritirato nella sua cabina, e Vista aveva cominciato a chiacchierare sottovoce con Izou. Poi erano arrivati Atomos e Halta, e si era aggiunto Fossa. Jaws aveva notato il capannello e aveva fatto cenno a Speed Jill di raggiungerlo. Namiur uscì dall’acqua per sentire cosa si diceva, e Rakuyou pensò bene di portare le birre, mentre Blamenco pensò alle patatine fritte da sgranocchiare. Curiel stava per andarsene a letto ma venne attirato da Blenheim, e infine anche Kingdew aveva bigiato dal turno di guardia per informarsi.

Insomma, era stata una riunione spontanea. Il capannello aveva assunto proporzioni di assemblea parlamentare e quindi i Comandanti avevano ritenuto più saggio spostarsi in una delle cabine della Seagreen Phenix.

– Ma così corriamo il rischio che Marco ci senta! – protestò Halta.

– Però siamo anche più vicini in caso di necessità. – obiettò Vista, che sembrava presiedere la riunione.

– Sei preoccupato per lui, vero? – domandò burbero Fossa, intendendo La Fenice.

– Certo. – rispose il Quinto Comandante. – Non mangia più, non ride più, e scommetto che dorme anche meno. –

– Non puoi biasimarlo… – cominciò Curiel.

– È difficile. – tuonò Jaws.

– Lo so. Lo so. – mormorò Vista prendendosi la testa tra le mani. – Non vorrei che avessimo sbagliato, a caricarlo così presto del peso dell’intera ciurma.

– Ma è pur sempre Marco… è una roccia, ha superato di tutto… – obiettò Rakuyou.

– Sì, però è anche un essere umano. – ricordò Fossa. – Tutti voi avete sfogato la rabbia per la morte di papà in qualche modo. Izou! – indicò un ragazzo dai lucenti capelli neri e il trucco pesante delle geishe – Tu hai scaricato le tue pistole contro ogni essere vivente dell’isola di Fasto. E meno male che non c’erano villaggi. –

Izou sbuffò.

– Kingdew, tu sei andato ad attaccar briga con quella Supernova, Kid.

Kingdew ridacchiò.

– E tutti voi avete sulle spalle qualche bravata simile. O magari degli sfoghi privati. – continuò Fossa. – E Marco? Qualcuno l’ha mai visto cedere? –

Silenzio tra i capitani.

La porta della mensa si spalancò e comparve uno stravolto Marco.

Vista, sentendosi colto in fallo, cominciò a dire: – Marco! Noi… stavamo decidendo per la pross-

– Porca puttana, qualcuno ha mangiato un Frutto del Diavolo?? – chiese il Primo Comandante, visibilmente agitato.

– Un Frutto del Diavolo…? – fece eco Halta.

– Gli oggetti nella mia stanza hanno cominciato a muoversi da soli! – disse allarmato il Comandante.

Tutti i Capitani guardarono verso Vista, colti dal medesimo pensiero.

– Marco – disse Vista andando verso di lui. – Noi abbiamo paura che tu ultimamente sia un po’ stressato… –

– Stai scherzando?? Potremmo essere sotto attacco! –

– Nessuno ha dato l’allarme, e l’isola è sorvegliata. Non c’è nessuno salvo noi. – lo contrariò Curiel.

Intanto Ace, Satch e Barbabianca volteggiavano nella nave alla ricerca di Marco, che era scappato via dalla sua cabina.

– Perché ho l’impressione di averla fatta grossa? – piagnucolava Ace.

– Perché probabilmente è così! Cos’era quella frase che hai biascicato, in camera di Marco? È da allora che sono cominciati i guai! – lo rimbeccò Satch.

– Non lo so! Mi è venuta in mente e l’ho detta, ecco tutto! – si difese Portuguese.

– Non colleghi il cervello alla bocca, ecco cosa! – lo sgridò Satch.

– Basta, voi due! ci sono guai più seri! – li redarguì Edward Newgate affacciandosi alla porta della mensa. – Eccolo lì. Meno male, ci sono anche gli altri. –

Vista aveva fatto sedere Marco e gli stava facendo una gran paternale: – Marco, ascoltami, lo so che avere la ciurma sulle proprie spalle è difficile… per questo volevamo dirti che per qualsiasi cosa, uno sfogo, un aiuto, noi ci siamo. E ci saremo sempre! hai capito? –

L’espressione di Marco impassibile e austera non faceva presagire niente di buono.

– Non sono esaurito. C’è qualcosa che non va in questa nave! C’è qualcuno a bordo, nessuno dei nostri ha un potere del genere! –

– Non si muove niente in questa stanza, sei sicuro che non stessi sognando? – chiese Vista.

In quel preciso istante gli occhi di tutti puntarono il cappello a tuba del Comandante, che aveva cominciato a sollevarsi dal suo capo, galleggiando a mezz’aria a pochi centimetri dal soffitto.

 

~

 

– Rufy, ti prego – pianse Nami con la camicia da notte di Nico Robin teneramente abbracciata a lei. – Se non fai finire tutto questo, alla lunga la nave rischia di affondare! Brook non riuscirà a stare al timone a lungo, con questa confusione! Il Log Pose rischia di rompersi! Se si attivasse anche la motosega di Franky saremmo spacciati! Zoro ha quasi strangolato Sanji per la storia della katana che stava scassinando il frigo! I medicinali di Chopper si sono mischiati con le provviste! Non riusciamo ad ammainare le vele perché le bende le hanno prese in ostaggio! Ti, prego! –

Rufy finalmente smise di fare surf sulle stoviglie che vagavano per la stanza e si voltò ad ascoltarla.

– …se vuoi diventare il Re dei Pirati, ferma l’incantesimo! – concluse la navigatrice con fermezza.

Il capitano improvvisamente sembrò rendersi conto della gravità della situazione.

– Ma… io non so come si fa. – ammise.

– Robin! – la interpellò Nami.

– Mi dispiace, non ho trovato nessun altro appunto, nel libro. – sorrise l’archeologa, come se le sue autoreggenti in giro per la nave non fosse argomento che la riguardasse.

Rufy si alzò in piedi sul tavolo della cucina e, preso fiato, cominciò a urlare e battere le mani: – Fine dei giochi! Fine! Fine! –

Tutti gli oggetti che avevano preso vita si voltarono nella sua direzione.

– Fine, basta!! Treguna, mekoides, trecorum satis dee! –

Armi, vestiti, cappelli, bende, stoviglie, piatti, utensili e libri caddero inermi al suolo con un tonfo unico.

Nico Robin prese al volo il violino di Brook.

 

~

 

– Reggete le spade!! State attenti alle spade!! – urlò Halta cercando di confinare la sua nel fodero.

Sulla Seagreen Phoenix si era scatenato il cataclisma: armi che inseguivano i pirati, il mantello di Vista che cercava di strangolare il proprietario, stivali che prendevano a calci i Comandanti, gli oggetti della stanza sembravano avere vita propria e l’unico felice era Marco, che poteva provare senza ombra di dubbio da parte dei fratelli di non essere sull’orlo dell’esaurimento nervoso.

I tre fantasmi guardavano la scena, ma purtroppo non potevano agire.

Ace però continuava a urlare avvertimenti ai suoi fratelli, infischiandosene del tutto del fatto che loro non potessero sentirlo.

– Beh, almeno è la prima volta dopo Marineford che li vedo con la mente occupata a pensare ad altro. – osservò Satch. Altro rispetto alla morte di Newgate ed Ace, naturalmente.

– Sì, ma preferirei che nessun altro si aggiungesse al terzetto. – ribattè Barbabianca guardando Fossa che rovesciava dell’acqua sulla sua katana, che aveva spontaneamente preso fuoco.

– Com’erano quelle parole? – ripensò Ace.

– Ti prego, non peggiorare la situazione. – ringhiò Satch mentre una padella lo trapassava come aria.

Treguna, mekoides, trecorum satis dee. – si ricordò all’improvviso Pugno di Fuoco.

Tutti gli oggetti si arrestarono per un istante. Vista ne approfittò per riprendersi la tuba.

Poi, con un unico clangore, caddero tutti a terra, inermi come al solito.

Satch, Ace e Barbabianca assistettero commossi ai Capitani che si scusavano con Marco, e poi videro con sollievo Marco chieder loro scusa, perché in parte era vero, a volte (ma solo a volte, precisò) era difficile andare avanti senza il Babbo.

E mentre Halta lo abbracciava stretto, imitata poi da Fossa e da Speed Jill, precisava che comunque non era sull’orlo di una crisi di nervi.

 

~

 

– Possiamo… possiamo uscire? – sussurrò Garp, non sentendo più rumore di fogli e di registri in giro per la stanza, né urla di Marine che avevano incrociato registri fuggiaschi o lumacofoni in vena di viaggi in solitaria per la sede.

Lui e Sengoku si erano rifugiati sotto una scrivania rovesciata per scampare al nugolo di oggetti minacciosi, portandosi persino la capra (la quale aveva continuato a litigare con Garp). A poco era valsa l’Ambizione di Sengoku o i pugni dell’Eroe della Marina: nulla pareva arrestare quell’incanto.

E poi, un tonfo sordo e tutto si era fermato, tutto era tornato alla normalità. I due Marine, increduli, misero il naso fuori dal loro nascondiglio.

– Ti ritengo personalmente responsabile. – tuonò minaccioso il superiore.

– Che assurdità! – rise Il Pugno. – Sai benissimo che non ho un potere del genere! –

– Spero che nel resto della sede nessuno abbia notato niente… –

– E adesso chi mette a posto? – osservò Garp.

Sengoku lo guardò truce.

Garp guardò la capra.

La capra guardò verso la porta e se ne uscì, lasciandoli da soli a risolvere la questione.

 

~

 

Trafalgar Law aggiustò in fretta e furia Penguin per ritirare finalmente la Room e dimostrare, agalmatolite alla mano, che lui non c’entrava nulla con quei bisturi che avevano cominciato a scolpire donnine nude sulla fiancata del vascello di Kid. Non che a lui dispiacesse, in realtà, ma nessuno doveva toccare la sua nave senza permesso, era una questione di principio.

Appena le manette scattarono attorno ai suoi polsi, però, i bisturi caddero in mare come fulminati con dei piccoli plof.

Kid e Law non potevano saperlo, ma dall’altra parte del mondo qualcuno aveva recitato la formula per porre fine all’incantesimo.

Kid ghignò di un’ilarità perfida e tremenda. Si sforzò soprattutto di non trucidare all’istante il collega pirata, rovinandosi tutto il gusto di una tortura ben eseguita.

Law maledisse tutto l’universo creato.

– A quanto pare era proprio opera tua. – ruggì minaccioso il Capitano. Heat intanto calcolava i danni alla nave e li annotava su un foglietto che poi porse a Kid.

Kid lo lesse.

Killer sbirciò la cifra e disse a Law: – Vado a prenderti la vaselina. –

 

~

 

Baltigo era devastata.

Anni e anni di relazioni andate in fumo.

– Ma, qualcuno le ha mai lette? – si chiese all’improvviso Ivankov.

– No, mai. Nelle mie scrivo solo parolacce, ma nessuno ha mai protestato. – rispose un rivoluzionario che preferisce restare anonimo.

Certo, qualcuno avrebbe dovuto premurarsi di fermare l’accendigas che andava dritto dritto verso il magazzino degli esplosivi.

Per fortuna non c’erano stati feriti e, per quanto il botto fosse stato violento, danni alla struttura principale non sembravano essercene stati.

La pochette di Iva era sparsa al suolo, immota. Dall’alto piovevano ancora rapporti e relazioni, come uno stormo di bianche colombe.

Dragon guardava con sospetto i pennelli che rotolavano tra i sassi.

– Ehi! State bene? – un ragazzo biondo arrivò tra le macerie dove, meditabondi, Dragon e Iva stavano contando i danni.

– Tutto a posto, Sabo. Koala dov’è? Era qui un attimo fa… –

– È nella zona sud, sta aiutando a portare al sicuro almeno la roba da mangiare… ma com’è successo? Non sono stati segnalati intrusi, e alcuni di noi dicono di aver visto degli oggetti volare… sei stato tu, Dragon?

Monkey D. Dragon sospirò. Poi disse: – Un’esplosione così forte sarà stata avvertita anche nelle isole vicine. Bisognerà trovare una scusa plausibile.

– Tipo? – fece Iva.

– Che siamo stati attaccati da qualcuno. –

– E da chi? Chi oserebbe attaccarci? –

– Barbanera. Teach. – ovviò il Rivoluzionario.

– Non se la berrà nessuno. E poi l’abbiamo già usato per quando Sabo ha distrutto la base provando il Foco-Foco. – protestò Koala, giunta in quel momento.

– Voi intanto preparate l’articolo esclusivo e mandatelo anonimamente al giornale. I lettori credono a qualsiasi cosa. –

 

 

 




Dietro le quinte...

Questa è una storia per il puro divertimento personale dello sconsiderato autore, ma spero che a leggerla vi siate divertiti quanto io a scriverla. L'idea che la D. significasse solo "Dee" mi è venuta un po' per l'episodio dei Simpson in cui la J. di Homer vuol dire proprio "Jay", un po' per l'esposizione prolungata negli anni a quel meraviglioso film Disney che è "Pomi D'Ottone e Manici di Scopa", che consiglio di vedere. La formula magica, il personaggio del mago Astoroth e quello di Eglantine Price, il Supercalifragic-extramotus appartengono allo splendido mondo di Walt Disney. 

Qui vi lascio il link dove potete trovare uno spezzone del film (quello dove viene effettivamente provata la formula); la qualità è pessima ma Sticats. 

Il libro sull'architettura che Nico Robin sfoglia esiste davvero, è mio e l'ho trovato davvero da un rigattiere. Ed è davvero di novant'anni fa. E dentro ci ho trovato sul serio alcuni cartigli messi lì dai precedenti proprietari.

Non c'entra con la storia, ma io e mio fratello siamo andati in un museo d'armi francese a recitare ad ogni bacheca (ogni. bacheca.) il mantra "Treguna, mecoides, trekorum satis dee" sperando di formare un esercito invincibile di fantasmi. Purtroppo invano. Però i nostri genitori ricordano ancora con raccapriccio le ore passate in quel museo a vederci parlare con le armature.

Ci sono un paio di D. illustri assenti: Marshall D. Teach, Gol D. Roger, Portuguese D. Rouge e Hogwar D. Sauro (o qualsiasi sia la sua traslitterazione, l'ho letto in almeno tre modi diversi; l'amico d'infanzia di Nico Robin, ci siamo capiti): non li ho eliminati per cattiveria, semplicemente per mancanza di ispirazione. Gli ultimi tre, inoltre, sarebbero stati fantasmi e non volevo "bissare" quanto scritto per Ace, Satch e Barbabianca. Teach, tesoro di mamma, a te ho pensato due giorni e non sono riuscita a rimediare un'idea che fosse una.

Grazie a voi per aver letto questa chilometrica storia, se vorrete lasciare una recensione renderete felice l'autore! <3 

Arrivederci,

Yellow Canadair

 

  
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