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Autore: aturiel    31/05/2016    3 recensioni
[Racconti di Mezzanotte]
Non era cambiato nulla da quando l'aveva sorpreso per la prima volta a fare sesso con una ragazza nella sua stanza? Era davvero ancora capace di illudersi in questo modo?
Certo che lo sei. Perché Alex ti piace, ti piace da impazzire, gli diceva maliziosa una vocetta nella sua testa.
Stephane si sentiva l'incarnazione dello stereotipo del gay del ventunesimo secolo: capelli azzurri, lineamenti delicati, tante storielle con tipi più o meno raccomandabili alle spalle e innamorato cotto del suo migliore amico. Gli mancava solo l'essere discriminato dalla propria famiglia e poi sarebbe potuto entrare facilmente nell'elenco dei cliché dei film a tematica LGBT.
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Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Oh you’re in my veins
And I cannot get you out
Oh you’re all I taste
At night inside of my mouth
Oh you run away
Cause I am not what you found
Oh you’re in my veins
And I cannot get you out.


In my veins – Andrew Belle


Driiin
Il suono della sveglia lo riscosse dal suo sonno o, per meglio dire, dal suo dormiveglia. Non era stata una bella nottata per Stephane, non con la mente che non era neppure riuscita a concentrarsi sulle pecorelle da contare per prendere sonno perché troppo presa a ignorare i rumori molesti provenienti dalla stanza accanto.
«'Giorno, Steph!» gli disse il suo coinquilino appena lo vide entrare in cucina.
Stephane non rispose al saluto e si limitò a emettere un borbottio infastidito.
«Dai, non posso divertirmi un po' anche io? L'ultima volta sei stato tu a portare ospiti in casa senza avermi detto nulla».
In effetti non aveva tutti i torti, ma quella volta era ubriaco marcio e decisamente non in grado di rendersi conto che portare due ragazzi appena conosciuti a una festa nella casa che condivideva con il suo migliore amico non era affatto una buona idea. E poi era depresso per colpa di Alex, anche se questo lui non lo sapeva.
«Va beh, almeno ti sei divertito mi pare» disse poi, cercando di ignorare la nausea che aveva iniziato a salirgli fino in gola.
«Certo! Era bellissima quella Natalie. Aveva due tette fantastiche, avresti dovuto vederle» disse Alex, poi però aggiungendo in modo scherzoso: «Anzi no, tanto a te quelle non interessano».
Stephane sospirò rassegnato. Già, a lui le tette non interessavano proprio per nulla, e non gli interessava neppure di Natalie, a dirla tutta, ma mica poteva dirlo ad Alex: era sempre così fiero delle sue conquiste!
Preparò la colazione, legandosi con un elastico i lunghi capelli azzurri per evitare che finissero nel cibo, quindi la portò ad Alex che, ancora in boxer, se ne stava seduto in soggiorno.
Almeno ha avuto la decenza di farla andare via prima che mi svegliassi, pensò Stephane mentre gli porgeva il piatto.
«Grazie, Steph» disse quello. Ma non bastava un grazie, doveva per forza aggiungere: «Stai bene con i capelli legati, hai un bel collo».
Non arrossì: quello lo faceva quando era ragazzino, quando ancora andavano alle superiori insieme, ora invece lo guardò con occhi truci e iniziò a mangiare le sue uova.

La giornata al College era più lunga e faticosa del normale. Le lezioni parevano non finire mai e, soprattutto, di due argomenti su tre non era riuscito a capire un'acca, cosa che lo aveva fatto innervosire al punto da smettere completamente di prendere appunti.
Era un peccato che Alex non venisse nel suo stesso College: sarebbe stato sicuramente meno pesante seguire i corsi, e magari l'avrebbe pure aiutato a superare l'esame di anatomia. Purtroppo però il suo migliore amico non era il tipo da studiare per diventare medico – o meglio, non era tipo da studiare e basta – e quindi aveva iniziato un College senza nemmeno l'obbligo di frequenza e dall'altra parte della città.
Un sussurro all'orecchio lo riscosse dai suoi pensieri: «Ehi, Fata Turchina, a chi hai leccato l'uccello 'sta mattina?»
Ecco, ci risiamo, pensò, sospirando rumorosamente e alzando gli occhi al cielo.
«Sicuramente non a te, Ivan» rispose lui, non staccando lo sguardo dall'insegnante al centro dell'aula. Ma l'unica reazione che ottenne fu che quella testa di cazzo, con una risata, si sedette accanto a lui, di nuovo.
«Senti, ma proprio qui devi sederti?» sibilò quindi, guardandolo dritto in viso.
Ivan si voltò verso di lui e sorrise enigmatico e malevolo. Era bellissimo, con quei suoi riccioli biondi e il fisico scolpito da chissà quale sport, senza contare poi gli occhi del colore del cioccolato e le fossette che si creavano ogni volta che sorrideva... ma i geni di mamma e papà non potevano salvarlo dall'essere l'incarnazione della cattiveria e della stupidità umana.
Stephane, quindi, sospirò di nuovo, cercando di non tirare pestoni al suo vicino finché non si fosse alzato e continuando a seguire la lezione, per quanto fosse difficile farlo.
«Allora, Stephane, dimmi un po' una cosa» esordì il suo vicino, evidentemente senza avere l'intenzione di lasciarlo in pace. «Chi ti faresti in quest'aula?»
Non rispose e continuò a prendere appunti.
«Eh dai, che ti costa?» lo stuzzicò ancora Ivan, iniziando a tirargli pizzicotti sul fianco.
Ma cosa sei, un bambino delle elementari?
Continuò quindi ad ignorarlo, cercando con sempre più difficoltà di trattenersi dal prenderlo a pugni in faccia. Ma poi Ivan ricevette un'illuminazione divina: «Ma certo! Come ho fatto a non capirlo... l'unico che vorresti scoparti è quello là, il tuo amico, quello che viene sempre con te alle feste. Alex si chiama, giusto?»
Stephane si voltò di scatto nella sua direzione, fulminandolo con i suoi occhi verdi, quindi posò la penna e abbassò la mano fino al cavallo dei pantaloni del vicino.
L'altro, sentendo il suo palmo sopra di lui, biascicò: «Cosa... cosa stai facendo?»
Stephane quindi, senza distogliere per neppure un secondo lo sguardo da lui, strinse con forza la sua carne, torcendo la stoffa e al contempo ciò che nascondeva. Ivan mugolò di dolore, piegandosi sul banco.
«Lasciami, frocio del cazzo» ringhiò quindi, staccandogli la mano dai suoi pantaloni e alzandosi poco dopo.
Ivan cambiò posto, mentre Stephane sorrideva soddisfatto.

Aprì la porta di casa, stanchissimo per la giornata appena trascorsa e già con l'ansia di dover iniziare a studiare per l'esame che lo aspettava. Ma se pensava che la sua stanchezza avesse già raggiunto il limite massimo per quelle ventiquattro ore, si sbagliava di grosso: appena mise un piede dentro casa, sentì dei gemiti provenire dalla cucina. Sapeva perfettamente che questo significava che Alex era occupato, ma non gli interessava: la casa era anche sua, e non aveva intenzione di andarsene nell'altra stanza con la coda fra le gambe perché l'amico potesse fare i suoi porci comodi.
Posò quindi la borsa sul divano e, con passo deciso, si diresse verso la cucina dove, come aveva immaginato, Alex stava facendo sesso sul tavolo con una ragazza. Era bella per essere una donna: aveva le braccia sottili e la pelle bianca quasi come la sua, i capelli neri e lunghissimi, tutti attorcigliati nelle dita forti di Alex. Gli occhi erano chiusi, la bocca aperta per lasciar sfuggire i gemiti di piacere e il corpo quasi del tutto coperto da quello del suo amante.
«Alex» disse solo, catturando la sua attenzione. Lui spalancò le palpebre, quindi si allontanò con uno scatto dalla ragazza sotto di lui. Lei incrociò lo sguardo di Stephane e, colta da chissà quale voglia, gli si lanciò addosso e tentò di baciarlo.
«Ma che cazzo fai?» le ringhiò contro Stephane e, non appena sentì la risata di Alex, esclamò: «E tu che hai da ridere?»
Alex lo guardò divertito, quindi disse, rivolto alla ragazza: «Ti faccio vedere io come si fa, Nat» e, detto questo, gli si avvicinò e lo baciò.
Il cervello di Stephane andò del tutto in cortocircuito: l'unica cosa di cui era certo erano le calde labbra dell'amico sulle proprie, la sua lingua che cercava di scavarsi uno spazio nella bocca, una sua mano sotto il mento e l'altra fra i capelli azzurri. Erano dieci anni che sognava quel momento, dieci anni infernali passati a vederlo toccare ragazze su ragazze, dieci anni in cui si era impedito di rovinare tutto e confessargli ciò che il suo cuore aveva nascosto per tutto quel tempo. E ora era stato lui a baciarlo, proprio quell'Alex terribilmente etero che non si rendeva conto di quanto lo facesse bruciare dalla gelosia, di quanto lo illudesse quando lo sfiorava, lo abbracciava, gli faceva complimenti, di quanto fosse idiota a fare tutto questo per scherzo...
Per scherzo!
Stephane si riprese improvvisamente, con quell'unica consapevolezza marchiata a fuoco nel suo cervello e gli occhi che gli pizzicavano. Lo allontanò con uno spintone e, per paura che l'altro vedesse la sua espressione sconvolta, senza incrociare il suo sguardo afferrò la borsa che aveva abbandonato sul divano e uscì quasi correndo.

Si sedette su una panchina col fiatone, perché appena fuori dalla porta aveva iniziato davvero a correre. Non era cambiato per nulla da quando non era altro che un ragazzino di diciassette anni, con gli ormoni a palla e un migliore amico da capogiro? Non era cambiato nulla da quando l'aveva sorpreso per la prima volta a fare sesso con una ragazza nella sua stanza? Era davvero ancora capace di illudersi in questo modo?
Certo che lo sei. Perché Alex ti piace, ti piace da impazzire, gli diceva maliziosa una vocetta nella sua testa.
Stephane si sentiva l'incarnazione dello stereotipo del gay del ventunesimo secolo: capelli azzurri, lineamenti delicati, tante storielle con tipi più o meno raccomandabili alle spalle e innamorato cotto del suo migliore amico. Gli mancava solo l'essere discriminato dalla propria famiglia e poi sarebbe potuto entrare facilmente nell'elenco dei cliché dei film a tematica LGBT.
«Cristo» imprecò, passandosi le dita fra i capelli. Non riusciva a dimenticare tutto ciò che il suo migliore amico aveva fatto per lui, tutto ciò che avevano passato insieme... e poi non riusciva a dimenticare i suoi occhi neri – nerissimi! –, la pelle caffellatte, come gli piaceva descriverla, e nemmeno quel corpo così mascolino, così...
No, basta.
Era così difficile cercare di rimuovere dieci anni della sua vita, però quel bacio doveva esserne per forza il motivo. Non avrebbe potuto continuare a guardarlo in faccia con la speranza che diventasse gay tutto d'un colpo, il suo debole cuore non poteva più pensare di poter essere tutti i giorni illuso da qualche gesto mentre il cervello si sforzava di non dar loro peso. Ora doveva a tutti i costi smettere di guardarlo con gli occhi di un innamorato e iniziare a usare quelli di un migliore amico e basta, altrimenti il loro legame – ne era certo – sarebbe andato pian piano a deteriorarsi. Era già un miracolo che fossero durati tutto quel tempo, ora non aveva proprio nessuna intenzione di scherzare con la fortuna.
L'unica cosa da fare era trovare qualcuno che facesse impallidire Alex, che gli catturasse a tal punto i sensi da fargli dimenticare quell'unico bacio.

 
***

Il cellulare di Stephane iniziò a tremare convulsamente per la tredicesima volta proprio quando la lezione stava per incominciare. Oramai aveva iniziato a prendere in considerazione l'idea di disinstallare quella maledetta applicazione per incontri online, soprattutto contando che tre quarti dei personaggi – sì, perché non si potevano definire in altro modo – che aveva incontrato erano pervertiti incurabili o palesemente fake, mentre i restanti erano poco propensi a un incontro dal vivo e preferivano chat online.
Da dove gli fosse venuta in mente l'idea di installare una cosa simile sul suo cellulare, Stephane non lo sapeva con esattezza, ma per lo meno poteva dire di star provando a dimenticare Alex... giusto?
Scosse la testa per scacciare i troppi pensieri, quindi prese il cellulare e controllò il nuovo messaggio.

 
From: DarkPlaceundertheMoon
To: Steph_blue
Hey :)

Stephane, leggendo il semplice saluto, trattenne a malapena uno sbuffo sconsolato: l'originalità non era propria nemmeno di quel nuovo DarkPlaceundertheMoon, nonostante il suo nickname desse, almeno a primo impatto, a ben sperare. Aprì l'immagine del profilo: a differenza delle dodici precedenti, non rappresentava addominali scolpiti, occhi ammiccanti o visi di modelli semi-sconosciuti. Era una semplice immagine di due mani appoggiate su un tavolo, lunghe e affusolate e con le unghie curate e con una sigaretta fra l'indice e il medio, ma allo stesso tempo la foto era leggermente sgranata, cosa che stava a indicare che, almeno in teoria, non si trattava di un fake.
Da quand'è che analizzo le immagini di profilo per decidere se sto per iniziare a parlare con un deviato o meno? E, soprattutto, da quando mi interessa?
Stephane scosse nuovamente la testa, sconsolato, quindi rispose al saluto.

«Si può sapere chi è che continua a mandarti messaggi?» chiese tutto d'un tratto Alex, non appena sentì vibrare il cellulare sul tavolo per l'ennesima volta.
Eccolo che ricomincia.
«Affari miei» rispose secco Stephane, afferrando il telefono prima che il suo migliore amico lo facesse prima di lui. Aveva ancora la mente confusa da ciò che era accaduto due giorni prima ed era ancora arrabbiato con lui: non aveva voglia di raccontargli di DarkPlaceundertheMoon, e nemmeno di spiegargli il motivo per cui si era iscritto a quel benedetto sito d'incontri online, quindi si sarebbe dovuto accontentare del suo fastidio.
«Dai, come si chiama?» gli chiese Alex, stranamente curioso. Non era da lui impicciarsi dei suoi affari, ma evidentemente quel giorno aveva deciso che interessarsi delle sue faccende sentimentali poteva essere più avvincente di aggiornare ogni cinque minuti la Home di Facebook.
Stephane, senza staccare gli occhi dallo schermo, rispose: «Continuano ad essere affari miei».
A quelle parole, Alex si alzò di scatto dal divano e, con un movimento fulmineo, gli strappò il cellulare dalle dita.
«Ma che cazzo fai?» sibilò Stephane, fulminandolo con lo sguardo.
«“Non vedo l'ora di incontrarti, Stephane” – uh, che formale... addirittura il tuo nome per intero! –, e poi... “Ho deciso di accettare l'accordo”» lesse Alex, ad alta voce, per poi chiedere: «Aspetta, che accordo?»
Non fece resistenza quando Stephane si riprese il telefono, e nemmeno quando gli diede uno spintone poco convinto.
Chiese di nuovo: «Steph, che accordo hai accettato con questo tizio?»
Non poté fare a meno di sentirsi felice per quell'aria preoccupata, ma allo stesso tempo non la sopportava: perché doveva sembrare così protettivo nei suoi confronti, perché così... attento? Continuava a illuderlo, a farlo sentire importante e a fargli sperare di avere una possibilità di stare con lui, anche se due pomeriggi prima, dopo essere tornato a casa, lo aveva nuovamente trovato a fare sesso con Natalie, anche se non aveva più accennato al bacio, anche se sembrava non gli importasse, che se ne fosse dimenticato. Si sentiva così stupido, così inerme e in balia di ogni sua frase o gesto che, in quel momento, avrebbe voluto cancellare tutti i sentimenti nei suoi confronti con uno schiocco di dita.
«Non vuoi saperlo davvero. E poi, come cerco di dirti da mezz'ora, sono cazzi miei».
Ma Alex non sembrava convinto e, anzi, lo guardava con ancora più preoccupazione di prima. Proprio per questo Stephane, che non riusciva più a sopportare quello sguardo su di lui, aggiunse poi: «Non è niente di strano, Alex, è solo un patto che abbiamo fatto per quanto riguarda il nostro incontro».
E, detto ciò, si andò a ritirare nella sua camera, sperando che Alex non tentasse di seguirlo.

Sono un coglione, un coglione stupido e avventato.
Stephane era di fronte a una casa del centro, una di quelle con l'aria di ospitare solo inquilini con un reddito mensile superiore ai tremila dollari, e aveva il dito a due millimetri da un campanello accanto al quale non veniva segnato nessun nome. Se già la cosa non sembrava strana, la benda che teneva stretta fra le dita della mano sinistra avrebbe chiarito ogni dubbio.
Deglutì rumorosamente, quindi premette sul pulsante e aspettò che la porta si aprisse.
Un click rumoroso fece tremare le imposte, quindi Stephane entrò nell'ingresso, stringendo forte il suo piccolo bagaglio rosso – come si era ostinato a chiamare la benda purpurea da quando ci aveva messo le mani sopra.
Entrò nell'ascensore e appena le porte si chiusero si avvolse la benda attorno al capo come gli era stato detto di fare. Arrivato al secondo piano, sentì le porte spalancarsi e, già preoccupato di cosa avrebbe potuto pensare lo sconosciuto che stava per salire nella cabina, fece per sciogliere il nodo della fascia, ma una mano calda e decisa lo bloccò.
«Sei... sei DarkPlaceundertheMoon?» chiese balbettando, spaventato. E la sua paura aumentò quando non udì alcuna risposta.
Fece un respiro profondo, cercando di calmarsi per permettere alla sua mente di ragionare più velocemente, quindi si spinse indietro, trascinando con lui il corpo dello sconosciuto e facendolo scontrare con la parete dell'ascensore. Sperava che questo gli avrebbe permesso di scappare, ma non fu così: le braccia dell'altro erano ancora attorno al suo corpo e non sembravano intenzionate a lasciarlo andare.
Cazzo.
Non fece in tempo a elaborare una nuova strategia per fuggire che si sentì girare e poi sbattere contro la parete opposta della cabina. Un dolore sordo si propagò per tutta la colonna vertebrale, ed era certo che i suoi occhi sarebbero stati coperti da una nebbia spessa se solo non fossero ancora nascosti dietro quella dannata benda rossa. Sentiva con chiarezza due mani premergli le spalle per tenerlo fermo, e sicuramente si sarebbe ribellato a quella stretta se all'improvviso quelle non fossero scese lungo le sue braccia, gli avambracci e i suoi polsi, senza avere più nulla della forza che prima avevano mostrato. Le dita erano diventate delicate e, Stephane se ne accorse solo ora, fresche e morbide. In quel momento sentiva – sapeva – che se solo avesse voluto, avrebbe potuto andarsene di lì. Liberò un braccio dal tocco delle dita dell'altro, quindi sollevò la mano e, come un cieco, iniziò a risalire il corpo dell'estraneo: aveva una giacca di pelle morbida, una maglia di stoffa sottile leggermente troppo stretta attorno al collo, un orecchino con una forma particolare – forse una freccia – gli punse i polpastrelli. Solo alla fine iniziò a conoscere il suo viso, le labbra carnose, il naso appuntito ma con una piccola gobba sul dorso, forse causata da una frattura, le ciglia lunghe, le sopracciglia spesse e incolte, i capelli ricci e morbidi.
«Ciao DarkPlaceundertheMoon» disse con un sussurro. Sentì sotto le dita i suoi lineamenti distendersi in un sorriso e il suo respiro caldo farsi molto più vicino.
Stai facendo una cazzata colossale, Steph, lo sai, vero?
Quindi, dopo un respiro profondo, colmò la distanza fra loro, rendendosi conto che non serviva la vista per trovare le labbra che si desidera baciare.

Lenzuola, cuscini, coperte.
Bacio sull'orecchio, bacio sulle labbra, bacio sul collo.
Sei vicino.
Mano che scivola sul ventre, mano che tira i capelli, mano in mezzo alle gambe.
Caldo, troppo caldo.
Vieni.
Respiro affannoso, gemiti, sospiri profondi.
Voce spezzata, roca, silenzio.
Parlami.
Buio, buio, buio.
Labbra, lingua, denti.
Il tuo respiro.
Ancora labbra, di nuovo, di nuovo.
Mani sul collo, baci sulla schiena, capelli.
Soffoco.
Lingua, denti, respiro caldo.
Desiderio, desiderio lacerante, necessità.
Muoio.

Stephane cadde sul letto, esausto. Era stata la notte più assurda e bella – assurdamente bella ed eccitante – della sua vita. Si trovava ancora nella camera da letto di DarkPlaceundertheMoon, disteso fra le lenzuola sfatte e i resti dei suoi vestiti e di quelli del suo amante. Allungò una mano alla sua destra e sentì la sua pelle accaldata ormai familiare, quindi incominciò a percorrerla con le dita fino a raggiungere il volto, per poi baciarlo.
«Mi dirai mai il tuo vero nome?» chiese, senza in realtà nemmeno aspettarsi una risposta. E infatti la voce dell'altro non si fece sentire, però un sorriso piegò i suoi lineamenti ancora una volta.
Deve avere un sorriso bellissimo, pensò, sentendolo contro le sue labbra.
Rimasero così, sdraiati in silenzio e con le dita che piano si sfioravano per molto tempo – forse ore, forse giorni, forse anni interi – quando Stephane, troppo stanco, si addormentò con ancora la benda sugli occhi.
«Ciao Steph!» disse Alex, vedendolo rientrare.
«Ciao» rispose lui, soffocando a malapena uno sbadiglio. La notte precedente era stata a dir poco stancante: il suo corpo non era abituato a tenere quei ritmi e nemmeno a quel genere di sesso – così passionale e... totalizzante. Quasi non si accorse del bacon che Alex gli stava porgendo, quasi non si accorse del succhiotto che l'altro aveva sul collo, quasi non si accorse del fatto che Alex stesse guardando i suoi tre succhiotti violacei sul collo. Quasi.
«Nottata movimentata?» gli chiese l'amico, con un sopracciglio alzato.
«Più di quanto credi» rispose, senza curarsi dell'occhiata interrogativa dell'altro. Per una volta era felice di essere lui quello che poteva provocare gelosia , quello che poteva potenzialmente ferire l'altro.
Da quand'è che voglio rendere Alex geloso?, si chiese, poi correggendo la domanda in: Da quand'è che mi sento meglio se sono io quello che può ferire?
Ma non c'era pericolo che Alex si sentisse ferito, perché l'unica cosa che spuntò sul suo viso fu un sorriso malizioso e divertito, sinceramente felice per l'altro. Lo stomaco di Stephane si strinse in una morsa e, cercando di dissimulare la delusione e la vergogna, si alzò dalla tavola e andò in bagno.
Si spogliò di tutti i vestiti, gettandoli senza nemmeno guardarli nel cestino della biancheria sporca, quindi entrò nella doccia, aprendo l'acqua fredda per lavarsi di dosso la sporcizia, il sudore e l'odore dello sconosciuto con cui aveva fatto sesso senza nemmeno averlo mai visto in viso o aver sentito la sua voce. E tutto perché? Per un sentimento che lo stava logorando da troppo tempo, per una persona che non sarebbe mai riuscita a ricambiarlo, o almeno non del tutto, non come voleva lui.
Si fregò il corpo ancora e ancora, eppure non si sentiva ancora pulito. Continuava a percepire il respiro di DarkPlaceundertheMoon sul suo viso, il suo silenzio, la sua sicurezza e la sua forza, i capelli morbidi, il sorriso che sentiva nascere sulle sue labbra da sotto le dita. Uscì dalla doccia, si mise un accappatoio e iniziò ad asciugarsi i capelli, cercando di nascondere i tre segni violacei che decoravano il suo collo con i lunghi capelli azzurri. Si vestì con degli abiti puliti, afferrò la borsa e andò da Alex. Purtroppo l'amico era troppo preso a chiacchierare al telefono con “Nat” per vederlo, quindi uscì senza salutarlo.

Stephane era seduto nel solito posto in fondo all'aula intento a ignorare il nuovo messaggio di DarkPlaceundertheMoon, quando sentì qualcuno sedersi al suo fianco: Ivan.
«Non ho voglia di stare a sentire le tue stronzate, Ivan» sibilò, prima che l'altro incominciasse a parlargli.
L'altro non rispose, anzi, iniziò a seguire con particolare interesse la lezione di anatomia senza nemmeno voltarsi a guardarlo e, per quanto Stephane trovasse insolito il suo comportamento, mentalmente lo ringraziò per quel silenzio e ritornò a leggere per l'ennesima volta il messaggio:

 
From: DarkPlaceundertheMoon
To: Steph_blue
Ciao Stephane.
Stavo pensando a te questa mattina, ho ancora il tuo odore addosso.
Ti va di rivederci, questa sera?

L'offerta era quanto mai invitante, ma allo stesso tempo l'idea di provare di nuovo l'indomani mattina quella sensazione di sporco che l'aveva colto quel giorno lo spaventava. Era mezz'ora circa che digitava un messaggio per poi cancellarlo poco dopo.
«Con chi stai parlando?» chiese Ivan, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
«Ma si può sapere perché tutti tengono tanto a sapere i cazzi miei?» rispose stancamente Stephane, che ormai non aveva nemmeno più la forza di arrabbiarsi.
«Magari si preoccupano per te» rispose in un sussurro.
Stephane alzò la testa da sotto il banco, sorpreso: da quand'è che Ivan si rivolgeva a lui senza insultarlo?
«Non dire cazzate, Ivan» rispose, pieno di risentimento.
«Io mi preoccupo per te» disse l'altro, con un tono di voce ancora più basso.
«Non è vero, Ivan. Smettila di raccontarti questa bella storia: io sono il frocio, ricordi?»
Ivan strinse le labbra e si alzò, andando a cercare un posto lontano da lui. Quindi, poco prima di sedersi, si voltò verso di lui e, come se si fosse appena ricordato di come si faceva lo stronzo, mostrandogli il medio, gli mimò con le labbra “succhiacazzi”.
Ben tornato, Ivan.
Sospirò rumorosamente e ripensò al sorriso malizioso di Alex di quella mattina.
Non è geloso, non lo sarà mai.
Preso da un attimo di rabbia, afferrò il cellulare e compose finalmente il messaggio:

 
From: Steph_blue
To: DarkPlaceundertheMoon
Ci sarò.

Quindi spense il cellulare per non dover vedere la risposta dell'altro.

L'incontro nell'ascensore andò di nuovo più o meno allo stesso modo della sera precedente, ma questa volta non ci furono urti violenti, solo baci e tocchi un pochino più rudi del consentito. Una volta raggiunto il loro piano, Stephane si lasciò guidare verso il letto dall'altro, facendosi spogliare e toccare senza opporre resistenza. Le sue dita erano inebrianti, il suo respiro caldo gli mandava in cortocircuito il cervello. Come aveva fatto a pensare di smettere di vederlo? In fondo Alex non sarebbe mai stato geloso, anzi, lo aveva quasi incitato a continuare a vederlo con quel sorriso...
I suoi pensieri però smisero ben presto di occupare la sua mente, e l'unica cosa che riusciva a percepire era il calore del corpo dell'altro e il piacere che, come un'onda, aveva iniziato a crescere dentro di lui per poi essere soddisfatto più volte durante la notte, ancora e ancora.

«Ormai ho capito che non mi parlerai – forse non ne sei nemmeno capace –, però mi piacerebbe conoscere qualcosa di te» disse, sciogliendo il nodo della benda da dietro il suo capo. Non si stupì quando vide che l'intera stanza era buia abbastanza perché, anche senza la benda, non riuscisse a scorgere nulla di ciò che lo circondava e nemmeno del viso di DarkPlaceundertheMoon. «Il fatto è che potresti essere un vecchio bavoso – anche se con quei muscoli dubito tu lo sia – o avere il viso sfigurato o chissà cos'altro... insomma, potresti essere chiunque». Sentì il solito sorriso piegare le labbra dell'altro, e questa volta percepì anche due fossette formarsi agli angoli della sua bocca, dove i suoi polpastrelli affondarono un poco. «Io accetto questo patto perché evidentemente ti eccita di più sapermi cieco e in tua completa balia, però promettimi che un giorno ti vedrò e sentirò la tua voce. Puoi promettermelo?»
L'altro smise di sorridere, però piegò leggermente il capo, annuendo.
È già un passo avanti, posso ritenermi fortunato, pensò, quindi gli diede un bacio sulle labbra e si addormentò di nuovo al suo fianco.

 
***

«Non credi che sia ora che resti un po' a casa a dormire?»
Stephane spostò lo sguardo verso Alex: «Perché dovrei?»
«Sono quasi due mesi che non dormi una notte qui. Non sei quasi più il mio coinquilino, e fra un po' ho paura che non ci vedremo più nemmeno durante il giorno».
«Non sei mia madre, Alex».
«Certo che no, solo che mi manchi».
Eccolo, pensò Stephane, eccolo che di nuovo fa le sue uscite.
«Smettila, Alex» rispose, sentendo un moto di rabbia salirgli nel petto.
«Di far cosa?» chiese l'altro.
«Di intrappolarmi, di impedirmi di vivere. Sei un masso che mi trascina in fondo al lago, un'ancora che mi impedisce di partire, una camicia di forza che non mi fa muovere» sibilò, questa volta guardandolo dritto negli occhi.
«Non capisco...» chiese, con gli occhi che lo continuavano a fissare interrogativi.
Non capisci mai.
Stephane quindi si alzò in piedi e gli si avvicinò. Era a pochi centimetri dal suo viso perfetto, dalla sua pelle del colore del caffellatte, dai suoi occhi neri, dalle sue labbra socchiuse per la sorpresa. Colmò quella distanza e lo baciò con forza, lasciando uscire del tutto i sentimenti che fino a quel momento aveva tenuto nascosti, aprendo le porte alla rabbia e alla frustrazione. Anche se l'altro non rispondeva al bacio, lo spinse contro il muro più vicino e abbassò le mani sul suo petto, aprendogli a forza la camicia. Alex era congelato al suo posto, non reagiva a nessun tocco, ma a lui non interessava: scivolò con le dita fino al cavallo dei jeans e lo toccò attraverso la stoffa, iniziando a stimolarlo con foga.
Solo allora Alex lo spinse via e urlò: «Che cazzo stai facendo, Stephane?»
«Ti amo» urlò lui di tutta risposta, quindi se ne andò sbattendo la porta.

Stephane corse sotto la pioggia, non vedendo dove stava andando né sapendo dove andare. Corse per ore, forse, oppure per molto meno, però si ritrovò sotto la casa di DarkPlaceundertheMoon. Forse non era il momento giusto – in fondo era ancora giorno e loro avevano intenzione di incontrarsi solo di notte – eppure era lì che i suoi piedi l'avevano portato. Voleva sentire il suo profumo forte nelle narici, voleva essere spinto sul letto senza troppe cerimonie e avere sotto le dita le fossette di lui.
Suonò il campanello. Gli avrebbe aperto, ne era certo, perché due mesi di relazione, benché tutt'altro che ordinaria, dovevano pur significare qualcosa, no?
Sentì gli occhi di lui fissarlo attraverso la telecamera, quindi la porta aprirsi. Prese l'ascensore, ma questa volta nessuno lo accolse al secondo piano, quindi dovette andare fino al quarto da solo. Uscì dalla cabina e si trovò di fronte ad una porta spalancata. Era la prima volta che vedeva la casa di DarkPlaceundertheMoon, anche se, in realtà, non la vedeva bene perché aveva le persiane completamente abbassate e nessuna luce illuminava i locali. Entrò nell'appartamento, ma fece in tempo a fare pochi passi che una mano gentile gli chiuse gli occhi da dietro, mentre sentì la porta chiudersi. Solo allora il palmo caldo si staccò da lui e sentì l'altro stare di fronte a lui, in attesa.
«Scusa se sono venuto da te a quest'ora, senza avertelo chiesto, ma non sapevo dove andare...» balbettò, passandosi nervosamente le mani fra i capelli, ancora bagnati dalla pioggia. «È che ho fatto un casino, con Alex, dico».
L'altro, di tutta risposta, gli posò delicatamente una mano sulla spalla.
«Io... io l'ho baciato oggi» disse tutto d'un fiato. «Mi ha detto che mi sarei dovuto fermare di più a dormire in casa nostra piuttosto che rimanere sempre fuori – sempre da te, intendeva, ma lui questo non l'ha detto –, e ha detto che gli manco. Io però sapevo che era una cazzata, mi sono arrabbiato e gli ho detto delle cose orribili...» prese fiato, quindi continuò: «Gli ho detto che è come un masso, un'ancora, una cazzo di camicia di forza! Ti rendi conto? Gli ho dato della camicia di forza. Solo io posso dire una cazzata del genere». Si allontanò di un passo da DarkPlaceundertheMoon, improvvisamente rendendosi conto che a lui non doveva interessare niente di ciò che stava dicendo.
«Scusami, sto parlando di cazzate. Non sarei dovuto venire qui a disturbarti, magari stavi facendo altro... non lo so nemmeno io perché sono qui».
Ad un tratto si sentì afferrare in un abbraccio, stretto quanto confortante, caldo e protettivo. Era tantissimo tempo che non veniva abbracciato così, da quando Alex lo aveva trovato coperto di lividi nel bagno perché era stato aggredito da un gruppo di teppisti... scacciò con forza il pensiero dell'altro dalla testa, perché ora era fra le braccia di qualcun altro, e si stava bene, lì.

Non fecero sesso quella notte, e Stephane fu felice per questo: l'altro si limitò a sfilargli i vestiti bagnati e a fare lo stesso con i suoi, per poi sdraiarsi accanto a lui nel letto. Passarono il tempo ad accarezzarsi, in silenzio e al buio, e Stephane sentì per la prima volta un sentimento diverso dal desiderio per quella persona stesa accanto a lui che, piano, gli passava le dita fra i capelli.
Se solo potessi sapere qualcosa di lui, se solo potessi conoscere la sua voce, il suo volto e il suo nome forse... forse riuscirei ad innamorarmi di lui, pensò.
«È strano, però» iniziò, sorridendo appena, «mi sembra di conoscerti. Tu mi ricordi una poesia che non riesco a ricordare, una canzone che non è mai esistita, e un posto in cui non devo essere mai stato*. Forse è questo che intendono le persone quando dicono “mi sembra di conoscerti da una vita”, o forse semplicemente mi sono innamorato di te sul pullman e ora ti ho ritrovato». L'altro si irrigidì all'improvviso contro il suo corpo, poi sorrise contro i suoi polpastrelli.

Si alzò dal letto e si vestì, cercando di non far rumore. Non voleva svegliare Stephane, non ora che si era finalmente addormentato.
Visualizzò mentalmente i pochi oggetti presenti nella stanza: i vestiti sparsi a terra, propri e dell'amante, un tavolino – ma comunque troppo lontano per potercisi scontrare contro – e uno sgabello basso a lato della porta in legno. Con un po' di attenzione sarebbe riuscito a uscire da lì senza urtare qualcosa.
Si infilò le scarpe, sperando di non rigare il parquet con la suola degli anfibi, quindi osservò il ragazzo dormire. Non vedeva molto al buio, ma i suoi occhi riuscivano ugualmente a cogliere una bozza dei suoi lineamenti, e comunque ormai li conosceva a memoria: li aveva osservati così tante volte di nascosto, li aveva disegnati, sognati, immaginati... lo avevano torturato per mesi, senza che riuscisse a strapparli via dai suoi pensieri, quindi si era loro arreso, decidendo di provare il tutto per tutto per avvicinarlo. E ce l'aveva fatta: l'aveva baciato, toccato, ci aveva fatto sesso. Ma a che prezzo? Stephane non sapeva il suo nome né quale fosse il suo volto o la sua voce, e non avrebbe potuto mai saperli o, con tutta probabilità, lo avrebbe abbandonato.
Si avvicinò un poco a lui e allungò una mano verso i suoi capelli, facendo tintinnare leggermente la catena che aveva attorno al polso. Li accarezzò piano, saggiandone la leggerezza e la morbidezza.
Ti prego, fa che questo sogno non finisca mai.

 
***

Stephane si svegliò nello stesso letto in cui si era svegliato per i due mesi precedenti, ma questa volta non c'era nessuno pronto a guidarlo fuori dalla casa: era solo.
Si alzò, quindi cercò a tentoni l'interruttore della luce. Appena posò le dita sopra il pulsante, un brivido corse lungo la sua schiena: avrebbe finalmente visto la casa di DarkPlaceundertheMoon, finalmente avrebbe saputo qualcosa di lui, dei suoi gusti in fatto di arredamento, avrebbe potuto scoprire che cosa mangiava, che musica ascoltava, che cosa leggeva, che cosa gli piaceva... la testa gli girò vorticosamente al solo pensiero. Riprendendo controllo di sé, premette l'interruttore e la stanza si illuminò in tutta la sua bellezza. Era una di quelle camere da letto minimali, ma allo stesso tempo non era ultramoderna come si sarebbe aspettato: aveva un parquet lucido come uno specchio, le pareti di un marrone caldo e luminoso e un armadio di legno della stessa tonalità del parquet era l'unico arredamento della stanza se non si contava un semplice tavolino in un angolo e un pouf nero accanto alla porta. Preso dalla curiosità, Stephane aprì l'armadio e guardò i vestiti: erano tutti di colore scuro, sportivi un po' anni Ottanta, eppure non erano di quelli che si trovano nei negozi dell'usato, anzi, erano tutti di ottima fattura; inoltre, come aveva già avuto modo di capire con il tatto, il suo corpo doveva essere abbastanza imponente da doverli comprare della taglia L, ma i modelli delle maglie e dei pantaloni – tutti abbastanza aderenti – lasciavano intuire che chi li indossava era sicuro del proprio corpo. L'odore di DarkPlaceundertheMoon, mischiato a quello del detersivo per bucato, era ovunque in quegli abiti, e Stephane non poté fare a meno di affondarci il viso: quanto avrebbe voluto poterlo vedere con indosso quella maglia blu scuro o quei pantaloni strappati, magari mentre sul suo viso si formava un sorriso e due fossette comparivano nelle sue guance...
Uscì dalla camera e trovò facilmente l'interruttore del locale contiguo che, come scoprì poco dopo, era il salone. Come arredamento non era molto diverso dalla camera da letto: l'unica cosa che c'era in più era un'enorme libreria piena zeppa di libri di ogni genere, dai classici ai gialli, qualche libro di fantascienza e... libri di medicina! Stephane si fermò di colpo, afferrando il libro di anatomia, identico a quello che usava anche lui a scuola, quindi lo aprì cercando frenetico un nome o una scritta, qualcosa che gli facesse capire a chi apparteneva. Non ci volle molto perché trovasse ciò che cercava: una scritta a matita, scarabocchiata probabilmente da un vicino di banco – un po' come succedeva alle elementari, perché il livello doveva essere quello –, occupava tutta una pagina “Sei uno stronzo, Ivan”.
Il libro gli cadde dalle mani con un tonfo sordo, mentre il suo cuore esplodeva.
Capelli ricci. Fossette. Corpo fantastico. Calore. Bel sorriso. Vestiti scuri. Jeans strappati.
Ivan il riccone. Ivan che continua a importunarlo. Ivan che lo guarda durante le lezioni. Ivan che fa il gentile.
Era tutto tremendamente chiaro nella mente di Stephane, eppure tutto così confuso, ma ogni suo dubbio venne spazzato via quando all'improvviso la porta d'ingresso si aprì con uno schiocco secco. Ivan entrò in casa con in mano due caffè che, appena vide Stephane con ai piedi il libro di anatomia, fece cadere a terra, spargendo la bevanda sul lucido parquet.
Ivan guardò Stephane:

Occhi spalancati, sorpresi.
Bocca socchiusa. Bocca che ho baciato e morso.
Mani che tremano, mani che mi hanno toccato, mani che mi hanno cercato.
Rabbia, la vedo.
Tradito, lo vedo.
Ti amo, non uccidermi.

Stephane guardò Ivan:

Fossette non ci sono. Perché mi piacevano?
Capelli. Era davvero così bello toccarli?
Mani, mi avete toccato perché lo chiedevo. Oppure no?
Ti amavo quando eri ombra e silenzio. Ora no.

«Stephane...» disse finalmente Ivan, rompendo il silenzio. Forse avrebbe fatto meglio a stare ancora in silenzio, perché il labile muro che frenava la rabbia di Stephane si ruppe all'improvviso.
«Stephane un cazzo, Ivan! Perché mi hai fatto questo? Che cazzo ti diceva il cervello? Io ti odio, ti odio così tanto che vorrei sparissi dalla faccia della terra» urlò, stringendosi le dita fra i capelli ancora scarmigliati dal sonno.
«Io ti amo, Stephane, ti ho amo dal primo momento in cui...-»
Stephane scoppiò a ridere amaramente, interrompendo le parole dell'altro: «Dal primo momento in cui mi hai visto? Sì, certo. Che cazzata, proprio da film. Non vivi in un cazzo di film, sei nella vita vera, non puoi pretendere che io ora ti sorrida e che ti sputi il tuo ti amo. Non è vero, non lo sarà mai. Il tuo frocio non ti ama, il tuo succhiacazzi non succhierà mai più il tuo cazzo, non mi vedrai mai più, sparisci, muori».
Ivan restò immobilizzato per qualche secondo. A Stephane sembrava un bambino che non trova più la via di casa, ma non gli interessava. Avrebbe voluto spezzare il suo cuore in mille pezzi come era andato in frantumi il suo: se l'era scopato in tutti i modi possibili, aveva preso tutto da lui, aveva distrutto il rapporto con Alex, lo aveva fatto sentire amato per poi fargli scoprire che era tutta una bugia, tutto uno scherzo. Rise di nuovo: perché tutti non facevano altro che giocare con ciò che provava? Sembrava una sfida: chi fotte di più Stephane vince un milione di dollari. Accorrete!
Ad un tratto però si sentì afferrare le spalle con forza: «Dimmi cosa è cambiato rispetto a prima» gli disse, serio, Ivan. E a Stephane non sembrò più un bambino, ma era di nuovo il ragazzo sicuro e passionale con cui aveva avuto una relazione ai limiti della realtà per due mesi interi.
«Che tu appena parli dici cazzate, che mi hai trattato di merda ogni giorno in cui mi incontravi in quel cazzo di College, che sei un coglione. Se avessi saputo fossi tu, non ti avrei neppure risposto al primo messaggio» gli rispose, quasi ringhiando.
«Appunto, quindi come avrei potuto fare per avvicinarti, secondo te? Ho dovuto fare quello che ho fatto, altrimenti non mi avresti mai dato una possibilità».
«Avresti potuto comportarti meglio di persona, non credi?» rispose Stephane, con la rabbia che ancora montava dentro di lui.
«Non dire cazzate» rispose Ivan, guardandolo di sbieco: «Tu l'unico a cui avresti dato una possibilità era quell'Alex. Sì, io ti ho scopato ingannandoti, ma tu lo volevi. Eri tu che volevi andartene da Alex, che sei venuto da me».
«Sarebbe andato bene chiunque, Ivan, cazzo! Chiunque! E tu non avevi né volto né voce, potevo immaginarti come volevo».
«Allora perché ieri sera sei venuto da me? Volevi me, volevi DarkPlaceundertheMoon, non altri» disse. Poi aggiunse, visto che l'altro non rispondeva: «Il primo giorno che ti ho visto avevi una maglia nera con una di quelle stampe tribali sopra, i capelli li avevi legati e non erano ancora azzurri. Ti muovevi in un modo bello, eri elegante, un gatto fra mille topi... e guardavi le persone come se volessi allo stesso tempo scoparle e ucciderle e hai guardato così anche me. Io non so perché, ma da quel momento non sono più riuscito a farti andare via dalla mia testa, e non capivo il motivo. Sai, io prima pensavo di essere etero, ma tu, cazzo, tu mi hai mandato a puttane il cervello. Da quando ho capito quello che sentivo ho iniziato a trattarti di merda: non mi andava di essere un gay... ma ora, cazzo, guardami ora Stephane, sono qui e ti sto dicendo che ti amo».
La rabbia era ormai del tutto scomparsa, ma al suo posto era subentrata la stanchezza: «Ma io non ti conosco, Ivan. Tu per me non sei altro che quello che mi insultava in continuazione».
«Sono anche quello che hai frequentato per due mesi. Non avevo una faccia, un nome o una voce per te, ok, ma parlavi con me tutto il giorno per messaggio, mi abbracciavi quando andavi via, mi baciavi tu per primo. Sono sempre io, solo che ora non sono più un'ombra e basta, capisci?»
«Ivan, non posso...»
«Almeno fammi provare, va bene? Sei stato con me due mesi e non mi avevi mai visto nemmeno in faccia, ora puoi darmi la possibilità di stare con te senza più inganni o giochetti?»
Stephane fece un respiro profondo, guardando negli occhi dell'altro. Aveva pensato sarebbero stati imploranti e spauriti, invece erano sicuri e diretti, così tanto da fargli male. Forse lo amava davvero, forse non erano tutte cazzate: era lui che aveva voluto scoprire chi era, era lui che aveva accettato un accordo senza senso e al limite dell'inquietante, era lui che l'aveva baciato per la prima volta in ascensore. In fondo la cosa più pericolosa l'aveva già fatta, ora non gli costava nulla rispondere di sì.
Annuì, piano.
Mi pentirò di questo sì, sicuramente succederà qualcosa che...
Ma i suoi pensieri vennero interrotti da un bacio, e quelle labbra erano così familiari che quasi si dimenticò di tutto il resto.














 

Note autrice:
Ed eccomi alla fine di questa storia!
Dunque, innanzi tutto spiego come è nata, che secondo me è importante: avevo un'idea ben precisa in testa, ma più scrivevo più mi sembrava un ammasso di cliché e banalità, quindi avevo deciso di prendere e cestinare la storia. Visto che però il contest di Sango_79 stava giungendo al termine e io sono - come ogni volta, obv - in ritardo con la stesura delle fic, ho deciso di fregarmene, per una volta, che la storia non spicchi per originalità. Quindi mi sono semplicemente divertita a scrivere un racconto, senza seguire molto la mia solita "morale" e lasciando che la mia vena di fangirl andasse per conto suo. E' uscita questa cosa, che io spero vi piaccia lo stesso, che vi diverta e intrattenga, nulla di più.
Entrando più nello specifico, questa fic doveva prendere ispirazione da questa immagine e dal mito di Amore e Psiche (qui per leggere più nei particolari di cosa si tratta, se non lo conoscete). Inoltre la canzone di Andrew Belle In my veins all'inizio fa da colonna sonora della storia e qui potrete trovare testo, traduzione e video ufficiale. 
E niente, vi ringrazio se siete giunti fino a qui... io sono già contenta! 
Alla prossima,
Aturiel


*Tu mi ricordi una poesia che non riesco a ricordare/ una canzone che non è mai esistita/ e un posto in cui non devo essere mai stato – Efraim Medina Reyes

 

 

   
 
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