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Autore: Rainbow_ Girl    01/06/2016    1 recensioni
June ha quindici anni, ed è una vagabonda da sei mesi.
Sua madre è dispersa ad Amsterdam, non ha la minima idea di chi sia suo padre e la sua unica ancora di salvezza, insieme a Catherine, è la musica.
Proprio essa, a sua insaputa, la guiderà alla ricerca di suo padre.
Dal testo...
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Per cui, invece di farmi i fatti miei e rimanere nel mio angolino nascosto, decido di uscirne e buttare nuovamente il buon senso alle ortiche. Vado all’ingresso principale e noto che la porta è leggermente socchiusa, quindi mi infilo silenziosamente dentro, e seguendo le note all’interno della casa capito in una stanza adibita a studio di registrazione.
Faccio un bel respiro prima di spalancare la porta.
Per i primi due secondi, i tre uomini e la ragazza non mi prestano attenzione, ma poi la musica si interrompe e mi ritrovo quattro paia di occhi addosso. Scommetto che non gli capita tutti i giorni che una ragazzina di quindici anni si infiltri nella loro casa."
N.B.: Fanfiction sui Gorillaz. È consigliato conoscere un minimo della storia dei personaggi per comprendere appieno lo sviluppo della storia. Buona lettura!
Genere: Generale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1 – Something has started today

-June!- 
Sento la voce di Catherine risuonare dietro di me. Mentre corro, mi volto verso di lei, rimasta ferma sul marciapiede ad agitare una mano. 
-DOPPIO COLORE, VIOLA NERO!- le urlo di rimando, correndo sempre più forte e veloce.

Abbiamo un codice speciale per comunicare, noi vagabondi. In questo caso, vuol dire “Mi hanno scoperta, mi nascondo” e anche se so che è una cosa poco saggia, io mi nascondo sempre nello stesso posto. 
Man mano che mi addentro nelle stradine più sconosciute di Londra assumo un’andatura più regolare. Il cuore mi batte forte, perché stavo rischiando di farmi cogliere con le mani dentro la borsetta di una signora. 

Mentre le mie gambe mi portano automaticamente al posto desiderato, al mio porto sicuro dove chiudere gli occhi e godermi della buona musica in santa pace, ripenso a quello che è successo prima. Vorrei poter non rubare, eppure è l’unico modo che ho per sopravvivere. Però io rubo in modo onesto, eh. Se vedo che hai i soldi per comprarti il nuovissimo iPhone, allora avrai i soldi anche per pagarmi una pizza, che non è affatto una cosa sbagliata. 

Mi sistemo lo zaino sulle spalle prima di alzare lo sguardo verso l’enorme struttura davanti ai miei occhi, a metà fra uno studio di registrazione, una casa e un cimitero di gorilla. So che tecnicamente non dovrei entrarci, ma nel giardino c’è un bellissimo albero cavo dove molto spesso mi sistemo per riflettere o ascoltare musica o, appunto, nascondermi. Me l’ha mostrato la Catherine di prima questo posto, lei ci viene per recuperare i bassi rotti che periodicamente qualcuno lancia dalla finestra. Insieme li aggiustiamo e per tutta la domenica giriamo per le piazze e piccoli locali a suonare. O almeno, lei suona, io canto. Spesso facciamo cover di vecchi pezzi famosi, e la nostra preferita è 21 Guns, dei Green Day. 

È, diciamo, la nostra canzone portafortuna, la canzone che ci ha fatto incontrare e poi, successivamente, conoscere. 
Successe lì vicino, in una stradina del tutto invisibile ad occhi indiscreti. Stava scendendo la notte, sarebbe stata la quarta o la quinta che passavo fuori casa, da vagabonda. Mi guardavo intorno, spaventata e infreddolita fino al midollo, alla ricerca di un angolino riparato dove potermi accucciare e riposare, quando sentii la melodia della canzone. Senza pensarci troppo e buttando alle ortiche la prudenza e il buon senso (ma a ripensarci, ne avevo ancora di buon senso?) mi misi a cantare. Prima era solo un flebile sussurro, per poi finire come una vera canzone, compresa di appalusi da un tizio altissimo, che ci guardava da lontano. Io e lei ci sorridemmo, ci raccontammo le nostre storie. Lei era stata  cacciata di casa a causa del suo amore per una ragazza ritenuto “immondo” da entrambi i suoi genitori; io me n’ero andata perché stufa di mia madre e del suo compagno. Mio padre? L’avrò visto un paio di volte da piccola e ricordo a stento il suo volto e la sua voce. Eppure, da qualche settimana a questa parte, provo il desiderio di conoscerlo, di sapere chi è veramente. Da mia madre non ho mai saputo nulla riguardo la sua vita, nemmeno il suo nome o il cognome. Ho provato a fare alcune ricerche su Internet con il cellulare di Catherine, ma Google dice solo che io dovrei  essere figlia di un certo Justin Willmore, che però è in carcere, in Spagna. E dalle foto, non ci assomigliamo per niente, e l’unica cosa che ci accomuna è lo sguardo perennemente incazzato. E io non mi ricordo di averlo mai visto in vita mia. Le poche volte che l’uomo che chiamavo papà veniva a trovare me e mia madre ne approfittavo per stamparmi bene in testa l’immagine del suo viso e il suono della sua voce. Ad oggi, le uniche cose che mi rimangono di lui sono i ricordi di lunghi pomeriggio assolati passati fra i parchi più belli di Londra, a piedi o in bici. Da piccola adoravo quell’uomo, e anche l’aria aperta.

Entro da un buco nella recinzione e mentre mi dirigo verso il mio albero cavo, sento una melodia che mi stuzzica il cervello. Rimango impietrita ad ascoltare mentre ricordo. Quella è la mia ninna nanna, quella che mio padre mi cantava da piccola ogni volta che veniva a trovarmi , fino a quando non abbandonò me e mia madre. Non glie ne ho mai fatto una colpa per questo, dopotutto mia madre è insopportabile e l’ho abbandonata anche io, ma poteva anche ricordarsi della mia esistenza. 
Una voce comincia a cantare le parole e mi stupisco quando anche io riesco a cantarle. Però la voce è davvero stonata e vorrei tanto cantasse bene. 
Colpi di basso. Urla. La canzone ricomincia. Anche stavolta la voce stona terribilmente, così per le altre quattro volte in cui riprende.

Per cui, invece di farmi i fatti miei e rimanere nel mio angolino nascosto, decido di uscirne e buttare nuovamente il buon senso alle ortiche. Vado all’ingresso principale e noto che la porta è leggermente socchiusa, quindi mi infilo silenziosamente dentro, e seguendo le note all’interno della casa capito in una stanza adibita a studio di registrazione. 
Faccio un bel respiro prima di spalancare la porta. 
Per i primi due secondi, i tre uomini e la ragazza non mi prestano attenzione, ma poi la musica si interrompe e mi ritrovo quattro paia di occhi addosso. Scommetto che non gli capita tutti i giorni che una ragazzina di quindici anni si infiltri nella loro casa. 
   
 
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