La bambina delle fate.
Nella mia famiglia gira una strana
leggenda: dice che da
piccola sono stata rapita dalle fate, che mi hanno tenuto con loro una
settimana e poi fatta ritrovare sotto un fiore di giglio nero.
Questo è quello che racconta mia nonna materna, che
è –
da sempre – una grande ammiratrice del paranormale e che
crede nell’esistenza
di un mondo nascosto che solo persone dotate di una
sensibilità particolare
possono vedere.
Mia madre dice più prosaicamente che il giorno dopo la
mia nascita qualcuno mi rapì dalla nursery
dell’ospedale londinese in cui lei mi aveva partorito, mi
tenne con sé una settimana e poi mi fece ritrovare
ad Hyde Park vicino a dei gigli.
Erano davvero gigli neri, ho visto le foto dell’epoca, e
la cosa è davvero strana, visto che sono solitamente fiori
bianchi e una
mutazione del genere non si era mai vista.
Prima ancora di sapere di essere me stessa ero già
famosa, una storia del genere finì sui giornali,
perché ovviamente venne
coinvolta la polizia. Non era possibile che qualcuno potesse rapire a
suo
piacimento una neonata in un grande ospedale e farla franca, non essere
ripreso
da nemmeno una telecamera del servizio di sorveglianza.
All’epoca fecero tutti le loro ipotesi e quella
prevalente fu che qualche malata di mente o una persona in preda a un
forte
shock mi avesse rapita – ad esempio una donna che avesse
subito un aborto o che
avesse partorito un neonato morto da poco –
e poi una volta tornata in sé o valutate le
difficoltà oggettive di crescermi
braccata dalla polizia avesse deciso di disfarsi di me.
La donna che mi ha rapito non venne mai identificata e se
volete la mia opinione non lo fu perché non era umana. Mi
chiamo Fay, ho
ventotto anni e come mia nonna credo al paranormale e non potrei non
farlo,
sarebbe come negare la mia natura.
Credo quindi che alla fine mi abbiano davvero rapito le
fate, tenuta una settimana nel loro regno nascosto e poi ridata ai miei
genitori un filino cambiata.
Dicono che i figli rapiti dalle fate siano strani e io lo
sono sotto molti punti di vista. I miei capelli sono sempre stati
viola, fin
dal giorno in cui hanno iniziato a spuntare, non un nero con sfumature
viola,
ma un viola carico che gettava nel panico mia madre.
Mia madre è sempre stata una donna razionale, per lei un
rapimento da parte delle fate non era altro che una favola, non una
spiegazione
che si potesse accettare, eppure i miei capelli erano viola.
Fin da piccola li ho sempre con l’henné nero per
evitare
che qualcuno lo notasse, se fosse successo avrebbero pensato che mia
madre
tingesse i miei capelli di un colore assurdo fin dalla
più tenera età e
rischiava che qualche assistente sociale mi assegnasse a
un’altra famiglia.
Mia madre non poteva permetterselo, non dopo quello che
aveva passato per ritrovarmi, non dopo almeno un anno di terapia
psicologica
per guarire dai sensi di colpa.
In ogni caso a quindici anni ho smesso di tingerli e ho
lasciato che crescessero del loro colore naturale, sarebbe passato per
la
ribellione di un’adolescente. Ho fatto qualche piercing
– un septum e uno snake
bites – e qualche tatuaggio ed ero una ragazza alternativa
come tante.
All’apparenza.
Il mio piccolo segreto è che so predire il futuro da
sempre, non con le carte – sarebbe troppo facile –
ma con delle specie di
visioni che mi sorprendono sia da sveglia che da addormentata.
Ho sempre saputo prima degli altri gli argomenti delle
verifiche e delle interrogazioni, quindi studiavo affidandomi a quel
piccolo
potere e mi andava sempre bene.
Ho sempre saputo quando qualcosa di bello o brutto sarebbe
successo e come: il divorzio dei miei per via della scoperta di mia
madre che
mio padre aveva una tresca con una segretaria un
po’psicopatica (che mamma crede
mi possa aver rapito e restituito in cambio di soldi), la morte della
nonna, i
tradimenti degli amici e dei ragazzi che avevo.
La gente ha iniziato a considerarmi strana quando ho
iniziato a non mostrare sorpresa per i vari eventi, come potevo? Io lo
sapevo
già!
Era come se Dio mi avesse permesso di sbirciare di tanto in tanto al
copione
della mia vita e se conosci già i colpi di scena
è difficile mostrarsi
sorpresa.
Per questo motivo penso che mia nonna avesse ragione con
la storia delle fate, loro mi hanno donato un potere, anche se non
capisco
ancora perché. Ogni dono ha una ragione di essere, qual
è quella del mio?
Sicuramente non avere bei voti a scuola o non stupirsi
delle cose che accadono in molte famiglie, ci deve essere uno scopo
superiore
per questo potere, solo che non lo so ancora.
Nel frattempo la mia vita va avanti senza amici, dopo
l’università ho iniziato a lavorare in una
biblioteca del centro di
Sheffield e mi piace di più mettere ordine nella miriade di
libri come
quelli restituiti che vanno ricollocati
al posto giusto o rimandati alla biblioteca da cui sono stati fatti
arrivare oppure
cercare i libri che la gente ti chiede.
Va bene così.
Con il mio aspetto, il mio potere e le mie idee non è
facile avere amici e me ne sono fatta una ragione.
Probabilmente non avrò mai nemmeno un ragazzo, forse sono
i primi segni della depressione, ma inizio a sentirmi inutile e
sconsolata.
Una ragazza con un grande potere imprigionata in una vita
che la va stretta, che comunque le delusioni non se le è
evitate, anzi se le è
lasciate precipitare addosso e che non sarebbe qui se non fosse per la
musica,
soprattutto per quella dei Bring Me The Horizon e per la voce di Lee
Malia. Lee
è il chitarrista, non canta e sembra una persona abbastanza
timida e riservata
nelle interviste, ma mi piace il suono della voce. È molto
calma e rilassante,
profonda il giusto, piena, persino migliore di quella di Oli e che le
altre
fans mi perdonino per questa affermazione.
Forse sono i deliri di una che normale non lo è mai
stata, nemmeno da piccola.
Mi piaceva di più leggere e disegnare che giocare o
praticare qualsiasi sport, anche perché sono scoordinata da
far paura, inciampo
nei miei stessi piedi, e soffro di una specie di fobia nei confronti
della
folla.
Sono riuscita a vincerla solo una volta per andare a un
concerto dei Bring Me The Horizon che è tuttora la notte
migliore della mia
vita, anche perché sono riuscita a rimediare un plettro di
Lee.
Un miracolo, praticamente.
L’unico della mia vita probabilmente, una cosa che non si
ripeterà.
Sospirando mi metto a letto pensando che un altro giorno
della mia inutile vita è trascorso senza eventi particolari.
Roba che ti
stronca giorno dopo giorno dopo giorno.
Lentamente e con pazienza, come un cancro.
La mia allegria e la mia voglia di ridere sono sparite da
tanto tempo che ormai non so nemmeno cosa si provi ad averli.
Il sonno cade su di me pesante come un macigno.
Sono in una strada appena fuori
dal centro di Sheffield,
tutto è infuso da una luce dorata che dà rifessi
interessanti a questo mondo.
È uno di quei
sogni, uno di quelli che predicono eventi,
ne sono quasi certa, ma per non sbagliarmi attraverso una persona come
un
fantasma.
Guardo i miei piedi
calzati in un paio di scarpe da
gothic lolita e le mie gambe fasciate da un paio di calze a strisce
bianche e
nere, lo strano vestito simile a una sottoveste e le mani avvolte in
bende
macchiate di sangue.
Sono in uno di quei
sogni.
Cammino e mi avvicino a
un incrocio, il semaforo pedonale
segna diligentemente il rosso e nessuno attraversa. Mi chiedo cosa ci
faccio
qui.
All’improvviso
sento delle chiacchiere dietro di me, un
ragazzo non molto alto, dai capelli un po’ lunghi di un bel
castano coperti da
un berretto grigio sta chiacchierando con un altro ragazzo. Il secondo
è più
alto di lui, ha i capelli corti alzati leggermente in una cresta e gli
occhi di
un azzurro penetrante.
Lee Malia e Jordan Fish.
Loro mi ignorano e io mi
sposto, non mi va di essere
attraversata da due dei miei idoli.
Ma che giorno
è?
Prendo uno dei giornali
che ci sono nel portagiornali
vicino al semaforo e la data è quella di domenica prossima,
leggo anche il nome
della via.
Ho
l’impressione che più dettagli riuscirò
a raccogliere
meglio sarà, non credo affatto che sia un caso che stia
sognando Lee, anche se
spesso appare nelle mie fantasie oniriche normali. Questo non lo
è, è una cazzo
di premonizione e mi inquieta la presenza dei due ragazzi.
Rimango in piedi accanto
a loro mentre parlano di musica
e del fatto che Jordan presto sarà padre, creando il primo
mini Bring Me The
Horizon. Sembrano felici, soprattutto il
tastierista che non può fare a meno di illuminarsi ogni
volta che si nomina la
gravidanza della moglie Emma.
Ma cosa ci faccio qui?
Perché
c’è questa luce dorata e un pulviscolo danzante
come se fosse cenere?
Perché mi
è stato concesso di spiare un piccolo spaccato
di vita di Lee e Jordan?
Il semaforo scatta, da
rosso diventa verde e i due
ragazzi iniziano ad attraversare la strada, Jordan è qualche
passo più in là
rispetto a Lee, che si è fermato per controllare un
messaggio sul cellulare. Il
chitarrista procede a testa bassa e non si accorge della macchina in
arrivo.
Macchina che non ha
rispettato il rosso perché la donna
che la guida sta parlando al cellulare, totalmente concentrata sulla
conversazione e dimentica della strada.
Urlo qualcosa per far
voltare Lee, ma lui non mi sente ed
è abbastanza ovvio. In una premonizione sono come un
fantasma, uno spettatore
di eventi che non posso cambiare.
Con il cuore che batte a
mille vedo la macchina
avvicinarsi sempre di più a Lee, che non alza lo sguardo se
non all’ultimo
minuto quando è troppo tardi.
Lui lascia cadere il
cellulare e spalanca gli occhi, urla
anche e la donna prova a frenare, ma il suo suv non le dà
retta e si abbatte
senza pietà su Lee che viene sbalzato in aria.
Jordan si volta e
spalanca gli occhi anche lui, grida
anche lui.
Il suo amico si libbra
nell’aria con il
terrore dipinto sul viso paffuto, poi inizia a cadere, marionetta a cui
hanno
tagliato i fili.
Cade con una certa
grazia anche se si dibatte e assume
pose scomposte, l’impatto con il terreno gli è
fatale. Si è probabilmente rotto
un braccio o una gamba, ma questo è niente rispetto a quello
che succede alla
sua testa. Picchia violentemente contro l’asfalto e una
macchia di sangue rosso
si allarga sempre di più, lui non dice nulla, ha gli occhi
spalancati.
Jordan chiama subito
un’ambulanza, io mi avvicino al
ferito con il cuore stretto in una morsa che mi impedisce quasi di
respirare.
Gli accarezzo il volto con una mano, sporcandomi le bende, e poi
appoggio due
dita sul collo in attesa di sentire le pulsazioni deboli del suo cuore.
Non sento nulla.
Lee Malia è
morto.
Gli lascio un leggero
bacio sulle labbra e poi prendo un
po’ del suo sangue e traccio una croce sull’interno
del mio braccio.
“La mia vita
per la sua.”
Dico con un sussurro.
La cenere smette di
girare, la luce dorata diventa
abbagliante per un attimo.
Quando tutto torna
normale la croce è sparita, segno che
il patto è stato accettato: Dio o chi per lui si
prenderà la mia vita al posto
di quella di Lee.
Dopo non so quanto tempo
arrivano le ambulanze con le
loro luci blu e rosse, Jordan intanto ha preso il telefono della donna
incolume
e lo ha buttato a terra e pestato con il piede, poi ha cominciato a
inveire
contro di lei.
Non so che torto dargli,
è colpa della sua disattenzione
se il suo amico è morto.
I paramedici scendono e
capiscono al volo la situazione
come me, non c’è più nulla da fare.
Io mi sento risucchiata
indietro e l’ultima immagina che
ho è quella di una comune strada di Sheffield senza la luce
dorata e la cenere
che danza.
Mi sveglio nel mio letto, in un bagno di sudore, con i
capelli appiccicati alla testa in una massa viola disordinata. Me li
tocco e
cerco di riprendere a respirare normalmente, sento il volto bagnato,
devo avere
pianto quindi.
La luce dorata è sparita, ora c’è
quella fredda della
luna che entra dalla finestra e crea strani effetti sul soffitto.
Continuo ad
ansimare per un quarto d’ora fin a che finalmente il mio
respiro torna normale.
È stato solo un sogno?
No, conosco bene le mie premonizioni e so che si tratta
di una di quelle e poi anche alla scarsa luce della luna è
possibile vedere una
pallida croce sull’avambraccio dove nel sogno l’ho
tracciata con il sangue di
Lee.
Dunque è questo lo scopo della mia vita.
Morire per far sì che qualcun altro viva e se il giornale
non mentiva mi resta solo una settimana di vita.
Ripenso ai giorni che sono seguiti alla fine
dell’università, a come si siano trascinati lenti
e pesanti – tanti piccoli
macigni da spingere ogni giorno – e penso che forse valga la
pena morire per Lee
che di sicuro ha più cose da dare al mondo rispetto a me.
Mi alzo dal letto e vado in cucina, metto sul gas un
pentolino pieno di latte e mi siedo al minuscolo tavolino con la testa
tra le
mani.
E così è così che ci si sente ad avere
una scadenza
improrogabile, un appuntamento con la morte a cui non puoi dire di no?
Beh,
potrei, ma il ricordo di quella macchia di sangue che si allarga sempre
più mi
perseguiterebbe a vita nei miei sogni e da sveglia.
No, a conti fatti, non posso permettere che succeda.
Devo affrontare il mio destino a testa alta e lasciare
che sia io a morire e non lui.
Bevo la mia tazza di latte e torno a letto, domani ho il
turno di mattina e non posso permettermi di arrivare in ritardo o forse
sì?
In fondo tra una settimana morirò, anche se mi
licenziassero non avrei l’affanno di pagare
l’affitto il mese successivo, la
bara la pagherebbero i miei.
In ogni caso mi riaddormento e mi sveglio alle sette come
ogni lunedì, indosso una camicia immacolata che copre i
tatuaggi, un paio di
pantaloni neri e degli anfibi dello stesso colore, lego i capelli in
una coda
anonima e mi trucco di nero.
Metto la mia solita giacca di pelle nera e prendo la
borsa, chiudo a chiave l’appartamento. Prendo il tram e
arrivo in centro, apro
il locale e mi metto dietro la mia postazione, accendo il computer,
ritiro i
quotidiani e li metto nel solito posto. Dopo pochi minuti arrivano un
paio di
anziani che arraffano una copia ciascuno e si mettono a leggere. Li
conosco,
sono Fred e Daniel, amici da una vita e con opinioni politiche opposte
e
infatti – come ogni mattina – si mettono a litigare
e io vado a farli smettere.
Preparo una tazza di the per ciascuno e poi mi metto a
lavorare, controllo i libri in scadenza e che non sono stati
riconsegnati e
mando una mail a chi li tiene, poi aspetto che arrivi gente.
Arriva qualche mamma che vuole dei libri dei bambini,
universitari che cercano libri o si siedono nella sala lettura per
studiare,
altri anziani, qualche ragazzino che ha saltato la scuola e vuole
leggersi in
pace il nuovo numero di Kerrang! o qualche altra rivista musicale.
Una mattina come tante, a mezzogiorno la biblioteca
chiude e al pomeriggio sarò sostituita dal mio collega
più anziano. Cosa
faccio?
Mi chedo.
Tornare a casa o mangiare fuori?
Decido di trattarmi bene e vado dal mio kabbabaro
preferito e mangio una porzione abbondante di kebab, poi esco a fare
una
passeggiata, i miei piedi però decidono che non
sarà il parco la mia meta, ma
la stazione. Decido di prendere un treno per Londra e in tre ore sono
nella mia
città natale, diretta ad Hyde Park. Il parco è
sempre bellissimo soprattutto
adesso che è primavera e gli alberi sono in fiore e le
aiuole sono una
profusione di colori vivacissimi. L’aiuola che interessa a me
è diversa, è
un’aiuola di gigli neri, che si godono pigri il sole di
metà pomeriggio, ne
tocco uno e mi sembra quasi di vedere una creatura eterea con lunghe
ali
cangianti e capelli viola.
Una fata come me.
La donna che mi ha rapito.
Finisco di attraversare il parco con uno strano ghigno
sul volto, la fata che mi ha dato questo potere deve essere
l’angelo custode di
Lee Malia se grazie a me si salverà dalla morte. Mi sembra
quasi di sentire la
risata cristallina di questa creatura, come quella di una ragazzina
scoperta a
fantasticare eccessivamente sulla band preferita.
Dall’altra pare di Hyde Park c’è casa
mia, ma non vado
subito lì, prima faccio una tappa al mio liceo, constatando
che non è cambiato
affatto. È sempre lo stesso cupo edificio vittoriano in cui
risuonano le risate
dei ragazzi che fanno i corsi pomeridiani, piccoli raggi di sole
nell’esistenza
scura dell’edificio.
Ricordo l’uniforme e di come il primo anno mia madre mi
avesse comprato una serie di gonne che mi davano un prurito davvero
fastidioso.
Mi viene da ridere, pensando che doveva averle prese in un
negozio di articoli a poco prezzo e che avrei potuto prevederlo e
fermarla, ma
il mio potere è sempre stato un po’
incontrollabile.
Ridacchio divertita e vado verso l’università, non
è
troppo lontana, ma non ci indugio più di tanto. Non ho molta
voglia di
ricordare gli anni passati lì, mi sono sembrati troppo
spesso una preparazione
alla mia futura vita di solitudine.
Adesso è arrivato il momento di visitare mia madre,
glielo devo perché si è fatta in quattro per
crescermi e non farmi odiare o
sentire la mancanza di mio padre mettendo da parte i suoi rancori
personali.
Arrivo davanti a casa mia, la tipica casa a schiera
londinese senza giardino davanti, ma con tre gradini che conducono alla
porta,
io li percorro e suono il campanello. Sono sicura che sia a casa e
infatti poco
dopo mi apre e mi guarda sorpresa.
“Cosa ci fai qui?”
Di solito la vengo a trovare ogni due settimane la
domenica.
“Avevo voglia di vederti.”
Dico semplicemente.
“Entra, sei giusto arrivata in tempo per il the.”
La seguo e mi tolgo la giacca appendendola al gancio
nell’ingresso, lei va in
cucina.
“Vuoi una mano?”
“No, siediti in sala e aspetta.”
Io eseguo e mi siedo al tavolo del soggiorno in una stanza a bovindo,
poco dopo
lei arriva con tue tazze di the fumante, zucchero, bricco del latte e i
miei
pasticcini preferiti, gli scones, con marmellata di fragole e panna
solida.
Iniziamo a mangiare in silenzio, lei sembra leggermente
invecchiata da quando l’ho vista l’ultima volta, ha
qualche filo grigio in più
nella chioma corvina.
“Come va la vita da pensionata?”
Mia madre è stata insegnante di matematica per tutta la sua
vita e da un mese è
in pensione.
“Noiosa, mi mancano i miei allievi. Qualcuno mi viene a
trovare, ma non è la stessa cosa.
Tu come te la cavi?”
“Oh, bene. Mi piace stare in biblioteca.”
Chiacchieriamo ancora un po’ del più e del meno e
mi
accorgo che qualcosa la turba profondamente.
“Mamma, cosa è successo?”
Lei sospira e mi porge un cartoncino di fragile pergamena con delle
scritte in
un elegante nero: una partecipazione di nozze.
Mio padre si risposa con la segretaria con cui ha tradito
mia madre e ha distrutto la nostra famiglia, io rimango senza parole,
il fiato
mozzo e un paio di lacrime che solcano le mie guance.
Nemmeno se fossi viva ci andrei e per mia madre deve
essere ancora peggio che per me, all’improvviso mi scopro
arrabbiata con mio
padre e sbatto la tazza sul tavolo lasciando che qualche gocciolina di
the
macchi la tovaglia candida.
Non è giusto!
“Non ci andare!”
Dico decisa.
“Quell’uomo ti ha rovinato la vita abbastanza, io
non ci
andrò.”
Perché l’erba crescerà già
sulla mia tomba quando il
lieto evento accadrà.
“Tu dici?”
Io annuisco decisa
“Sì, mamma. Non c’è bisogno
che tu vada.”
Sarai impegnata a piangere la mia morte immagino.
Chiacchieriamo un altro po’, poi me ne vado.
Sento che ho detto addio a tutto quello che potevo,
adesso è arrivato il momento di affrontare il mio destino.
Domenica è arrivata e
sono appoggiata al muro di una casa
vicino al fatidico semaforo fumando una sigaretta, l’ultima
della mia vita
probabilmente. Non sarà il cancro a togliermi il piacere di
fumare.
Giusto il tempo di buttare il mozzicone per terra e
Jordan e Lee fanno la loro apparizione, sono tropo impegnati a parlare
per
notare me.
Si fermano e aspettano pazientemente che il semaforo
pedonale da rosso diventi verde, Jordan parla della gravidanza di Emma
come nel
mio sogno e la cosa non ha il potere di sorprendermi.
Come ci si sente a sapere che tra poco si morirà?
Con la mente che ticchetta come un orologio e il corpo
che fa sentire le sue funzioni vitali più forte del solito,
un meraviglioso
canto del cigno fatto di cuore che rimbomba contro la cassa toracica,
sentire
ogni respiro salire dai miei polmoni, la tensione dei muscoli, le luci
e i
colori del mondo.
Non importa.
Il semaforo scatta da rosso a verde e i due iniziano ad
attraversare con me dietro, Jordan cammina più svelto, Lee
rimane indietro. Io
guardo verso la direzione della macchina e vedo che non si ferma al
semaforo,
prendo un profondo respiro.
Tutto si svolge come a rallentatore: alzo le mie braccia,
mentre il suv è sempre più vicino.
Entro in contatto con la maglietta di Lee Malia, che
sobbalza.
Lo spingo con tutta la forza che ho, tanto da piegare in
avanti il corpo.
Lee viene sbalzato via e si scontra con la schiena di
Jordan.
Il sudore cola a goccioline sulla mia schiena – rugiada
sui fiori della mia tomba –
il cuore
rischia di esplodermi nella cassa toracica – marcia funebre,
terra che cade su
una bara, fiori rossi – i miei occhi sono fissi sui fari
della macchina – occhi
aperti di un cadavere pietosamente chiusi, mentre una macchia di sangue
si
allarga.
Poi l’impatto, il suo paraurti mi lancia in alto e sento
un dolore lancinante al fianco, probabilmente qualche organo interno se
ne è
andato a quel paese.
Vedo i due ragazzi guardarmi sorpresi, ma è solo un
attimo, poi inizia la discesa e il mio corpo assume pose scomposte,
disarticolate.
Il mio cuore batte ancora più forte, ogni respiro
è un
gemito, ma nonostante tutto sorrido.
È finalmente finita, nel bene e nel male.
Non mi sposerò mai, non avrò mai figli o nipoti,
ma
almeno avrò salvato qualcuno che vale molto più
di me.
Finalmente tocco terra, la mia testa si scontra con il
duro asfalto e fa male.
Sento un dolore pulsante sopra le orecchie e qualcosa di
caldo e vischioso che cola lungo il collo e le urla dei due ragazzi.
Alzo leggermente gli occhi finché sono cosciente e vedo
Jordan parlare al cellulare e la donna urlare frasi senza senso, il
traffico è
bloccato.
Ho scelto una morte in grande stile.
Lee invece è chino su di me e i miei occhi scuri si
scontrano con i suoi blu, spalancati a dismisura per il terrore e il
dolore.
Non mi tocca perché tutti sanno che non è
consigliabile spostare un ferito, si
potrebbero peggiorare le sue condizioni, ormai però per me
è troppo tardi.
Sono già messa male di mio e spostarmi non cambierebbe di
un millimetro la mia sorte.
“Ehi, vedi di non morire! Abbiamo chiamato
l’ambulanza!”
Come se servisse a qualcosa!
Con le mie ultime forze mi tolgo la collana con il
simbolo del fiore della vita e gliela porgo sporca di sangue
com’è.
“Addio… e…grazie.”
Dico con una voce così roca che non sembra nemmeno la
mia.
Le mie forze mi abbandonano del tutto, il mio campo
visivo si restringe sempre di più, il nero avanza e alla
fine vince.
Sono nelle braccia della morte e mi sembra un enorme
sollievo, niente più giorni grigi.
Il primo rumore che sento ritmico
del bip-bip che segna
il battito del mio cuore.
Sono ancora viva dopotutto, ma le mie palpebre sono
troppo pesanti per alzarsi.
Torno nel nero.
Dopo non so quanto tempo il bip-bip torna a farsi sentire
e questa volta riesco a muovere un po’ una mano e ad aprire
un po’gli occhi,
questo basta a creare un certo caos nella mia stanza.
Medici entrano ed escono, mi controllano e mi comunicano
che ho un braccio e una gamba rotta, che mi hanno trapiantato un nuovo
stomaco
e un pancreas e che il mio trauma cranico si sta riassorbendo.
La mia testa era conciata male, ma ce l’hanno fatta a
salvarmela.
Sono stata in coma per un mese e mezzo e ormai iniziavano
a perdere le speranze per un mio possibile risveglio.
“Però, ha fatto un gesto davvero eroico, signorina
Williams.”
Io sorrido.
Dopo che tutti i medici se ne sono andati, la porta si
apre e un Lee dalla barba un po’ lunga entra nella stanza,
noto che ha ancora
al collo la mia collana insanguinata e delle brutte occhiaie.
“Ciao…”
“Fay.”
Si toglie il berretto di lana grigia e se lo rimette, poi mi fissa
negli occhi.
È bello vedere di nuovo quegli occhi blu.
“Grazie per avermi salvato la vita, non so come facessi a
sapere che rischiavo di essere investito, ma grazie.
È grazie a te se sono vivo.”
“Non c’è di che. Sono io che ti devo
ringraziare di esserti preoccupato per
me.”
Lui muove la mani come a dire che è poco importante,
senza sapere che per me lo è e molto.
“So che ti ci vorrà un po’ per uscire di
qui, ma quando
succederà ti andrebbe di venire a cena con me?”
“E Deni cosa dice?”
“Io e lei non stiamo più insieme, non le piaceva
che venissi da te tutti i
giorni.”
“Mi dispiace, non avresti dovuto rompere con le per causa
mia, non è giusto.”
Lui scuote le spalle.
“Allora, vieni a cena con me?”
“Sì.”
Io sorrido, lui sorride.
Forse lo scopo del mio potere non era solo salvare la
vita di Lee, ma anche la mia.
Questa interpretazione mi piace di più, sa di futuro.
E per la prima volta in anni il futuro ha un buon sapore.
Bentornata in vita, Fay.
Esco dal mio antro oscuro solo per il compleanno di Lee, tantissimi auguri a lui!
Spero che questa storia possa piacere a qualcuno.
Torno nel mio antro.